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| << | < | > | >> |Pagina 13Le otto di sera. Per milioni di uomini, ciascuno nella sua casa, nel piccolo mondo che si è creato o di cui è ostaggio, sta volgendo al termine, fredda e nebbiosa, una precisa giornata, quella di mercoledì 3 febbraio.Per René Maugras non c'è né ora né giorno, e solo più tardi la questione del tempo trascorso lo assillerà. Per il momento è ancora in fondo a una voragine scura come gli abissi dell'oceano, privo di contatti con il mondo esterno. Eppure, senza che ne sia cosciente, il suo braccio destro comincia ad agitarsi in modo spasmodico mentre la guancia si gonfia comicamente ogni volta che, respirando, butta fuori l'aria. Il primo segnale che gli arriva dal di fuori ha la forma di anelli, anelli sonori che si allargano via via e formano onde sempre più lontane. A occhi chiusi, cerca di seguirle, di capire, e allora succede una cosa di cui non oserà mai parlare con nessuno: riconosce quelle onde e ha voglia di sorridere loro. Quando era bambino, gli piaceva ascoltare le campane della chiesa di Saint Étienne e, indicando con grande serietà l'azzurro del cielo, diceva: «I nanelli!...». Glielo ha raccontato sua madre poco prima di morire. Lui non sapeva ancora pronunciare la parola anelli che, nella sua bocca, diventava «nanelli» e indicava così le campane per via dei cerchi concentrici che esse lanciano nello spazio. Anche qui ci sono delle campane. Lui non cerca di contarne i rintocchi perché è troppo intorpidito. E neppure quel torpore gli è sconosciuto. Lo ha già vissuto, e per un certo tempo le cose gli si confondono in testa. Forse è ancora il ragazzino di otto anni che è stato portato d'urgenza dalla scuola all'ospedale di Fécamp e al quale, mentre si dibatteva urlando, hanno messo una maschera sul viso per operarlo di appendicite... C'era stato un buco, poi, molto più tardi, uno strano sapore in bocca, una spossatezza di tutto il corpo, e infine, mentre cominciava a tornare a galla, gli anelli sonori delle campane familiari. Gli viene da sorridere, adesso, perché l'idea che gli passa per la mente gli sembra buffa e, pur non credendoci davvero, non si rassegna a scartarla del tutto. Ma non è proprio il ragazzino di Fécamp che si sta svegliando in una camera d'ospedale e poserà il suo primo sguardo su una grossa infermiera bionda e rosea che sta lavorando a maglia? Se fosse così, tutto il resto sarebbe stato un sogno. Avrebbe sognato, sotto anestesia, quasi cinquant'anni di vita. Naturalmente, non è così. Sa che non è vero, sa di essere un uomo di cinquantaquattro anni e di aver lasciato da un pezzo il piccolo appartamento di rue d'Étretat. Per alcuni minuti o secondi, più probabilmente secondi, la confusione c'è comunque stata e, nonostante tutto, lui vorrebbe controllare. Per far questo, gli basta aprire gli occhi, ed ecco che si verifica uno strano fenomeno, per niente tragico, quasi comico, anzi: fa quel che si deve fare per sollevare le palpebre, quello che si fa di solito, ovvero trasmettere un ordine del cervello a certi nervi. Ma le palpebre rimangono immobili. Non sente dolore. Il suo annichilimento è anzi alquanto piacevole, un po' come se non fosse più nessuno. Non ha più problemi, né responsabilità. Una sola ragione lo spinge a proseguire nello sforzo: ha bisogno di essere sicuro, assolutamente sicuro, che al suo capezzale non ci sia la grossa infermiera bionda e rosea che lavora a maglia. Chissà se da fuori si vede quello che sta succedendo dentro di lui... Gli anelli sonori si sono persi nell'aria, in lontananza, e anche il rumore che ora coglie gli ricorda qualcosa. Ma è troppo stanco per chiedersi che cosa sia. C'è stato lo scricchiolio di una sedia, come quando qualcuno si alza precipitosamente, e lui dev'essere riuscito ad aprire le palpebre poiché vede, vicinissimo a lui, un camice bianco, un volto giovane e ciocche di capelli scuri che sfuggono da una cuffia da infermiera. Non è la sua, e Maugras torna a chiudere gli occhi, deluso. È davvero troppo stanco per far domande e preferisce lasciarsi scivolare in fondo al suo buco. Chissà se sarà capace, più avanti, fra qualche ora o fra qualche giorno, di distinguere fra ciò che ha realmente percepito durante il coma e ciò che gli hanno raccontato in seguito... Se esiste davvero un telefono nel corridoio, di fianco alla sua camera, per esempio, e se davvero sente una voce di donna che dice: «Il professor Besson d'Argoulet?... Non è in casa?... Sa per favore dove trovarlo?... Ha raccomandato di avvertirlo non appena...». Domani verrà a sapere che sì, vicino alla porta della sua stanza, c'è effettivamente un telefono a muro, di modello antiquato. Tutto questo non ha ancora un senso e, quando ne assumerà uno, riguarderà solo lui. Alle nove e mezzo continua a non sapere che sono le nove e mezzo e il suo risveglio è più brutale, più drammatico, come dopo un incubo, come se avesse sognato che doveva aggrapparsi a ogni costo a qualcosa di solido. Solo che le forze lo hanno abbandonato. Le sue membra si agitano a vuoto, in modo sconnesso, senza che lui possa controllarle. Allora vuole gridare, chiamare aiuto. Apre la bocca. È quasi sicuro di spalancare la bocca, ma non ne esce alcun suono. Deve assolutamente vedere ciò che ha intorno. Il suo corpo è coperto di sudore, la fronte è madida, eppure ha freddo, trema tutto senza riuscire a dominarsi. «Non preoccuparti... Va tutto bene... Va tutto benissimo...». Quella voce la conosce. Cerca di identificarla con precisione e improvvisamente vede, tutto in una volta, non solo un viso e una cuffia bianca, ma anche una camera sconosciuta, dalle pareti verdastre. In piedi, accanto al letto, Besson d'Argoulet – che lui chiama Pierre, perché sono amici da trent'anni – offre uno spettacolo quasi comico: sotto il camice sbottonato indossa un gilè e la cravatta bianca del frac. «Sta' tranquillo, ragazzo mio... Va tutto bene...». Va tutto bene per il professore, ovvio, che continua distrattamente a sentirgli il polso. Non è lui a star disteso in quello che ha tutta l'aria di essere un letto attorno al quale l'infermiera bruna si dà da fare. Non si è sbagliato poco fa. Deve aver ripreso conoscenza per qualche istante, visto che la riconosce. «Non hai niente di grave, René... Tutti gli esami lo confermano... Faremo altri accertamenti, qualche piccola seccatura ancora, ma è indispensabile... Da un momento all'altro dovrebbe arrivare Audoire...». Chi è Audoire? Un nome che dovrebbe essergli noto: non conosce forse tutti, a Parigi? L'infermiera ha posato su un vassoio una siringa con un ago molto lungo e molto spesso; tende ansiosamente l'orecchio ai rumori del corridoio continuando a tenere d'occhio Maugras, e quando si sente una porta aprirsi e richiudersi, si precipita. «Prima di tutto non meravigliarti se...». Infatti si meraviglia, perché ha appena aperto la bocca. Non per lamentarsi, né per fare domande. In realtà, aveva intenzione di dire, osservando lo sparato e la cravatta bianca: «Mi dispiace, vecchio mio, di rovinarti la serata...». Ma non ha emesso alcun suono. Non ha più voce. Niente! Neanche un rantolo. Giusto una sorta di sibilo, o meglio di gloglottio, dato che la guancia gli si gonfia e gli si sgonfia in modo grottesco. Sembra un bambino che cerchi di fumare la pipa. «... Starai probabilmente qualche giorno senza poter parlare...». Bisbigli nel corridoio. Lui è vigile, i sensi ben desti, quanto meno alcuni, poiché percepisce un odore di sigaretta. «Ti fidi di me, vero?... Sai bene che non ti mentirei mai...». Perché fargli la domanda, dal momento che lui non può rispondere? Direbbe sì di buon grado per far piacere all'amico Pierre. Un sì senza convinzione. Un sì educato, apatico, perché non gli importa di niente e preferirebbe rituffarsi nel suo buco, e magari ritrovare i cerchi sonori delle campane. | << | < | > | >> |Pagina 54Credono che abbia voglia di morire, mentre questa è solo una parte della verità. Morire gli è indifferente. La morte, come lui se la figura, ha anche un lato odioso. L'odore, innanzitutto. E quella che chiamano la vestizione del morto. La decomposizione. È mortificato all'idea di infliggere agli altri questo schifo. E poi, deve confessarlo, c'è la bara. Ha un bel ripetersi che a quel punto non si renderà più conto di niente, questo non gli impedisce di soffrire, in anticipo, di claustrofobia.Non appena potrà parlare, se mai un giorno riacquisterà la parola, o appena avrà imparato a scrivere con la sinistra, dovrà esprimere la sua volontà di essere cremato. Non vuole assolutamente che lo circondino di fiori, che in una camera mortuaria hanno un lezzo lugubre. E niente ceri, paramenti, ramoscelli di ulivo benedetto. L'ideale, una volta reso l'ultimo respiro, sarebbe venir trasportato al colombario da addetti anonimi, senza essere visto da nessuno di quelli che l'hanno conosciuto. Lui accetta la morte, ma non tutto il cerimoniale che l'accompagna. Non gli importa se la fine arriverà tra poche ore, cioè il quarto o il quinto giorno come per Félix Artaud, o tra qualche anno, come nel caso di Jublin. Ci pensa con calma, senza terrore né sentimentalismo. È questo che vogliono impedirgli di fare? Lo capiscono dunque così a fondo, e Audoire, che lo guarda appena, lo conosce forse più di quanto sembri? È molto importante. Importante per lui. Non per gli altri. Per gli altri – medici, personale dell'ospedale, amici del Grand Véfour, collaboratori del giornale – si tratterà soltanto di un incidente. «Non c'era niente da fare...» dichiareranno i medici. Le due italiane prepareranno la camera per un altro paziente del professore, che forse sta già aspettando il suo turno. Gli amici mormoreranno: «Poveraccio!». E aggiungeranno, come ha fatto anche lui in occasioni simili: «Quanti anni aveva esattamente?». Chi ha meno di quarant'anni troverà abbastanza normale, dopotutto, che lui se ne vada a cinquantaquattro. I più anziani avvertiranno una sottile inquietudine, che però non durerà molto. Quanto a Lina, distrutta, ricorrerà al whisky e, come è successo tante volte, dovranno chiamare il dottore del George V per praticarle un'iniezione che la farà piombare in un sonno lungo e profondo. Si abituerà. Lui non le è indispensabile. Si chiede se per lei non sia stato semmai nefasto, e se non sarà più felice, più equilibrata, da vedova. Delle tre donne che hanno avuto un posto significativo nella sua vita, solo una se l'è cavata senza danni, Hélène Portal, una giornalista che lavora ancora per lui e che si è rifiutata di sposarlo. Gelosa della propria indipendenza, non ha mai accettato di vivere insieme a lui e, per anni, ciascuno dei due ha conservato il proprio appartamento e la propria cerchia di amici. Ecco, è così che ha bisogno di pensare, pacatamente, senza essere spiato, senza che l'uno o l'altro si affretti a strapparlo al suo monologo interiore. Non si tratta di un esame di coscienza, né gli interessa fare un bilancio. È un po', in certi momenti, come sfogliare a casaccio un album di fotografie, senza preoccupazioni di seguire l'ordine cronologico. Questa mattina, per esempio, poco prima del succo d'arancia e della tazza-pipa, si è rivisto, diciassettenne, in quai Bérigny, a Fécamp. Da poco si era lasciato crescere i baffi, che avrebbe tenuto solo poche settimane. Era autunno, fine ottobre o primi di novembre, perché i pescherecci, per lo più ancora a vela, cominciavano a rientrare. Lui indossava un soprabito grigio picchiettato di punti rossicci, di lana scadente e comprato bell'e fatto, il che non gli impediva di esserne alquanto fiero. Il cielo era gonfio di pioggia, come spesso da quelle parti, e l'acqua del porticciolo quasi nera. C'erano alcuni vagoni attraccati alla banchina, e dai pescherecci si scaricava, alla rinfusa, il merluzzo che impregnava tutta la città del suo odore. I marinai, sbarcati già dal mattino, se n'erano andati a braccetto con le mogli, che erano venute ad aspettarli in cima al molo, e avevano cominciato a sventolare i fazzoletti appena il peschereccio aveva imboccato il canale. Non tutti avevano moglie e figli. Molti, che avevano passato mesi e mesi sui banchi di Terranova, erano già seduti ai tavoli dei bistrot del porto a bere caffè corretto o acquavite. Perché quell'immagine piuttosto che un'altra? Era scialba e piatta come una cartolina illustrata da quattro soldi, e aveva la stessa crudele precisione. Rivedeva ogni facciata, i nomi dipinti sopra i negozi e i ristoranti, la casa, più grande delle altre, che ospitava gli uffici di Firmin Remage, l'armatore per il quale lavorava suo padre. Risalire all'anno era facilissimo: 1923! Cinque anni dalla fine della guerra, dieci dalla morte di sua madre, un anno e mezzo da quando aveva lasciato il liceo Guy-de-Maupassant per entrare nello studio del notaio Raguet in rue Saint-Étienne. Da qualche mese era anche il corrispondente a Fécamp del «Phare du Havre» e aveva in tasca il tesserino da praticante, con tanto di fotografia, che lo riempiva di orgoglio. Quella mattina, suo padre stava in piedi tra i vagoni e la goletta arrivata in porto con la marea, la Sainte-Thérèse, René si ricordava ancora il nome. Tutte le navi del signor Remage portavano il nome di una santa. Munito di una matita viola, suo padre contava le balle di merluzzo che venivano caricate nei vagoni. Il fatto che anche lui si trovasse sulla banchina anziché nello studio del notaio dipendeva da un incidente avvenuto a bordo quando la goletta navigava ancora in alto mare. Un uomo era sparito in circostanze sospette e la polizia stava svolgendo un'inchiesta sul posto. Maugras rivedeva ogni cosa, gli alberi e i pennoni, e la macchia nera dei motopescherecci ormeggiati fianco a fianco; gli pareva ancora di sentire i colpi di martello sullo scafo di una barca in costruzione sull'alzaia della Marna. Suo padre aveva baffi di un biondo spento e l'espressione seria e pacata di un uomo consapevole di compiere il proprio dovere. Per sguazzare nel fango appiccicoso della banchina calzava zoccoli lucidati come scarpe. Non era il principale collaboratore del signor Remage, ma una delle ultime ruote del carro, uno scritturale, come si dice, e guadagnava meno dei marinai. René aspettava, accanto a una bitta, che il commissario di polizia finisse di interrogare il capitano della nave per rivolgergli a sua volta alcune domande. Era giovane. A parte l'appendicite, non si era mai ammalato. Ma quella mattina, giusto quella mattina, era stato assalito all'improvviso da uno scoraggiamento che gli pareva irrimediabile. Guardava la cittadina grigia, le insegne, le golette e i motopescherecci che vedeva nei bacini fin da bambino, il cantiere navale dall'altra parte della chiusa, il mare, in lontananza, che si alzava e si abbassava indifferente, e infine suo padre, che viveva la propria umiltà o la propria mediocrità con quieta soddisfazione – e di punto in bianco aveva scoperto l'inutilità di tutto. Lo circondava un mondo senza senso, e a lui sembrava di non farne più parte. Forse non vi aveva mai fatto parte. E lo osservava, quel mondo, non più dall'interno, ma dall'esterno, da estraneo. A che scopo? | << | < | > | >> |Pagina 132Sono rimasti soli nella camera e, come ogni volta che si trovano a tu per tu, provano entrambi un malessere che si sforzano di nascondere. Succede da tempo, da anni ormai. Già in rue de la Faisanderie, quando non dormivano ancora in camere separate, il disagio si manifestava con silenzi, o frasi banali così estranee ai loro rovelli da risultare più penose dell'assenza di parole. Gli sguardi si evitavano e quando, inavvertitamente, si incontravano, ognuno cercava di sorridere.Fuori continua a piovere. Ci sono gocce d'acqua sull'impermeabile di Lina, sui suoi capelli scuri che scendono dritti, lungo l'ovale stretto del viso, fino alle spalle, dove un'onda larga ne solleva le punte. Come Clabaud, la sua prima occhiata è andata alle gambe sollevate e lui ha capito benissimo che è rimasta scioccata a vederlo così, a testa in giù, posizione che deve alterare alquanto la sua fisionomia. «Buongiorno, René... Ti disturbo?... Avevi finito con Georges?...». La signorina Blanche è uscita dietro all'avvocato e, per discrezione, resta fuori. A lui è sembrato che lo lasciasse un po' a malincuore, intuendo che quella visita rischia di turbarlo. Lina è in piedi e dal soprabito aperto si intravede un tailleur di Chanel che lei mette soprattutto nel week-end. Non ha bevuto, o almeno si è limitata al bicchierino indispensabile. Dev'essersi alzata intorno a mezzogiorno. È uscita, la sera prima? Probabile. Poi avrà chiamato Clarisse, la sua cameriera personale. Quando si sono sistemati alla Résidence George V, che garantisce loro tutti i servizi, lui ha insistito perché Lina tenesse ugualmente con sé Clarisse: lei non sopporta la solitudine. Ha sempre bisogno di qualcuno con cui parlare. Non di lui. Con lui non parla. Lo fa con chiunque altro, al limite con un barman che non conosce. Che cosa avrà mangiato? Un uovo e una fetta di prosciutto? Non fa quasi mai un vero pasto. Mangia sempre di meno, non perché sia a dieta, visto che niente la fa ingrassare, ma perché non ha più appetito. Lui sa che ha bevuto un solo whisky perché le sue mani hanno ancora il tremito della prima parte della giornata, il tremito tipico dei drogati. Un whisky lo attenua appena, e solo a poco a poco, a mano a mano che passano le ore e che i whisky si moltiplicano, Lina acquista sicurezza, ritrova la sua vitalità e persino un'allegria non fasulla. Rientrando dal giornale nel tardo pomeriggio per cambiarsi, le ha sentite spesso ridere, lei e Clarisse, ma al suo apparire ridiventavano serie. Di che cosa ha paura Lina? Perché ha paura, questo è certo. Da tempo lui cerca di capirlo, ma invano. Periodicamente gli vengono in mente delle spiegazioni, sempre le stesse, che al momento gli sembrano plausibili; poi un atteggiamento di Lina, una parola sfuggita per disattenzione, o una scenata come sempre più spesso ne scoppiano tra loro, rimette tutto in questione. Oggi non ha telefonato per sapere se lui avesse voglia di vederla. Questo significa che, come Clabaud, deve chiedergli qualcosa e, per via del tailleur Chanel, lui sa di che si tratta. «Ti sembrerà che il tempo non passi mai, povero il mio René, specie da quando stai meglio... Non vuoi che ti faccia avere la tua radiolina?... Ti lasciano leggere?... Forse tra un paio di giorni potranno metterti in camera la televisione...». La conosce, quella voce un po' atona, quella mollezza del labbro inferiore di quando lei parla senza convinzione, senza pensare a ciò che dice, solo per sfuggire al silenzio. È anche vero, però, che dev'essere alquanto sconcertante rivolgersi a qualcuno che non è in grado di rispondere e di cui si è costretti a spiare gli sguardi. Non ci aveva ancora pensato. Sarà per questo che tutti quelli che lo avvicinano, medici compresi, si comportano in modo così poco naturale? È fatale che vi siano dei tempi morti, l'interlocutore non può parlare senza sosta. Solo Clabaud ci è più o meno riuscito, ma è il suo mestiere. Lina non sa dove mettersi, non sa se restare in piedi o sedersi. «Posso fumare?». Lui fa segno di sì e poco dopo sente il rumore caratteristico del portasigarette d'oro che si richiude e lo scatto dell'accendino, anch'esso d'oro. «Nonostante la pioggia, è pieno di macchine che filano fuori città come in primavera...». Ha dei begli occhi color nocciola – to', gli è tornata in mente l'espressione di una delle sue zie ma vi si coglie sempre una sorta di smania, come se Lina non si rilassasse mai, come fosse rosa da un pensiero che si ostina a tenere per sé. Maugras non vuole pensarci. La visita di Clabaud gli ha lasciato un senso di vergogna, e tra quello e la visita di sua moglie non c'è stata soluzione di continuità. Non è esattamente vergogna, né disgusto. È sorpreso, scosso, come se avesse appena fatto una scoperta, come se lo avessero messo improvvisamente davanti a una realtà che si è sempre rifiutato di vedere. Ha fretta che Lina se ne vada. Se potesse parlare, le direbbe: «D'accordo, cara... Va' pure... E divertiti...». Lei lo guarderebbe ancora una volta con l'aria di una colpevole smascherata. Perché è così che si sente, colpevole. A volte lui crede di sapere perché. Anche lui si sente in colpa, in un altro modo, ma non è una questione da affrontare quando si ha la febbre. Chissà se ce l'ha ancora... Non è particolarmente abbattuto. Si sente come un cane rintanato nella sua cuccia intento a seguire con gli occhi la gente che passa e a fiutarla da lontano. «Non so cosa fare... Marie-Anne mi ha telefonato alle due... Sai com'è lei... Fa dei progetti e non concepisce che gli altri non vi aderiscano con entusiasmo... Le ho risposto che...». Poco importa quello che Lina le ha risposto. Il risultato sarà lo stesso, e non solo perché Marie-Anne è effettivamente autoritaria. A Parigi, le persone che contano, parlando tra loro, la chiamano semplicemente Marie-Anne, come se fosse l'unica al mondo a chiamarsi così. Il suo nome è Marie-Anne de Candines, ed è contessa. Il marito è morto da dieci anni. L'unico ruolo che abbia avuto nella vita di lei è stato quello di darle il suo nome, e Marie-Anne si è sempre comportata come se lui non esistesse. Era un ragazzo biondo e scialbo, uno degli ultimi parigini a portare il monocolo e a dividere il proprio tempo tra il club, la sala di scherma e l'ippodromo. Lei è ebrea, imparentata più o meno da vicino con i Rothschild. Suo padre era un banchiere. È morto anche lui, e la madre, a quasi ottant'anni, conduce ancora un'esistenza assai mondana nella sua proprietà di Cap d'Antibes. Marie-Anne è l'esponente principale di tutti quelli che conducono un certo tipo di vita e ostentano certi gusti. Nel suo palazzetto di place de l'Alma e al castello di Candines riunisce intorno a sé giovani e meno giovani, scrittori e scrittrici, cineasti, sarti, belle ragazze che calcano le scene o vorrebbero farlo, un paio di pittori e un certo numero di omosessuali. Ha avuto diverse relazioni piuttosto lunghe e non lo nasconde. Tutti sanno che benché abbia quasi sessant'anni, riceve ancora le assidue visite di un diplomatico che non di rado passa anche la notte da lei. Costui, però, non fa parte della combriccola, e ne sta anzi alla larga. «Adoro gli omosessuali!» le piace dichiarare. «Sono gli unici a capire le donne, i soli che, al di fuori dell'amore, non siano noiosi...». Maugras vorrebbe dire a Lina: «Va', sbrigati... Ti aspetta...». È sempre così con sua moglie: ha talmente paura di essere fraintesa o giudicata male che impiega un'eternità a esprimere il pensiero più semplice. «Vanno tutti a passare la domenica a Candines... Marie-Anne parte da casa sua alle cinque...».
Sono le tre e mezzo. Considerando il traffico del
sabato, Lina ci metterà quasi un'ora ad arrivare in
place de l'Alma. Che vada, dunque!
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