Copertina
Autore Georges Simenon
Titolo In caso di disgrazia
EdizioneAdelphi, Milano, 2001, Biblioteca 409 , pag. 182, dim. 140x220x16 mm , Isbn 978-88-459-1626-7
OriginaleEn cas de malheur [1956]
TraduttoreLaura Colombo
LettoreAngela Razzini, 2001
Classe gialli , narrativa francese
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Pagina 11 [ inizio libro ]

Domenica 6 novembre

Appena due ore fa, dopo colazione, nel salotto in cui eravamo passati a prendere il caffè, stavo in piedi davanti alla finestra, abbastanza vicino da avvertire la fredda umidità dei vetri, quando ho sentito mia moglie dire, dietro di me:

«Pensi di uscire, nel pomeriggio?».

Queste parole, così semplici e banali, mi sono parse cariche di significato, come se celassero un sottinteso che né io né Viviane osavamo esprimere. Ho esitato un po' prima di rispondere, non perché non sapessi che cosa intendevo fare, ma perché per un attimo sono rimasto sospeso in quell'universo un po' inquietante, anche se in fondo più reale del mondo di tutti i giorni, che dà l'impressione di scoprire l'altra faccia della vita.

Poi devo aver balbettato:

«No, oggi no».

Lei sa che non ho alcun motivo di uscire: l'ha intuito come tutto il resto; forse si tiene anche informata su ogni cosa che faccio. Non ce l'ho con lei, come lei non ce l'ha con me per quello che mi sta succedendo.

Nel momento in cui ha posto la domanda stavo guardando attraverso la pioggia fredda e scura che cade da tre giorni, anzi, dal giorno dei Morti, un barbone che andava e veniva sotto il Pont-Marie battendosi le mani sui fianchi per riscaldarsi. Fissavo soprattutto un mucchio di stracci nerastri addossato al muro di pietra, chiedendomi se si muoveva davvero o se si trattava di un'illusione dovuta al fremito dell'aria e al cadere della pioggia.

In effetti si muoveva, e ne ho avuto la certezza quando dai cenci è uscito un braccio, e subito dopo una testa di donna, gonfia e tutta scarmigliata. L'uomo ha smesso di passeggiare, si è girato verso la sua compagna per dirle qualcosa, e poi, mentre lei si metteva a sedere, è andato a prendere fra due sassi una bottiglia mezza vuota: gliel'ha data, e lei ha bevuto a canna.

In questi dieci anni, da quando siamo venuti ad abitare in quai d'Anjou, sull'ile Saint-Louis, mi è capitato spesso di osservare i barboni. Ne ho visti di tutti i tipi, anche donne, ma era la prima volta che ne vedevo due comportarsi come una vera coppia. Perché la cosa mi ha colpito, facendomi pensare a un animale maschio e alla sua femmina rifugiati nella loro tana nel fondo di un bosco?

Alcuni, quando parlano di Viviane e di me, ci paragonano a una coppia di belve, intendendo probabilmente alludere al fatto che, tra gli animali selvatici, la femmina è la più aggressiva.

Prima di girarmi per andare verso il vassoio su cui era stato servito il caffè, ho avuto il tempo di registrare un'altra immagine: un uomo alto e dal viso abbronzato che emergeva dal boccaporto di una chiatta attraccata di fronte a casa nostra. Si era tirato sopra la testa la cerata nera per avventurarsi sotto la pioggia e, con una bottiglia vuota in ciascuna mano, si è inoltrato sulla passerella scivolosa che collegava la barca alla banchina. In quel momento lui e i due barboni, insieme a un cane giallastro incollato a un albero nero, erano i soli esseri viventi che si vedessero nel circondario.

«Scendi in studio?» ha chiesto di nuovo mia moglie mentre, in piedi, finivo di bere il caffè. Le ho detto di sì. Ho sempre aborrito le domeniche, soprattutto le domeniche a Parigi, che mi mettono un'angoscia molto simile al panico. La prospettiva di andare a fare la coda, sotto l'ombrello, davanti a qualche cinema mi dà il voltastomaco, e così pure quella di passeggiare sugli Champs-Elysées, per esempio, o alle Tuileries, o quella di ritrovarmi imbottigliato nel traffico sulla strada per Fontainebleau.

Siamo tornati tardi, ieri sera. Dopo aver assistito a una generale al Théátre de la Michodière, abbiamo mangiato da Maxim's, e verso le tre del mattino siamo andati a chiudere la serata in una cantina vicino al Rond-Point in cui si ritrovano gli attori e la gente del cinema.

A differenza di qualche anno fa, non riesco più a fare le ore piccole senza poi risentirne. Viviane, invece, non sembra mai stanca.

Quanto tempo ancora siamo rimasti in salotto senza aprir bocca? Almeno cinque minuti, direi, e in un silenzio come quello cinque minuti sembrano un'eternità. Guardavo mia moglie il meno possibile. Sono diverse settimane che evito di guardarla in faccia e riduco al minimo i nostri téte-à-téte. Magari lei aveva voglia di parlare... Ho pensato che stesse per farlo quando, mentre ero voltato quasi di spalle, ha socchiuso le labbra con aria esitante per poi limitarsi a dire, invece di quello che avrebbe voluto:

«Più tardi passerò da Corine. Puoi raggiungermi lì prima di sera, se ne avrai voglia».

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Pagina 36

In casa di Corine, Moriat non si dà le arie del politico né di chi è votato alla fama. Si mostra così com'è, e spesso mi ha dato l'impressione di uno che si annoia, o più esattamente di uno che fa di tutto per non deludere gli altri.

Domenica, quando i nostri sguardi si sono incrociati una prima volta, mi stava osservando con la fronte aggrottata, come se scoprisse in me un elemento nuovo, direi quasi un segno.

Non mi andrebbe sicuramente, per pudore e per paura del ridicolo, di dover ripetere a voce quello che ora mi accingo a scrivere, ma domenica ho cominciato a credere al segno, a un marchio invisibile che può essere notato solo dagli iniziati, da coloro che lo portano anch'essi.

Non so se riuscirò a esprimere fino in fondo il mio pensiero... Quel segno possono averlo solo determinate persone, che hanno vissuto molto e visto molto, che hanno avuto ogni tipo di esperienze e che soprattutto hanno fatto uno sforzo eccezionale per raggiungere il loro scopo, o arrivarci molto vicino, e non penso che se ne possa essere marchiati prima di una certa età, diciamo intorno ai quarantacinque anni.

Anch'io ho osservato Moriat, dapprima durante la cena, mentre le signore chiacchieravano, e poi in salotto, dove l'amante del proprietario di giornali si era seduta su dei cuscini e cantava accompagnandosi con la chitarra.

Era evidente che anche lui, come me, non si divertiva. Guardandosi attorno, probabilmente si stava chiedendo per quale capriccio della sorte si trovasse in un ambiente che costituiva in certo qual modo un insulto alla sua personalità.

Si dice che sia ambizioso, e ci accomuna la stessa leggenda: lui gode fama di essere un duro in politica come lo sarei io in tribunale.

E invece non credo che sia ambizioso, oppure, se lo è stato in un certo periodo, in modo piuttosto infantile, adesso non lo è più: è succube del proprio destino, del proprio personaggio, come certi attori sono condannati a recitare per tutta la vita lo stesso ruolo.

L'ho visto mandar giù un bicchiere dopo l'altro, senza piacere, senza allegria, e senza neanche l'avidità di un alcolista, e sono convinto che, ogni volta che chiedeva da bere, lo faceva per darsi il coraggio di restare.

Corine, che ha quasi quindici anni meno di lui, lo coccola come un bambino, facendogli sempre trovare ciò che desidera.

Anche lei, che lo conosce meglio di chiunque altro, dev'essersi accorta, domenica, del suo progressivo intorpidirsi e obnubilarsi a mano a mano che passavano le ore.

Io non sono ancora a questo punto. E raro che mi capiti di bere, e mai in modo così sistematico.

Eppure Moriat ha riconosciuto in me il segno, che deve trasparire dagli occhi, che forse, più che un'espressione del viso, è solo una certa pesantezza dello sguardo, una certa assenza.

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Pagina 61

Mio padre e io non ci siamo mai posti domande l'un l'altro, né abbiamo mai fatto il minimo accenno alla nostra vita privata, e tanto meno alle nostre idee e ai nostri sentimenti.

Ancora adesso non so se Pauline sia mai stata per lui, in un qualche momento della sua vita, qualcosa di più di una governante.

È morto a settantun anni: quel giorno ero stato a trovarlo, e lui è morto pochi minuti dopo che ero andato via come se si fosse trattenuto per evitarmi la vista della sua dipartita.

Dovevo parlare di lui, non per pietà filiale, ma perché forse l'appartamento di rue Visconti ha avuto una profonda influenza sui miei gusti. Per me, in effetti, lo studio di mio padre, con i libri che tappezzavano i muri fino al soffitto, le riviste accatastate sul pavimento, le finestre a piccoli riquadri che davano, al di là di un cortile medioevale, sul vecchio atelier di Delacroix, rappresenta tuttora il prototipo del luogo in cui è bello vivere.

La mia ambizione, entrando alla Facoltà di Legge, non era di fare una carriera rapida e brillante, ma di condurre una vita da studioso, e aspiravo a diventare un giurista squattrinato ben più che un avvocato di grido.

Lo sogno ancora oggi? Preferisco non pormi questa domanda. Con quel mio testone enorme, sono stato il perfetto sgobbone e, quando mio padre tornava a casa di notte, in camera mia, dove spesso studiavo fino all'alba, c'era quasi sempre la luce accesa.

Le mie aspirazioni riguardo alla carriera erano così ben condivise dai miei professori che, senza dirmi niente, parlarono di me all'avvocato Andrieu, a quei tempi presidente dell'Ordine e tuttora citato come uno degli avvocati più illustri dell'ultimo mezzo secolo.

Mi rivedo davanti il biglietto da visita che trovai una mattina in mezzo alla posta e che, sotto l'intestazione a stampa, recava una frase scritta con una grafia molto sottile, molto «artistica», come si diceva a quei tempi:

ROBERT ANDRIEU
AVVOCATO

Le sarebbe grato se volesse passare una mattina fra le dieci e le dodici nel suo studio, in boulevard Malesherbes, 66.

Devo aver conservato questo biglietto, che si trova probabilmente, insieme ad altri ricordi, in uno scatolone. Avevo venticinque anni. Oltre a essere una gloria del Foro, l'avvocato Andrieu era anche uno degli uomini più eleganti del Palazzo di Giustizia e aveva fama di condurre una vita da nababbo. Il suo appartamento mi impressionò, e più ancora il vasto studio, austero ma al tempo stesso raffinato, con le finestre che si affacciavano sul Parc Monceau.

Qualche tempo dopo ebbi la ridicola idea di farmi confezionare una giacca di velluto nero, bordata con una spighetta di seta, uguale a quella che indossava lui quella mattina. Va detto, però, che non l'ho mai messa, e che l'ho regalata prima che Viviane la vedesse.

Andrieu mi offrì di fare il praticantato nel suo studio, un'occasione davvero insperata, tanto più che i suoi collaboratori erano tre avvocati già piuttosto noti.

Non direi che assomigliasse fisicamente a mio padre, tuttavia in entrambi, che pure avevano avuto sorti diverse, c'erano come dei tratti familiari, che forse erano solo i segni di un'epoca. La puntigliosa cortesia, per esempio, di cui davano prova in ogni minimo rapporto con gli altri, come pure un certo rispetto della persona umana che li induceva a rivolgersi a una domestica e a una signora della buona società con lo stesso identico tono. Ma ciò che mi aveva colpito di più era la somiglianza del loro sorriso, una tristezza - o una nostalgia - così ben celata da poter essere appena percepita.

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Pagina 113

E invece, durante quella conversazione dopo pranzo, ho letto sul suo volto la scoperta improvvisa di una minaccia reale. Per la prima volta ha capito che le stavo sfuggendo e che poteva essere per sempre.

Ha reagito come meglio ha potuto. Continua a reggere il gioco, osservandomi più da vicino. So che soffre, la vedo invecchiare ogni giorno, e ogni giorno truccarsi un po' di più. Ma non è per me che Viviane soffre. È per sé: non solo per la posizione che si è creata con me, ma per l'idea che si è fatta di se stessa e del proprio potere.

Provo pietà per lei, mentre lei, nonostante gli sguardi allarmati che mi lancia, non prova alcuna pietà per me. La sua sollecitudine è interessata: non sta aspettando che io ritrovi la serenità, ma che ritorni da lei. Anche se dovessi tornare ferito a morte. Anche se non dovessi essere più che un corpo vuoto accanto a lei.

Come spiega la mia passione per Yvette? Le altre, quelle che ho avuto prima di lei, le attribuiva alla curiosità, e anche alla vanità maschile, al bisogno che ogni uomo, specie se brutto, ha di provare a se stesso che può avere una donna ai suoi piedi.

Invece per lo più non è andata così, e credo di essere abbastanza lucido su quello che mi riguarda per non sbagliarmi. Se avesse ragione, avrei avuto avventure gratificanti, ad esempio con alcune delle nostre amiche che non mi sarebbe stato difficile sedurre. Il che mi è successo assai di rado, e sempre in momenti di incertezza o di scoramento.

In massima parte sono stato con ragazze più o meno facili, professioniste e non, e quando ci penso scopro che avevano tutte qualche punto in comune con Yvette, cosa che finora mi era sfuggita.

A spingermi verso di loro era probabilmente, innanzitutto, una fame di sesso puro, se così posso esprimermi senza far sorridere, ossia che prescindesse da qualsiasi considerazione sentimentale e passionale. Diciamo sesso allo stato bruto. O cinico.

Mi è capitato, in certi casi perché non ho potuto farne a meno, di ricevere le confidenze di alcuni clienti, uomini e donne, e mi sono reso conto che non costituisco un'eccezione, che l'essere umano sente il bisogno di comportarsi a volte come un animale.

Forse ho sbagliato a non avere il coraggio di mostrarmi a Viviane sotto questa luce, ma non mi sarebbe mai venuto in mente. Chissà se lei non me lo rimprovera, se non le è capitato di cercare altrove analoghe soddisfazioni...

È successo a molte nostre amiche, a quasi tutti i nostri amici; del resto, se questo istinto non fosse quasi universale, la prostituzione non sarebbe esistita in ogni tempo, e a ogni latitudine.

È un pezzo che non ho rapporti con Viviane, e lei attribuisce questa freddezza alle preoccupazioni, al lavoro, senz'altro anche alla mia età.

Con Yvette, invece, non posso restare un'ora senza provare il bisogno di vedere la sua nudità, di toccarla, di chiederle delle carezze.

E non solo perché non mi intimidisce, perché è una ragazzina senza importanza, e neanche perché con lei non ho pudori.

Domani, magari, penserò o scriverò il contrario, ma ne dubito.

Yvette, come la maggior parte delle ragazze da cui mi sono sentito attratto, incarna ai miei occhi la femmina, con le sue debolezze, le sue vigliaccherie, e anche con il suo istinto di aggrapparsi al maschio e diventarne la schiava.

La rivedo, stupefatta e orgogliosa, il giorno in cui l'ho schiaffeggiata; le è capitato altre volte, da allora, di provocarmi al solo scopo di farmelo rifare.

Non sto dicendo che mi ama. Questa parola non voglio usarla.

Ma ha rinunciato a essere se stessa. Ha messo il suo destino nelle mie mani. Non mi importa se è per pigrizia o debolezza. È il ruolo che le spetta - e, forse ingenuamente, il modo in cui, dopo avermi chiesto di sostenere la sua difesa, ha aperto le cosce sull'angolo della mia scrivania mi appare carico di significato.

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