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| << | < | > | >> |Pagina 1«Ti ho fatto male?».«No». «Ce l'hai con me?». «No». Era vero. In quel momento tutto era vero, perché viveva ogni cosa così come veniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare che un giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire. E non solo tutto era vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto sfatto, nuda, con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma. Era felice? Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto di sì senza esitare. Non gli passava neanche per la testa di avercela con Andrée perché gli aveva morso il labbro. Faceva parte dell'insieme, come tutto il resto. In piedi, anche lui nudo, davanti allo specchio sul lavandino, si tamponava la bocca con un asciugamano imbevuto d'acqua fredda. «Tua moglie ti chiederà spiegazioni?». [...] La camera era azzurra, di un azzurro - aveva notato un giorno - simile a quello della liscivia. Un azzurro che lo riportava all'infanzia, ai sacchetti di tela grezza pieni di polvere colorata che sua madre diluiva nella tinozza del bucato prima di risciacquare la biancheria e stenderla sull'erba scintillante del prato. A quel tempo lui doveva avere cinque o sei anni, e si chiedeva come mai una polverina azzurra potesse ridare il bianco ai tessuti. Gli sembrava un miracolo. In seguito, quando la madre era morta da un pezzo e ormai i tratti di quel viso familiare cominciavano a svanire dalla sua memoria, si era anche chiesto perché la povera gente come loro, nonostante gli abiti rattoppati, attribuisse tanta importanza al candore della biancheria. Era a questo che stava pensando in quel momento? L'avrebbe capito soltanto dopo. L'azzurro della camera non somigliava solo al colore della liscivia, ricordava anche il cielo di certi caldi pomeriggi d'agosto, prima che il tramonto lo tinga di rosa e poi di rosso. Perché era proprio un tardo pomeriggio di agosto, più precisamente erano le cinque del 2 agosto, e sul tetto della stazione, la cui facciata bianca era immersa nell'ombra, cominciava a far capolino qualche nuvola dorata, leggera come panna montata. «Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?» . Registrava automaticamente le parole di Andrée senza prestarvi una particolare attenzione. Non più di quanto facesse con le immagini o gli odori. Come poteva sapere che avrebbe rivissuto quella scena decine e decine di volte? E sempre in uno stato d'animo diverso, da un punto di vista diverso... Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo dettaglio. Non tanto di sua spontanea volontà, ma perché altri l'avrebbero costretto a farlo. Il professor Bigot, per esempio, lo psichiatra incaricato dal giudice istruttore, gli avrebbe chiesto con insistenza, spiando ogni sua reazione: «Andrée la mordeva spesso?». «È capitato». «Quante volte?». «Ci siamo incontrati solo otto volte in tutto, all'Hotel des Voyageurs». «Otto volte in un anno?». «In undici mesi... Sì, undici, visto che la cosa è iniziata a settembre...». «Quante volte l'ha morso?». «Tre, forse quattro». | << | < | > | >> |Pagina 60Quelli di Poitiers - poliziotti, magistrati, medici, perfino l'inquietante psicologa - erano convinti di poter accertare la verità. Ma ignoravano pressoché tutto dei Despierre, dei Formier, e di tanti altri, che pure avevano la loro importanza.E di Tony che cosa sapevano? Certo meno di quanto ne sapesse lui stesso, no? La signora Despierre era senza dubbio la personalità più in vista a Saint-Justin, addirittura più in vista e più temuta del sindaco, che pure era un ricco mercante di bestiame. In un paese in cui gli uomini e le donne della stessa generazione erano andati a scuola insieme, ben pochi si permettevano di chiamarla Germaine e meno che mai di darle del tu. Per tutti era la signora Despierre. Tony se la ricordava da sempre con i capelli dello stesso grigio, ritta dietro il bancone, con un camice grigio e il viso color gesso, l'unica nota bianca, ma si sbagliava di sicuro. La prima volta che era andato in negozio a comprare qualcosa per conto dei genitori, infatti, lei doveva avere poco più di trent'anni. Aveva conosciuto anche il marito, un uomo malaticcio, vestito pure lui con un camice troppo lungo e munito di occhialetto. Si muoveva con difficoltà e aveva lo sguardo spaventato. A volte lo si vedeva vacillare, e allora la moglie lo trascinava nel retrobottega e chiudeva la porta, mentre i clienti si scambiavano occhiate d'intesa scuotendo la testa. Tony aveva sentito parlare di mal caduco molto prima di capire che Despierre soffriva di epilessia e che, al di là di quella porta chiusa, si dibatteva convulsamente, sdraiato per terra, con le mascelle serrate e la bava che gli colava sul mento. Ricordava anche di essere andato al suo funerale, insieme agli altri compagni di scuola. Tutti in fila, tranne Nicolas, che apriva il corteo con la madre. Dei Despierre si diceva che fossero tanto ricchi quanto avari. Non solo erano proprietari di molte case del paese, ma anche del piccolo borgo della Guipotte, senza contare due grosse fattorie che davano a mezzadria. | << | < | > | >> |Pagina 104Aveva guidato a tutta velocità per arrivare a casa all'ora di pranzo. Gisèle si era accorta che aveva bevuto. E lui, per qualche istante, se ne era indispettito. Che diritto aveva, solo perché l'aveva sposata, di starsene sempre lì a osservarlo? Non ne poteva più di essere spiato! Lei non diceva niente, è vero, ma era peggio che se l'avesse rimproverato.Era libero, lui! Un uomo libero! E, piacesse o no a sua moglie, era il capofamiglia. Era lui che portava da mangiare a casa, lui che tirava la carretta dalla mattina alla sera per farli uscire dalla mediocrità in cui avevano sempre vissuto. Era lui che si assumeva tutte le responsabilità! Gisèle taceva e, all'altra estremità del tavolo, anche Tony taceva. Ogni tanto le lanciava un'occhiata furtiva, vergognandosi un po', perché in fondo sapeva di aver torto. Non avrebbe dovuto bere. «Lo sai, non è colpa mia. Con i clienti non si può rifiutare». «A proposito, ha telefonato Brambois». Perché lo obbligavano a mentire? Si sentiva avvilito e pieno di rancore. «Non ho avuto tempo di andare alla sua fattoria. Sono stato trattenuto altrove». A te! A te! A te! Gisèle era lì, davanti a lui. Mangiava qualcosa - Tony non avrebbe neanche saputo dire cosa - ed evitava di guardare il marito per non irritarlo ancora di più. Che cosa si aspettava, Andrée? Che la uccidesse? Ecco che c'era arrivato! Finalmente osava affrontare i pensieri che gli si erano a lungo agitati dentro la mente. Chissà se a portarlo fin lì non era stato proprio il professor Bigot, con quelle domande discrete, che scavavano via via sempre più in profondità, come la punta di un trapano. Certo, Tony non gli aveva detto tutto. Aveva continuato a negare, contro ogni evidenza, di aver ricevuto le lettere.
È vero però che, mentre era seduto a tavola con la moglie, quel giorno - il
giorno dell'ultimo messaggio e dei quattro bicchieri di acquavite a
sessantacinque gradi che bruciava in gola -, la domanda lui se l'era posta.
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