Copertina
Autore Georges Simenon
Titolo I fantasmi del cappellaio
EdizioneAdelphi, Milano, 2012 [1997], Gli Adelphi 409 , pag. 240, cop.fle., dim. 12,5x19,5x1,8 cm , Isbn 978-88-459-2611-2
OriginaleLes fantômes du chapelier [1949] - Le petit tailleur et le chapelier - Bénis soient les humbles
TraduttoreLaura Frausin Guarino
LettoreMargherita Cena, 2012
Classe narrativa francese
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Indice


I fantasmi del cappellaio                         9


Appendice                                       183

    Avvertenza di Sandro Volpe                  185

    Il piccolo sarto e il cappellaio            187

    Benedetti gli umili, cap. IV                231


 

 

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Pagina 11

1



Era il 3 dicembre, e continuava a piovere. Il numero 3 spiccava, enorme, nerissimo, panciuto, sul bianco smagliante del calendario appeso, a destra della cassa, al tramezzo di legno scuro che divideva il negozio dalla vetrina. Erano passati esattamente venti giorni, dato che la cosa era accaduta il 13 novembre (un altro 3 ugualmente panciuto sul calendario), dal primo delitto, da quando, cioè, un'anziana donna era stata assassinata vicino alla chiesa di Saint-Sauveur, a pochi passi dal canale.

E dal 13 novembre pioveva. Si può dire che piovesse ininterrottamente da venti giorni. Una lunga pioggia battente. Quando si camminava per la città rasentando i muri si sentiva l'acqua scorrere nelle grondaie. La gente sceglieva di preferenza strade con i portici per trovarsi un po' al riparo; rientrando, si toglieva le scarpe, e in tutte le case cappotti e cappelli erano messi ad asciugare vicino alla stufa. Chi non aveva indumenti di ricambio viveva in un perenne stato di freddo e di umidità.

Alle quattro del pomeriggio era già buio da un pezzo, e a certe finestre la luce restava accesa dalla mattina alla sera.

E proprio alle quattro, come ogni pomeriggio, il signor Labbé aveva lasciato il retrobottega, dove una serie di teste in legno di tutte le misure stava allineata sugli scaffali, ed era salito su per la scala a chiocciola in fondo alla cappelleria. Arrivato sul pianerottolo, si era fermato un attimo, tirata fuori di tasca una chiave, aveva aperto la porta della camera per accendere la luce.

Forse, prima di girare l'interruttore, era andato alla finestra, le cui tende di grosso merletto, pesanti e polverose, stavano sempre accostate... Probabile, perché di solito, prima di accendere, abbassava l'avvolgibile.

E lì, dalla finestra, aveva potuto vedere, nella casa di fronte, a pochi metri di distanza, il sarto Kachoudas nel suo laboratorio. La strada era così stretta che sembrava di vivere nella stessa casa.

Il laboratorio di Kachoudas si trovava al primo piano, sopra il negozio, e non aveva tende. Ogni minimo particolare della stanza risaltava come su un'incisione: i fiori della tappezzeria, i segni lasciati dalle mosche sullo specchio, il gessetto piatto attaccato a una cordicella, i modelli in carta marrone appesi al muro, e lo stesso Kachoudas, seduto a gambe incrociate sul tavolo da lavoro, con a portata di mano una lampadina senza paralume che all'occorrenza lui avvicinava mediante un filo di ferro. La porta in fondo, che dava sulla cucina, era sempre mezza aperta, ma solitamente non abbastanza da lasciar vedere l'interno del locale. Tuttavia s'indovinava la presenza della signora Kachoudas, perché ogni tanto le labbra del marito si muovevano. Evidentemente i due si parlavano da una camera all'altra mentre lavoravano.

Anche il signor Labbé aveva parlato: Valentin, il commesso che stava giù in negozio, aveva sentito un mormorio di voci e un rumore di passi sopra la sua testa. Poi aveva visto tornar giù il cappellaio, prima i piedi, elegantemente calzati, poi i pantaloni, la giacca, e infine il viso, un viso dai tratti un po' molli, sempre grave ma in modo misurato, senza severità: il viso di un uomo che basta a se stesso e non prova alcun bisogno di manifestare i propri sentimenti.

Quel giorno, prima di uscire, il signor Labbé aveva stirato, passandoli al vapore, due cappelli (uno era quello grigio del sindaco), e per tutto il tempo si era sentito il rumore della pioggia, l'acqua che scendeva impetuosa lungo la grondaia e il sibilo leggero della stufa a gas all'interno del negozio.

Faceva sempre troppo caldo, lì dentro. Fin da quando arrivava, al mattino, Valentin, il commesso, aveva la faccia tutta rossa, e al pomeriggio si sentiva la testa pesante; a volte, guardandosi negli specchi fissati tra uno scaffale e l'altro, scopriva di avere gli occhi lucidi, come se avesse la febbre.

Il signor Labbé non era quel giorno più loquace del solito. A volte restava per ore e ore con il suo commesso senza aprir bocca.

Nella stanza si udiva solo il ticchettio dell'orologio, interrotto ogni quarto d'ora dallo scatto del bilanciere. All'ora e alla mezza, il meccanismo si metteva in moto ma, dopo uno sforzo impotente, si fermava di botto: probabilmente l'orologio era dotato, in origine, di un carillon che in seguito si era guastato.

Se il piccolo sarto non poteva vedere l'interno della camera al primo piano – durante il giorno glielo impedivano le tende, di sera l'avvolgibile –, in compenso non aveva che da sporgere un po' la testa per guardare nella bottega del cappellaio.

E non mancava di farlo. Il signor Labbé non si prendeva la briga di accertarsene, ma lo sapeva. Questo però non influiva minimamente sul suo ritmo di lavoro e sui suoi movimenti, sempre pacati, meticolosi. Aveva mani molto belle, un po' grassocce, straordinariamente bianche.

Alle cinque meno cinque, lasciato il retrobottega che chiamavano laboratorio, aveva spento la luce e pronunciato una delle sue frasi rituali:

«Salgo a vedere se mia moglie ha bisogno di qualcosa».

Ed era di nuovo salito su per la scala a chiocciola. Valentin aveva sentito al piano di sopra i suoi passi, un sussurrare smorzato di voci, quindi aveva rivisto spuntare i piedi, le gambe, l'intero corpo.

Poi il signor Labbé aveva aperto la porta della cucina, in fondo al locale, e aveva detto a Louise:

«Rientrerò presto. Il negozio lo chiuderà Valentin».

Ogni giorno le stesse parole, a cui la domestica rispondeva:

«Bene, signore».

S'infilava quindi il pesante cappotto nero e ripeteva a Valentin, che aveva già sentito:

«Chiuderà lei».

«Sì, signore. Buonasera, signore».

«Buonasera, Valentin».

Prendeva un po' di soldi dalla cassa e indugiava un momento a osservare le finestre di fronte. Era sicuro che Kachoudas, il quale doveva aver visto, poco prima, la sua ombra profilarsi attraverso l'avvolgibile del primo piano, era sceso dal suo tavolo da lavoro.

Che cosa stava dicendo alla moglie? Perché senz'altro qualcosa le diceva. Aveva bisogno di un pretesto, anche se lei non gli chiedeva niente. Non si sarebbe mai permessa di discutere le sue decisioni. Da un po' di anni, pressappoco da quando si era messo in proprio, verso le cinque del pomeriggio Kachoudas andava a bere uno o due bicchieri di bianco al Café des Colonnes. Ci andavano anche Labbé e altri, che non si limitavano al vino, né a due soli bicchieri. Per la maggior parte di loro quel rito segnava la fine della giornata. Kachoudas, invece, appena tornato a casa cenava in fretta in mezzo ai suoi marmocchi per poi tornare ad appollaiarsi sul suo tavolo, dove spesso restava a lavorare fino alle undici o a mezzanotte.

«Vado a prendere una boccata d'aria».

Aveva paura di lasciarsi scappare il signor Labbé, e questi l'aveva capito. La cosa era iniziata all'epoca non della prima vecchia assassinata, ma della terza, quando la città aveva cominciato davvero a perdere la testa.

A quell'ora, la rue du Minage era quasi sempre deserta, specie quando pioveva a dirotto. Ed era più deserta che mai da quando molta gente evitava di uscire col buio. I commercianti, che erano stati i primi a risentire del panico, erano stati anche i primi a organizzare delle ronde. Ma neppure quelle erano servite a impedire la morte della signora Geoffroy-Lambert e della signora Léonide Proux, la levatrice di Fétilly.

Il piccolo sarto era un pavido, e il signor Labbé si concedeva il piacere maligno – se non addirittura diabolico – di aspettarlo senza averne l'aria.

Finalmente apriva la porta, facendone così tintinnare il campanello, passava sotto l'enorme cappello a cilindro di lamiera rossa che fungeva da insegna al negozio, alzava il bavero del cappotto e affondava le mani nelle tasche. Anche alla porta di Kachoudas c'era un campanello, e Labbé sapeva con certezza che dopo qualche istante l'avrebbe sentito risuonare.

Come in quasi tutta la parte vecchia della Rochelle, la strada aveva dei portici che riparavano dalla pioggia: là sotto, i marciapiedi erano simili a tunnel umidi e freddi, rischiarati solo, di tanto in tanto, da un portone che si apriva sulle tenebre della notte.

Per raggiungere la place d'Armes, Kachoudas regolava il proprio passo su quello del cappellaio, ma nonostante tutto aveva tanta paura di un'imboscata che preferiva camminare in mezzo alla strada, sotto la pioggia.

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Pagina 65

4



Vide una striscia di luce sotto la porta, sentì dei passi strascicati per le scale e capì che era domenica. Quel giorno si alzava un po' più tardi; Louise, invece, riusciva a saltar giù dal letto ancor prima che si sentisse fischiare il primo treno. Con lo sguardo trasognato, scendeva in cucina, accendeva il fuoco e se ne stava là in piedi, mezza addormentata, aspettando che si scaldasse l'acqua.

La prima domenica che la ragazza era da loro, lui era sceso, incuriosito. Aveva trovato la porta a vetri della cucina oscurata da una tovaglia tesa e fissata con delle puntine.

«Chi è?» aveva domandato lei con voce seccata.

«Sono io».

«Ha bisogno di qualcosa? Non vede che mi sto lavando?».

Nel mastello del bucato, probabilmente. Come a casa sua, a Charron, e come usavano fare i Kachoudas. E per tutta la mattina la cucina odorava di saponetta.

Il signor Labbé non poteva permetterle di servirsi del bagno perché, per accedervi, bisognava attraversare la camera da letto. Così, le aveva comprato una tinozza di zinco che la domenica lei riempiva con delle brocche di acqua calda portate su faticosamente a una a una. Se durante la settimana le capitava di non sciacquarsi neanche la faccia, quel giorno, in compenso, se ne stava un'ora buona seduta nella sua tinozza a ripulirsi dappertutto.

Il cappellaio trovava la cosa un po' ripugnante. Non aveva mai sopportato l'odore degli altri, l'intimità degli altri, e gli era toccato vivere per quindici anni in quella camera con una donna invalida che non poteva accudire a se stessa e s'infuriava non appena qualcuno accennava ad aprire la finestra.

Forse non era colpa sua, anzi era certo per via della salute cagionevole... Fatto sta che negli ultimi tempi Mathilde era decisamente sporca, al punto che a volte sembrava farlo apposta, come per sfida. Per esempio, gli domandava con un lampo crudele negli occhi:

«Non ti sembra che io abbia un cattivo odore?».

Si accovacciò davanti al caminetto per accendere il fuoco. Ci riusciva sempre al primo colpo: i ceppi facevano subito una bella fiammata. Il freddo era più pungente che nei giorni precedenti, ed era un freddo diverso. Scostando leggermente l'avvolgibile, vide il cielo notturno molto chiaro, glaciale, e a contatto col vetro gli si gelò la punta delle dita.

Dunque, la pioggia era finita. Tutti se ne sarebbero rallegrati. Non lui. Era successo con un giorno di anticipo, e gli sembrò un tradimento del cielo nei suoi confronti, una sorta di scacco personale. Gli sarebbe piaciuto completare l'opera nella stessa atmosfera. La pioggia nelle strade buie, con l'alone intorno ai lampioni e i riflessi sul selciato, non solo gli aveva sempre procurato una certa eccitazione, ma facilitava i suoi movimenti. Nelle strade c'era meno gente, e i passanti camminavano rasente i muri delle case, preoccupati soltanto di evitare l'acqua che cadeva dal cielo e il fango della strada.

Dai Kachoudas, nessuno si era ancora alzato. Le luci erano spente. Il piccolo sarto dormiva vicino a quella brava donna di sua moglie; dopo le abbondanti libagioni del giorno prima, doveva essersi agitato tutta la notte russando, forse parlando a voce alta...

Quando era rientrato, lei non gli aveva detto niente. Eppure, appena messo piede in casa, Kachoudas parve essere ancora più ubriaco, probabilmente a causa del passaggio dal freddo al caldo. Era salito su per la scala a chiocciola (uguale a quella che c'era in casa del signor Labbé) dimenticando di chiudere il negozio e di spegnere le luci – cosa che faceva sempre personalmente –, e arrivato in laboratorio si era lasciato cadere su una sedia, con la testa su un braccio ripiegato e l'altro braccio abbandonato sulla spalliera.

Forse piangeva. O forse si sentiva male... Il piccolino, che aveva tre anni e mezzo o quattro, aveva preso a gironzolargli intorno, poi erano arrivate le due bambine, e finalmente la signora Kachoudas, sbucata dalla cucina con il ferro da stiro in mano. Si era subito resa conto della situazione e, senza aprir bocca, era sparita nell'altra stanza per riemergerne pochi minuti dopo con una scodella di caffè forte.

«Bevi, Kachoudas».

Lo chiamava Kachoudas. Nessuno chiamava il sarto con il nome di battesimo. Anche sull'insegna c'era solo il suo cognome, che in realtà doveva essere un nome di tribù molto diffuso in centinaia di villaggi del Medio Oriente.

Alla fine Kachoudas si era deciso ad alzare la faccia ed era chiaro, anche guardandolo a distanza, che si vergognava. Stava domandando qualcosa alla moglie, forse se i bambini lo avevano visto in quello stato... Lei lo aveva aiutato a bere il caffè, ma, dopo averne buttato giù solo metà, il sarto aveva dovuto precipitarsi verso lo stanzino in fondo.

Il signor Labbé non lo aveva più visto per tutta la sera. Era stata la signora Kachoudas a scendere per mettere gli scuri e sprangare la porta. Poi aveva spento la luce nel laboratorio e continuato a trafficare in cucina mentre la famiglia dormiva.

Era domenica, e quasi certamente sarebbe spuntato il sole. Il signor Labbé compiva i gesti abituali: rifaceva il letto, cambiava le lenzuola, portava quelle sporche sul pianerottolo insieme agli asciugamani usati durante la settimana, faceva scorrere l'acqua nella vasca e non dimenticava, di tanto in tanto, di parlare, di dire qualche parola così, a caso, perché tutto fosse credibile.

Col passare degli anni aveva finito per dare ai suoi movimenti una cadenza quasi da balletto. Gli veniva spontaneo. Non aveva più bisogno di pensarci, tanto è vero che, quando per una circostanza fortuita il ritmo cambiava, prima di rimettersi in moto restava per un po' immobile, disorientato, come un meccanismo guasto. Mentre la vasca si riempiva, ad esempio, metteva i vestiti nell'armadio, la giacca su una gruccia, i pantaloni ben tesi con la piega giusta; poi preparava ai piedi del letto i calzini, la camicia, il colletto e la cravatta. Ogni cosa andava fatta al momento giusto, e raramente gli capitava d'invertire l'ordine dei suoi gesti. Che erano, se ci si dava la pena di contarli, centinaia, o addirittura migliaia, e messi insieme finivano per riempire tutta la giornata. Lui li eseguiva con una certa soddisfazione, specie la domenica, perché sapeva che dopo i riti del mattino sarebbe rimasto solo in casa, a godersi una lunga giornata di libertà.

Prima di scendere, e per portarsi un po' avanti, aveva già spinto la poltrona di Mathilde davanti alla finestra, con la testa di legno nell'angolazione giusta, e aveva alzato l'avvolgibile benché fosse ancora buio.

Trovò Louise vicino alla stufa della cucina, con una scodella di caffellatte in mano, vestita di tutto punto e pronta a uscire: indossava l'abito e il cappotto della domenica e aveva il cappello in testa.

«In dispensa c'è tutto quel che serve» annunciò con quella sua voce incolore che era come la negazione della gioia di vivere.

Una stupida. Una zoticona. Meglio non farci caso. Ogni domenica prendeva la prima corriera per Charron e passava la giornata laggiù, con la famiglia e le amiche.

Aveva un modo di guardare il signor Labbé al quale lui non riusciva ad abituarsi. Lo fissava come se non lo vedesse. O magari lo vedeva diverso da come lo vedevano gli altri, e a volte questo lo turbava. Che idea si era fatta di lui? Trovava forse strana l'atmosfera della casa? Aveva qualche pensiero riposto? Ma poi, era capace di pensare?

«La signora sta bene?».

«Come al solito. Grazie, Louise».

Per mettersi a tavola aspettò che se ne andasse, perché la sua sola presenza bastava a guastargli il piacere di mangiare. Poi andò a chiudere la porta del negozio e stette un attimo ad ascoltare il passo della ragazza che si allontanava sotto i portici, più sonoro che altrove per via dell'eco, e a quel punto le campane presero a suonare.

Aveva sempre avuto una predilezione per le domeniche, anche quando c'era Mathilde e lui era bloccato lassù, con la sola prospettiva di ore e ore di noia opprimente. Forse aveva finito per abituarsi alla noia, per trovarla addirittura piacevole...

Mentre mangiava, si mise a leggere il resoconto dettagliato del processo a un piromane che nel 1882, nel Giura, aveva appassionato l'opinione pubblica fin quasi a far scoppiare una rivoluzione. Avevano persino mandato l'esercito. Poco importava, del resto, quel che leggeva: all'indomani non se ne ricordava nemmeno più. Comprava i libri in una sala d'aste a due isolati di distanza dal suo negozio, e li sceglieva a caso, ora romanzi, ora racconti storici. Ed erano sempre libri dalle pagine ingiallite che esalavano un odore particolare e in mezzo alle quali gli capitava di trovare un fiore secco o una mosca spiaccicata. Una volta ci aveva trovato una lettera dall'inchiostro sbiadito che doveva esser servita da segnalibro, ed era raro che sulla copertina del volume non ci fosse scritto un nome o non comparisse il timbro viola di una biblioteca pubblica.

Quella domenica, si era ripromesso di eseguire un lavoro importante. Ci pensava da tempo. Ma prima andò a sciacquare la tazza e il piatto, scosse la tovaglia e scopò via dal pavimento le briciole di pane. Andò anche a dare un'occhiata nella dispensa per vedere quello che Louise gli aveva preparato per il pranzo e ne fu soddisfatto, perché avrebbe dovuto solo scaldare a bagnomaria lo spezzatino del giorno precedente.

Quando salì al primo piano, attraversando il negozio dove di domenica non si preoccupava di accendere la stufa, i Kachoudas si erano già alzati. Il cielo era limpido, di un azzurro verdastro; dei passi risuonavano per la strada, mentre un festoso scampanio si diffondeva in tutta la città.

Il piccolo sarto, che non si era ancora lavato, indossava dei pantaloni senza bretelle sopra la camicia da notte. Cominciavano sempre col lavare i bambini, tanto per mandarli fuori dai piedi. Ma, una volta pronti, bisognava impedir loro di sporcare i vestiti della festa, e questo era più difficile.

Esther, la maggiore, quella che lavorava al Prisunic, andava su e giù per la casa in sottoveste, e il signor Labbé poteva vederle l'inizio del seno. Era ancora molto magra, soprattutto di fianchi, di seno invece era tutt'altro che scarsa, come molte ragazze della sua età. Chissà, forse la sera, negli angoli bui, sotto i portoni, si lasciava palpeggiare da qualche innamorato... Probabile. Il pensiero che ci fosse chi se la spassava con la figlia di Kachoudas, con carne Kachoudas, dava molto fastidio al signor Labbé, ma non avrebbe saputo dirne la ragione.

Il piccolo sarto, che aveva una gran brutta cera, non sapeva dove mettersi. Era evidente che non stava bene. La coscienza doveva tormentarlo quanto lo stomaco. Come al solito, approfittava della domenica per mettere in ordine il laboratorio, ma lo faceva svogliatamente, pensando ad altro, e più di una volta gli capitò di guardare verso la casa di fronte, dove il cappellaio se ne stava nascosto dietro le tende.

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