|
|
| << | < | > | >> |Pagina 9Il cameriere, Gabriel, non aveva niente da fare. Se ne stava in piedi, con il tovagliolo sul braccio, a guardare il breve tratto di strada che si scorgeva attraverso i vetri leggermente appannati del caffè. Erano le tre del pomeriggio e cominciava a fare buio sia all'interno che all'esterno del locale. All'interno regnava una lussuosa penombra: erano lussuosi i rivestimenti in legno patinato che ricoprivano i muri e il soffitto, e il velluto color porpora dei divanetti; qua e là, nell'acqua profonda degli specchi molati, si riflettevano le poche lampadine già accese. Fuori, la strada principale, rue de Moulins: troppo stretta, con tutte quelle macchine, il tram, i negozi e la facciata aggressiva del Prisunic. Erano le tre di una giornata invernale, senza pioggia, senza neve, ma con una massa d'aria umida e fredda sospesa sotto un cielo crepuscolare. Gabriel vide la lunga limousine nera fermarsi silenziosamente accanto al marciapiede, riconobbe Arsène che lasciava il posto di guida per aprire lo sportello ed Eugène Malou che scendeva dalla macchina, congestionato come sempre, e dava disposizioni all'autista. Istintivamente Gabriel passò il tovagliolo sul legno verniciato di un tavolo, il tavolo di Malou, il migliore, ben in vista nell'angolo a sinistra, una posizione da cui si dominavano sia il caffè che la strada. La macchina ripartì. Malou entrò. Non pareva diverso dal solito. Nonostante ciò che i giornali avevano scritto su di lui quella mattina, si comportava esattamente come al solito. «Gabriel, un armagnac...». Posò sul tavolo una pila di fogli. Aveva sempre un sacco di carte in mano. Senza sedersi, si aggiustò il cappello di feltro grigio spingendoselo all'indietro sulla fronte. «Dammi un gettone...». «Non vuole che le chieda la comunicazione, signor Malou?». Fu l'unico particolare insolito: in genere, quando voleva telefonare, pregava il cameriere di chiedere la comunicazione e prima di scomodarsi aspettava che l'interlocutore fosse all'altro capo del filo. In quel momento Gabriel guardò l'ora. Le tre e due minuti. La cassiera sferruzzava. L'unico cliente del caffè, un commesso viaggiatore, scriveva da più di mezz'ora senza mai alzare la testa dal foglio. Nella luce fioca della cabina la sagoma di Malou si distingueva appena. La telefonata fu breve. Poco dopo si sentì il clic del ricevitore che veniva riagganciato. Uscì, si avviò verso il suo tavolo, bevve, restando in piedi, un sorso di armagnac, quindi, senza chiedere il conto, posò venti franchi accanto al bicchiere. A questo punto, nella giornata di Eugène Malou c'era un buco. Gabriel lo vide allontanarsi a piedi verso sinistra. Qualche vetrina era già illuminata. Nelle città di provincia quella era l'ora più deprimente, così Gabriel andò ad appoggiarsi con i gomiti sul bancone per scambiare due chiacchiere con la cassiera. Alle quattro Eugène Malou era di nuovo in rue de Moulins e svoltava a destra per una strada in discesa, più residenziale, dove i pochi negozi sembravano incastrati fra le ville imponenti. Percorse circa cinquanta metri e sollevò il batacchio in ottone di una di quelle antiche dimore in pietra scolpita, cui si accedeva da una scalinata di cinque gradini. Era la casa dei d'Estier. In città la conoscevano tutti. La facciata era riprodotta nel dépliant dell'ufficio del turismo. Un domestico in giacca bianca andò ad aprire, poi la porta si richiuse. Dall'esterno si potevano vedere due finestre rischiarate da una luce rosata, una al pianterreno e l'altra al primo piano, ma i passanti non ci facevano caso, perché quando calava la sera il freddo diventava più pungente: avevano tutti il naso rosso e gli uomini affondavano le mani nelle tasche del cappotto. Era novembre. Nell'arteria principale, un po' più su, dove i tram passavano sferragliando, attraverso le porte sempre in movimento del Prisunic si riversava in strada una musica chiassosa diffusa da un altoparlante. Proprio di fronte alla villa dei d'Estier c'era una piccola farmacia, di quelle antiche, con la facciata nera e due vetrine polverose in cui troneggiavano da una parte un boccale verde e dall'altra uno giallo. Di tanto in tanto entravano delle clienti, quasi sempre donne del popolo, in nero anche loro, a volte con un bambino per mano, e le si vedeva parlare con il farmacista, che aveva uno zuccotto sulla testa e il pizzetto sale e pepe. Potevano essere le quattro e un quarto, forse le quattro e venti, quando il pomello della porta d'ingresso della villa dei d'Estier cominciò a girare. Girava, ma la porta non si apriva, come quando qualcuno aspetta impaziente, con la mano sulla maniglia, che il visitatore si decida ad andarsene. Probabilmente i due uomini stavano in piedi nell'ampio ingresso illuminato da una lanterna veneziana. A un certo punto si aprì uno spiraglio, che subito si richiuse, poi si aprì di nuovo, e un tale che si trovava a passare di lì sentì delle grida, ma andava di fretta e non si girò. Di colpo la porta si spalancò disegnando un rettangolo giallastro nel buio della strada. Un uomo molto alto, di mezza età, teneva fermo il battente, mentre un altro, più robusto, arretrava senza smettere di parlare, e poco ci mancò che mettesse un piede in fallo e ruzzolasse all'indietro per la scalinata. L'uomo alto era il conte Adrien d'Estier, l'altro era Eugène Malou. Possibile che il conte avesse davvero cercato di chiudere la porta mentre Malou era ancora lì davanti e tentava di impedirglielo? Una detonazione improvvisa fece voltare le clienti della farmacia. Lì accanto, una merciaia che vendeva anche giornali accorse sulla soglia e si sporse a guardare stringendosi lo scialle sul petto. Nessuno avrebbe saputo dire con esattezza che cosa fosse successo, nemmeno il conte d'Estier, che al momento dello sparo aveva già quasi completamente richiuso la porta. Ma una delle donne della farmacia dichiarò: «Non è caduto subito. È riuscito a scendere i gradini all'indietro, tutto storto, e solo quando è arrivato in fondo alle scale si è accasciato sul marciapiede...». Alcune persone si erano fermate all'angolo della strada e aspettavano di capire se valesse la pena di avvicinarsi. Prima di uscire il conte d'Estier si girò verso l'interno e chiamò qualcuno, forse il maggiordomo, perché un uomo in giacca bianca fu visto avviarsi per primo giù per le scale, con circospezione, e chinarsi sul corpo, mentre il conte rimaneva impalato in cima alla scalinata. Il farmacista attraversò la strada e si chinò a sua volta. Quando si rialzò, intorno a lui si era già formato un capannello di curiosi. «Un medico...» disse. «Qualcuno vada a chiamare il dottor Moreau... Abita una decina di case più avanti... Presto...». Alcuni si allontanavano, si giravano dall'altra parte, consigliavano alle donne appena arrivate: «Non guardi...». «Che è successo?». «Un uomo si è sparato un colpo in testa...». La pistola era rotolata sul selciato. Tutti facevano attenzione a non toccarla, limitandosi a guardarla in silenzio. Arrivò un poliziotto in divisa. «Potremmo portarlo dentro da me...» suggerì il farmacista. Un paio di volenterosi si fecero avanti per aiutarlo. Ci fu anche qualcuno che si preoccupò di raccogliere dal marciapiede il cappello grigio perla di Eugène Malou. Questi gemeva emettendo un suono monotono, lugubre, che nessuno dei presenti aveva mai sentito, un lamento così regolare da non sembrare umano, e che faceva pensare al verso di certi animali notturni o al cigolio di un apparecchio meccanico. «Ha sbagliato la mira?». La porta della farmacia era stretta. «Via, sfollare...» gridava l'agente. «Tutti fuori... Forza!... Fate largo, che diamine!... Non c'è niente da vedere...». Ma le persone continuavano ad accalcarsi tutt'intorno. Il corpo venne steso sul pavimento, con la testa vicino alla bilancia smaltata. Una donna che aveva voluto a tutti i costi guardare svenne. Era una scena orribile. Chissà, forse Malou era troppo nervoso per prendere bene la mira... O forse gli era tremata la mano. E se avesse sbagliato di proposito? Fatto sta che il proiettile, penetrato – così sembrava – vicino al mento, all'angolo della bocca, gli aveva letteralmente fatto saltare un pezzo di mascella. Malou aveva ancora gli occhi aperti. Era quella la cosa più impressionante. Continuava a vedere le persone che gli si affannavano intorno. Le vedeva dal basso. Uno dei due occhi era quasi completamente uscito dall'orbita. «E il dottore?...». «Ci sono andato, signore... Non è in casa...». «Telefonate a qualcun altro... E anche all'ospedale... Ma, per amor di Dio, fate spazio...». Il farmacista aveva aperto dei pacchi di cotone idrofilo e con quello cercava di tamponare il sangue, che nel frattempo aveva già formato una pozza densa sulla polvere del pavimento. E intanto Eugène Malou non moriva. Sembrava impossibile, nello stato in cui era, e ognuno, in cuor suo, si augurava che quello strazio finisse alla svelta, per non dover più vedere il suo sguardo e sentire quel lamento ininterrotto. Il poliziotto era riuscito ad allontanare buona parte dei presenti e se ne stava in piedi davanti alla porta, di fronte a quella folla sempre più fitta, a quei visi che si stagliavano nell'oscurità, illuminati dai riflessi gialli e verdi dei boccali in vetrina. A destra del bancone un tizio telefonava a tutti i medici della zona, ma a quell'ora la maggior parte di loro era in giro per le visite. «È Malou...» si sentiva dire tra la folla. «Com'è successo?». «Stava uscendo dalla casa del conte, pare...». Il conte d'Estier era ancora in piedi, da solo, in cima alla scalinata. E allora nella strada, nell'intero quartiere, a mano a mano che la notizia si diffondeva, serpeggiò un senso di imbarazzo.
Tutti avevano letto gli articoli che da qualche giorno venivano pubblicati
sul «Phare du Centre». Tutti
avevano letto anche quello, dal tono più intimidatorio, quasi trionfante,
apparso la mattina stessa:
Tutti lo avevano accolto con soddisfazione, perché tutti aspettavano impazienti la conclusione di quella battaglia che durava ormai da un pezzo. «Prima o poi lo fregheranno...». E adesso era proprio fregato! Eugène Malou era lì, steso sul pavimento di una piccola farmacia, con mezza faccia maciullata e la spalla del cappotto inzuppata di sangue. A poco a poco i curiosi indietreggiavano: volevano sapere, ma preferivano non vedere. Il sentimento che si diffondeva per la strada, e che presto avrebbe invaso tutta la città, era una specie di vergogna collettiva, e alcuni si voltavano già con aria di riprovazione verso la sagoma del conte d'Estier che, sempre da solo, fumava una sigaretta sul marciapiede. Può capitare di vedere una banda di ragazzini scalmanati che prendono a sassate un gatto rognoso. E quando sono riusciti ad abbatterlo, a ferirlo senza ucciderlo, preferiscono tenersi a distanza, si vergognano di ciò che hanno fatto, impressionati dal sangue che cola, dagli spasmi della povera bestia agonizzante a cui nessuno di loro ha il coraggio di dare il colpo di grazia. Che almeno Malou morisse in fretta! Si vedeva il camice bianco del piccolo farmacista con il pizzetto andare avanti e indietro, chinarsi e rialzarsi. Apriva qualche fiala, scompariva nel laboratorio, tornava con una siringa. E da fuori, nonostante la porta chiusa, si sentiva ancora — o si aveva l'impressione di sentire — quel gemito cadenzato che alla lunga diventava esasperante. «Andate a giocare da un'altra parte, bambini!». Finalmente una macchina: scese un medico, che si precipitò all'interno togliendosi il cappotto prima ancora di entrare. Chissà se sarebbe riuscito a salvarlo... Per certi versi sarebbe stato peggio. Avrebbero dovuto abituarsi a vederlo con la faccia sfigurata, e uno come lui sarebbe stato capace di andarsene in giro per le strade come se niente fosse, di mettersi a sedere al solito tavolo del Café de Paris, diventando così una sorta di rimprovero vivente.
Ecco perché ognuno, in cuor suo, si augurava che
morisse. E la gente se ne stava lì fuori in attesa di un
segno, per poter tirare un sospiro di sollievo, il segno che era tutto finito.
|