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| << | < | > | >> |Pagina 9Avvenne tutto in maniera brutale, istantanea. Eppure, lui non se ne stupì, né si ribellò, quasi se lo aspettasse da sempre. Nel giro di pochi secondi, nel momento stesso in cui il clacson si mise a urlargli dietro, lui seppe che la sciagura era inevitabile e che la colpa era sua. A inseguirlo, con quel suono rabbioso e spaventato, non era un clacson normale, ma un muggito simile a quello lugubre e lacerante che sale dai porti nelle notti di nebbia. Vedere, nello specchietto retrovisore, la massa bianca e rossa di un enorme pullman che avanzava a tutta velocità e il volto contratto di un uomo brizzolato, e rendersi conto che stava occupando il centro della carreggiata fu tutt'uno. Non pensò neanche a liberare la mano che Edmonde continuava a tenere imprigionata fra le sue cosce. Non ne avrebbe avuto il tempo. Era quasi arrivato in fondo alla Grande Côte, nel punto in cui la strada girava a sinistra, ad angolo retto, e da lontano sembrava sbarrata dal muro di cinta che circondava i terreni dello Château-Roisin. Da qualche minuto aveva cominciato a piovere, e l'asfalto era già scivoloso. Stranamente, in quell'attimo, lui accettò tutto, l'incidente e il fatto che fosse colpa sua, seppe che, da allora in poi, la sua vita sarebbe stata divisa in due, che forse era addirittura prossima la fine e, senza troppa convinzione, fece l'unica cosa che restava da fare: con la sola mano sinistra, sterzò cercando di raddrizzare la Citroën, ma, come c'era da aspettarsi, invece di rimettersi sulla destra, la macchina sbandò, eseguì un testa-coda e si piazzò in mezzo alla strada. Il pullman riuscì miracolosamente a passare lo stesso, e a Lambert parve di udire l'insulto che il conducente, con la faccia stravolta, gli vomitava contro; vide, dietro i finestrini, tante teste di bambini ignari; poi ci fu un urto, uno squarcio di lamiere e il pullman, dopo essere andato a sbattere contro un albero, continuò a precipitare, di traverso e a rotta di collo, in fondo al pendio. La sua macchina, invece, che si era quasi fermata, ripartì come se niente fosse, di nuovo governabile, mentre il pullman andava a sbattere con tutta la sua mole, in un tremendo colpo d'ariete, contro il muro dello Château-Roisin. Lambert non si fermò – pensò a fuggire, non a fermarsi, per non vedere –, ed ebbe sufficiente presenza di spirito per decidere di non proseguire lungo la statale ma di svoltare a destra, imboccando la scorciatoia che portava alla Galinière. Edmonde non aveva urlato, non si era mossa. Lambert ne aveva percepito solo un lieve irrigidirsi del corpo, un inarcarsi all'indietro, e gli era parso che avesse chiuso gli occhi. Non osava guardare nello specchietto retrovisore per vedere ciò che stava succedendo dietro di lui ma, prima di affrontare la curva, non poté evitare di dare un'occhiata e di scorgere un mostruoso braciere. Mai, in tutta la sua vita, aveva provato una sensazione così atroce, neanche quando era rimasto sepolto sotto terra per lo scoppio di una granata. Sembrava impossibile che potesse continuare a guidare, a guardare dritto davanti a sé, a respirare. Qualcosa, nella sua testa o nel suo petto, stava per andare in pezzi, ed era talmente sudato che le mani gli scivolavano sul volante. Per un attimo pensò di fermarsi, di tornare indietro; non ne ebbe il coraggio. Era al di sopra delle sue forze. Non voleva vedere. Il panico, come una forza incontrollabile contro la quale Lambert si sentiva del tutto impotente, lo spingeva a proseguire. Eppure certi particolari riusciva a metterli a fuoco. A un centinaio di metri dalla curva, dal muro contro il quale il pullman era andato a sbattere, c'erano una pompa di benzina e un negozio di alimentari con mescita gestito dai Despujols. Li conosceva. Lui conosceva tutti, in città, in un raggio di dieci chilometri. La vecchia Despujols era sorda, ma il marito, che probabilmente a quell'ora stava lavorando nel giardino, doveva aver sentito lo schianto. Chissà se avevano il telefono... Questo non riusciva a ricordarselo. Se non ce l'avevano, Despujols avrebbe dovuto farsi quasi un chilometro per raggiungere la frazione di Saint-Marc e dare l'allarme. E poiché non aveva la macchina, ci sarebbe andato in bicicletta. Lambert non osava ancora guardare Edmonde, che continuava a restare immobile. Doveva essersi abbassata il vestito senza che lui se ne accorgesse, perché Lambert non vedeva più la macchia chiara delle ginocchia. Bisognava fare qualcosa, andare da qualche parte, non sapeva ancora dove. Adesso che aveva superato la curva e preso la strada della Galinière, non aveva più modo di tornare indietro. E non doveva neppure farsi vedere nel paese, che distava ottocento metri; così imboccò la prima strada sterrata sulla sinistra, terrorizzato all'idea di incrociare un contadino. Una volta raggiunta la statale del Coudray sarebbe stato in salvo, avrebbe potuto sostenere che veniva da una qualsiasi direzione, che non sapeva niente, che non era neanche passato, quel giorno, dalla Grande Côte. Sulla destra si materializzò una fattoria, ma lui non vide nessuno. Continuava a piovere, una pioggia di fine estate che scendeva in lunghi segmenti, già quasi una pioggia autunnale. I battiti del suo cuore erano ancora accelerati, la mano sudata continuava a tremare sul volante. Provava vergogna ed era profondamente infelice. Ciò nonostante, già si costringeva a pensare a tutto, a prevedere ogni eventualità, e udì se stesso annunciare a voce alta: «Ci fermeremo a Tréfoux». Era quasi dall'altra parte della città, e la strada del Coudray girava intorno all'abitato. Tutte le strade gli erano familiari perché possedeva dei cantieri un po' ovunque e non mancava di farvi un'ispezione pressoché ogni giorno. Stava tornando appunto da uno di quei cantieri, alla fattoria Renondeau, dove i suoi operai erano impegnati a montare un capannone metallico. Ed era stato lui a costruire la latteria sociale di Tréfoux, con annesso un caseificio modello, e ora la sua impresa stava tirando su, a duecento metri da quei fabbricati, una grande porcilaia destinata a utilizzare i sottoprodotti. Aveva lavorato molto, più ancora di suo padre, più di qualsiasi altro imprenditore della città, ed ecco che all'improvviso quei venticinque anni di lavoro venivano compromessi. Quanti secondi c'erano voluti? Davvero pochi. Neanche il tempo di liberare la mano destra. Il pullman doveva aver strombettato una prima volta a metà circa della salita. Non ne era sicuro. Non ci aveva badato. E tuttavia quel particolare gli riaffiorava alla memoria come a volte riaffiorano sprazzi di sogno. Il pullman aveva suonato il clacson per segnalare il proprio passaggio; andava veloce, riportava a Parigi o in qualche altra città del Nord i bambini di una colonia estiva. Lambert sbucò sulla strada del Coudray, e da quel momento fu un po' come se ritornasse alla vita. Sulla carreggiata asfaltata passavano macchine, camion, a trecento metri si vedeva una pompa di benzina rossa, e un po' più in là una locanda con dei tavoli all'aperto. Gli venne quasi la tentazione di fermarsi a bere qualcosa, magari per crearsi un alibi buttando là con aria indifferente che veniva dalla fattoria Renondeau ed era diretto a Tréfoux. Ma forse erano precauzioni eccessive, che rischiavano addirittura di danneggiarlo... In effetti, gli capitava spesso di fermarsi in un'osteria di campagna a bersi una mezza bottiglia di bianco, ma mai quando era in compagnia della segretaria. Edmonde lo accompagnava di rado. Chissà perché, quella volta, prima di recarsi alla fattoria Renondeau, le aveva detto di punto in bianco: «Signorina Pampin, prenda le copie del progetto, e mi aspetti in macchina». Suo fratello Marcel, che si trovava in ufficio, lo aveva guardato nel solito modo calmo, esasperante che gli era proprio. Che cosa poteva capirci, Marcel? Ciascuno vive la vita che più gli piace. Marcel si era scelto la sua e ne sembrava soddisfatto. Non era un motivo sufficiente per imporre agli altri i propri princìpi. «Hai bisogno dei progetti?». Guardando il fratello negli occhi, Joseph Lambert aveva risposto: «Sì». Non era la prima volta che si scontravano, ammesso che si potesse parlare di scontri, visto che Marcel batteva immancabilmente in ritirata. E anche in questo caso è solo un modo di dire, perché Marcel si limitava a non insistere e accennava un sorriso, leggero come i baffetti biondi e soffici che portava. In quel momento non pioveva ancora, il sole inondava gli uffici che erano stati ristrutturati tre anni prima ed erano separati, come nelle aziende più moderne, da tramezzi di vetro. Solo Joseph disponeva di una stanza tutta per sé, un ufficio dove gli era persino consentito, col pretesto del sole, di abbassare le veneziane. Niente gli impediva dunque di convocarvi la signorina Pampin per dettarle qualcosa o per qualsiasi altra faccenda, giacché nessuno, nemmeno Marcel, si sarebbe permesso di entrare senza bussare. Probabilmente quello che era appena accaduto doveva accadere. Senza riflettere, senza un intento preciso lui aveva detto: «Signorina Pampin, prenda i progetti, e mi aspetti in macchina». Lei sapeva benissimo che cosa significava quella frase. Ormai erano a soli due chilometri a sud della città quando all'improvviso sentirono le sirene dei pompieri. Lambert sapeva che era troppo tardi. Aveva fatto la guerra, visto bruciare carri armati, camion, aerei abbattuti. Occorreva conservare il sangue freddo, non tendere l'orecchio al suono lacerante delle sirene che gli ricordava l'urlo disperato del pullman. Il caseificio sorgeva a valle, sulle rive dello stesso canale lungo il quale erano situati i suoi cantieri, che però si trovavano già alla periferia della città, a pochi passi da un quartiere popoloso. Gli operai che lavoravano alla nuova porcilaia avevano appena finito il loro turno e c'era rimasto solo il capomastro, che comunque si accingeva a salire in bicicletta con a tracolla il tascapane nel quale metteva il pranzo. Salutò portandosi la mano al berretto. «Buonasera, signor Joseph». | << | < | > | >> |Pagina 29Alzò gli occhi verso di lei e si domandò quale sarebbe stata la sua reazione se le avesse dichiarato:«La macchina era la mia, e non ero ubriaco». Probabilmente avrebbe esitato a condannarlo, perché nei suoi confronti aveva sempre provato solo pietà e disprezzo. Disprezzava gli uomini in generale, li considerava dei mostri, lui in particolare, sia pure un mostro a malapena responsabile delle proprie azioni. Aveva quarant'anni, e non c'era in lei la minima ombra di avvenenza o di femminilità. Chissà se aveva mai attirato su di sé degli sguardi maschili... Evidentemente sì, dato che aveva avuto un figlio, un bambino, ormai dodicenne, che era stato affidato a della gente che viveva lontano da lì, in campagna, a una quarantina di chilometri. Angèle non ne aveva mai parlato, nemmeno a Nicole, che era venuta a saperlo soltanto per caso e che, a sua volta, non gliene aveva mai accennato. Tutti gli uomini, specie quelli sul genere del suo padrone, costituivano una razza spregevole, ma non doveva nutrire maggior affetto per Nicole, dato che neppure quelli che lei definiva «i ricchi» le piacevano. Ai suoi occhi, il mondo era popolato da milioni di peccatori e da pochissimi giusti – e lei era tra quelli –, fatalmente condannati al ruolo di vittime, ma destinati, in un'altra vita, a prendersi la rivincita. «Non si è neppure fermato per prestare soccorso a quegli angeli innocenti né tanto meno ha avuto la decenza di dare l'allarme. È stato il vecchio Despujols a dover andare a piedi a Saint-Marc, da dove finalmente hanno potuto telefonare in città. Cosa bisognerebbe fargli, a uno così, io mi domando e dico...». La donna si accalorava a tal punto che lui per un attimo temette che avesse un secondo fine. La radio aveva parlato di una Citroën, per caso? «Le porto la bistecca». La mangiò come aveva mangiato la minestra, osservando di soppiatto la domestica che, quando non gli rivolgeva la parola, muoveva le labbra a vuoto come le beghine che biascicano paternostri. Per donne come lei quella era, con ogni probabilità, un'occasione insperata per sfogarsi... Dovevano essercene centinaia, in città e fuori, per le quali la sciagura dello Château-Roisin diventava una specie di valvola di sfogo... Come aveva detto a Nicole, non aveva intenzione di uscire e, finita la cena, andò in salotto, dove fu tentato di accendere la radio. Arrivò persino a girare la manopola, ma appena il quadro s'illuminò spense l'apparecchio: non ce l'avrebbe fatta. Così, andò a buttarsi sulla sua poltrona preferita. Uscivano poco, lui e sua moglie. Salvo due sere la settimana, in cui andavano a giocare a bridge da certi amici – Nicole, che non giocava, si portava dietro un lavoro a maglia –, restavano in casa da soli, scambiandosi a malapena qualche frase. Lei, di solito, sferruzzava, creando maglioncini per i poveri, perché sosteneva tutte le iniziative benefiche della città. Lui leggeva i giornali, le riviste, qualche volta un libro. Certe sere, non potendone più, si alzava di scatto e usciva per un quarto d'ora, a prendere una boccata d'aria sul lungofiume. Non c'erano mai state scenate, fra loro, né grosse liti. Impercettibilmente, poco alla volta, si era creato un vuoto. Quando l'aveva sposata, Nicole, come del resto le sue tre sorelle, era una bella, briosa ragazza, e lui era convinto che la vita con lei sarebbe stata piacevole. Suo padre, il dottor Fabre, era un buontempone, e nella loro casa regnava un'atmosfera gioiosa, tutta bisbigli e risate. Come si fosse creato quel vuoto Joseph non avrebbe saputo spiegarlo; tutto sommato, non era successo nulla di preciso: semplicemente, la scintilla non era scoccata. Nicole non era mai diventata la signora Lambert, era rimasta una signorina Fabre. Lui non osava domandare ai mariti delle altre sorelle come la prendessero loro. Barlet, l'assicuratore, non sembrava soffrire della situazione, forse perché, per lavoro, stava fuori casa tre settimane al mese. Soubise, che vendeva fertilizzanti, pensava solo a far soldi e Nazereau, il marito di Jeanne, la minore, che era impiegato in comune, sembrava lietissimo, quando rincasava dall'ufficio, di trovarci una o due cognate. Nicole, quando Joseph usciva da solo e rientrava a tarda notte, non gli rivolgeva alcun rimprovero. Molto probabilmente erano le stesse sorelle a tenerla informata sulle tresche del marito, ma lei non vi faceva mai alcun cenno. Semplicemente, una sera di quattro anni prima, dopo una scappatella che aveva destato un certo scandalo in città, mentre lui stava per infilarsi nel suo letto, aveva mormorato: «No, Joseph. Questo no. Non più, adesso». Nicole non aveva pianto. Lui era convinto che non ne avesse sofferto, che forse si fosse sentita persino sollevata. Non dormivano in camere separate perché l'appartamento non lo consentiva. Ciascuno aveva il proprio letto e la sera si spogliavano l'uno di fronte all'altro con la massima naturalezza. Se a lui capitava di ammalarsi, Nicole lo curava. | << | < | > | >> |Pagina 76Si ricordava ancora, dopo tanto tempo e con grande intensità, di un mal di denti che aveva avuto intorno ai nove anni. Era estate e, a quell'epoca, al centro del cantiere si levava ancora un tiglio. Il dentista gli aveva dato due compresse bianche, probabilmente un calmante, e poiché dopo pranzo il dolore era tornato a farsi sentire, molto forte, lui le aveva buttate giù tutte e due.«Dovresti andare a sederti in giardino e riposare» gli aveva suggerito sua madre. Sotto il tiglio c'erano un tavolo e tre poltroncine di ferro: il ragazzino si era sistemato in una di queste appoggiando le gambe su un'altra, mentre il fogliame, sopra la sua testa, tutto un ronzio di mosche, lasciava filtrare i raggi di sole. Con gli occhi socchiusi, vedeva luccicare l'acqua del canale mentre, proprio di fronte a lui, sull'altra riva, un vecchio pensionato, che poi era morto, stava seduto su un seggiolino pieghevole e pescava con la lenza. Aveva in testa un panama e fumava una lunga pipa ricurva che gli penzolava sul petto. Quello che era avvenuto allora in lui non avrebbe saputo descriverlo, e benché avesse tentato spesso, anche dopo, da adulto, di provocare nuovamente lo stesso fenomeno, non ci era mai riuscito. Che fosse il caldo, il torpore che segue al pranzo o l'effetto delle compresse... Fatto sta che continuava a sentire il dolore alla guancia sinistra, ma non si poteva più chiamarlo dolore, trasfigurato com'era in piacere, in una sorta di voluttà, la prima, insomma, che avesse conosciuto. Da un punto ben definito, ipersensibile, forse il nervo del dente malato, si irradiavano delle onde, come si irradia nell'aria il suono delle campane, onde che si propagavano in tutta la guancia, raggiungevano l'occhio, la tempia, per andare a spegnersi nella nuca. E quelle onde, lui le sentiva nascere e, a poco a poco, imparava a suscitarle, a dirigerle come una musica. Il fogliame del tiglio sopra di lui, con le sue ombre e le sue luci, il leggero oscillare dei rami, lo sciame di mosche, partecipavano alla sinfonia allo stesso modo della vita segreta del canale, del suo respiro, dei riflessi che pian piano si allargavano sfumando, del galleggiante rosso in cima alla lenza del pescatore e della macchia bianca del cappello di paglia nell'ombra. Nella fucina del maniscalco, che il vecchio Lambert non aveva ancora rilevato, il martello batteva sull'incudine con cadenza pigra e, in un cortile, chiocciavano le galline. Tutto questo si svolgeva in un mondo meraviglioso che gli ricordava qualcosa, si sforzava invano di capire cosa, un mondo dal quale lo aveva strappato la voce di sua madre. «Joseph! Sei in pieno sole!». Il sole, infatti, proseguendo la sua corsa nel cielo, aveva finito per raggiungere l'angolino sotto il tiglio dove lui si era rifugiato. «Faresti meglio a rientrare, adesso». Si era alzato, sonnolento, inebetito, e a lungo aveva serbato rancore a sua madre. Era per via di quell'esperienza, che non era più stato capace di ripetere, che Joseph non giudicava severamente suo fratello Fernand. Qual era la via di fuga che aveva trovato, lui? Joseph non lo sapeva, ma era convinto che Fernand ne avesse una e passasse buona parte del tempo su un altro pianeta. Di questo non aveva detto niente a Edmonde. Sospettava che lei stessa ignorasse quello che faceva, e ad ogni modo non doveva pensare che ci fosse qualcosa di male, altrimenti avrebbe reagito diversamente quando lui l'aveva sorpresa – e in ben più di un'occasione, in seguito. Lui invece, che in vita sua non si era mai lasciato scappare un'avventura né si era mai fatto scrupoli di sbattere una ragazza su un letto o nell'erba, adesso era pieno di dubbi e si sentiva in imbarazzo. Con le altre poteva scherzare e persino parlare di quello che stavano facendo. Con Edmonde non osava, non gli passava neanche per la testa. E non c'era alcuna comunione tra loro, né lui la cercava. C'era piuttosto una tacita complicità. Fino al momento in cui, il giorno prima, aveva sentito l'urlo atterrito del clacson e aveva scoperto, nello specchietto retrovisore, il grosso torpedone che precipitava giù per il pendio... Aveva davvero avuto la consapevolezza che la colpa era sua? Non lo sapeva più. Aveva guardato Edmonde e lei era rimasta impassibile; la sera, poi, l'aveva vista passeggiare sulla piazza sottobraccio alla madre con la stessa aria innocente che aveva in ufficio quando lui le dettava una lettera. E se avesse ragione lei?... Lambert ce l'aveva con Edmonde e la invidiava, e all'improvviso decise di rifare pari pari la medesima strada del giorno prima. Era ancora dotato di sufficiente lucidità e scaltrezza per dire a se stesso che quando la polizia, di li a un paio di giorni, avesse interrogato i contadini che avrebbero potuto riconoscerlo, questi si sarebbero confusi sulle date. Raggiunse il caseificio passando per la strada del Coudray, trovò Nicolas indaffarato e passò un quarto d'ora con lui senza vedere Bessières. «È appena andato in municipio» lo informò Nicolas. «Mi ha detto che trasferiranno i corpi alla stazione questo pomeriggio alle quattro. Mia moglie e mia nuora ci saranno sicuramente. Uffici e banche hanno dato un permesso al personale». «Vuoi andarci anche tu?». «No, signor Lambert, io non ci vado. Mi bastano i miei di grattacapi!». A mezzogiorno la piazza del municipio era ancora più animata della sera prima e sul marciapiede, davanti all'ingresso della camera ardente, si era formata una lunga coda. Ma al caffè Riche e negli altri locali dei dintorni gli avventori erano rari, come se la gente si vergognasse, quel giorno, di farsi vedere al bar. «Comprate "L'Éclair"... Edizione straordinaria...». Davanti alla sede del giornale c'era sempre una gran folla e Lambert fermò la macchina per acquistare una delle copie ancora fresche di stampa. Quando rientrò a casa, gli uffici erano chiusi e nel cantiere alcuni operai, seduti all'ombra, stavano mangiando mentre i nordafricani facevano altrettanto sotto gli alberi che costeggiavano il canale e qualcuno di loro dormiva, lungo disteso nella polvere. «Le servo il pranzo subito?» andò a chiedergli Angèle. «La signora ha avvertito che non rientrerà prima delle cinque o delle sei». Ciò voleva dire che Nicole si sarebbe unita al corteo funebre e lo avrebbe accompagnato fino alla stazione. Forse, dopo tutto, anche quella era una via di fuga... Non le aveva mai realmente serbato rancore. A volte lo irritava, lo esasperava perfino, soprattutto a causa dell'alta opinione che aveva di se stessa e della sua intransigenza.
Chissà se era davvero così sicura di sé come voleva lasciare intendere... E
se lo era anche Marcel...
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