Copertina
Autore Georges Simenon
Titolo La fuga del signor Monde
EdizioneAdelphi, Milano, 2011, Biblioteca 568 , pag. 158, cop.fle., dim. 14xa22x1,1 cm , Isbn 978-88-459-2552-8
OriginaleLa fuite de Monsieur Monde [1945]
TraduttoreFederica Di Lella, Maria Laura Vanorio
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa francese
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Erano le cinque del pomeriggio, forse appena un po' più tardi – la lancetta dei minuti pendeva leggermente verso destra –, quando, il 16 gennaio, la signora Monde fece irruzione nella sala d'attesa del commissariato di polizia insieme a uno spiffero di aria gelida.

Con ogni probabilità era scesa da un taxi, o magari da una lussuosa macchina con autista, aveva attraversato in un lampo il marciapiede di rue La Rochefoucauld ed era inciampata sulle scale male illuminate; poi aveva aperto la porta con fare così imperioso che, dopo il suo ingresso, i presenti rimasero a guardare stupefatti il battente grigio sporco, munito di un sistema di chiusura automatica, tornare indietro con una lentezza che, per contrasto, appariva ridicola: al punto che, istintivamente, una donnetta in scialle e senza cappello, che aspettava in piedi da più di un'ora, spinse avanti uno dei ragazzini che le stavano attaccati alla sottana, bisbigliando:

«Va' a chiudere la porta».

Prima che arrivasse la signora Monde tutti si sentivano come a casa propria. Da un lato della balaustra gli agenti, in uniforme o in borghese, riempivano le loro scartoffie o si riscaldavano le mani sulla stufa; dall'altro lato la gente aspettava, seduta su una panca accostata alla parete o in piedi; quando qualcuno usciva con in mano il suo bravo pezzo di carta, gli altri avanzavano di un posto e il primo agente sollevava la testa; tutti sopportavano il cattivo odore, la squallida luce delle due lampade col paralume verde, la monotonia dell'attesa e dell'inchiostro dai riflessi violetti con cui bisognava compilare i moduli; e, se un'improvvisa catastrofe avesse isolato per un certo tempo il commissariato dal resto del mondo, coloro che vi si trovavano riuniti avrebbero sicuramente finito per vivere insieme come una grande famiglia.

Senza bisogno di sgomitare, la donna aveva superato tutti. Era vestita di nero, aveva il viso incipriato, bianchissimo, e il naso un po' violaceo sotto la cipria. Non rivolse neanche uno sguardo ai presenti, frugò nella borsetta con le dita fasciate dai guanti neri, levigate come l'ebano, sicure come il becco di un uccello predatore, e mentre tutti aspettavano, e tutti la guardavano, allungò un biglietto da visita oltre la balaustra.

«Vuole per cortesia annunciarmi al commissario?».

Nessuno degli astanti, pur avendo avuto il tempo di studiarla nei minimi particolari, si fece di lei un'idea precisa.

«Una specie di vedova» disse l'agente al commissario di polizia che nel suo ufficio, dove l'aria era satura del fumo dei sigari, chiacchierava amichevolmente con il segretario generale del Théâtre de Paris.

«Fra un attimo».

E l'uomo, prima di rimettersi a sedere e prendere la carta d'identità che qualcuno gli porgeva, ripeté alla signora Monde:

«Fra un attimo».

Lei rimase in piedi. Che le scarpe eleganti, dai tacchi altissimi, poggiassero entrambe sul pavimento sudicio era certo, eppure si aveva la sensazione che stesse appollaiata su una sola zampa come un airone. Non vedeva nessuno. Il suo sguardo, fisso su chissà cosa, forse sulla cenere caduta dalla stufa, calava dall'alto, glaciale, e le labbra si muovevano come quelle delle vecchie che biascicano preghiere.

Si aprì una porta, e apparve il commissario.

«La signora...?».

Richiuse la porta dietro di lei, le indicò una sedia foderata di panno verde, girò lentamente attorno alla scrivania stile Impero tenendo in mano il biglietto da visita e si sedette.

«La signora Monde?» scandì con tono interrogativo.

«Sì, sono io. Abito in rue Ballu 27 bis».

E fissò con aria di disapprovazione il portacenere, dove il commissario non aveva spento bene il sigaro.

«Mi dica, in che cosa posso esserle utile?».

«Sono venuta a denunciare la scomparsa di mio marito».

«Benissimo... Mi scusi...».

Tirò verso di sé un blocchetto per appunti e prese un portamina d'argento.

«Suo marito, ha detto?...».

«Mio marito è scomparso da tre giorni».

«Da tre giorni... Quindi sarebbe scomparso il 13 gennaio».

«Sì, esatto. L'ho visto l'ultima volta il 13».

La donna indossava una pelliccia di astrakan nero che emanava un lieve profumo di violetta e stropicciava tra le dita inguantate un esile fazzolettino impregnato dello stesso profumo.

«Una specie di vedova» l'aveva descritta l'agente di servizio.

E invece non lo era, o almeno di sicuro non lo era fino al 13 gennaio, visto che a quella data aveva ancora un marito. Eppure, chissà perché, il commissario pensò che quella definizione le calzasse a pennello.

«Mi perdoni, ma non conosco il signor Monde; sa, sono stato trasferito in questo quartiere solo da pochi mesi».

Aspettava, pronto a prendere appunti.

«Mio marito è Norbert Monde. Forse avrà sentito parlare della ditta Monde, intermediazione ed esportazione, che ha gli uffici e i magazzini in rue Montorgueil».

Il commissario annuì, più che altro per cortesia.

«Mio marito è nato nel palazzetto di rue Ballu dove ha sempre vissuto e dove viviamo tuttora».

Lui assentì di nuovo.

«Aveva quarantotto anni... Anzi, ora che ci penso, aveva compiuto quarantotto anni proprio il giorno in cui è scomparso...».

«Il 13 gennaio... E lei non ha la minima idea...».

La donna si irrigidì e assunse un'aria di disappunto, certo a significare che no, non ne aveva idea.

«Immagino che voglia chiederci di avviare delle ricerche...».

La smorfia sprezzante di lei poteva voler dire che era ovvio o, al contrario, che le era del tutto indifferente.

«Allora, dicevamo... Il 13 gennaio... Mi scusi se le faccio questa domanda... Suo marito aveva qualche motivo per togliersi la vita?».

«Nessun motivo».

«La sua situazione economica?».

«La ditta Monde, fondata da suo nonno, Antonin Monde, nel 1843, è una delle più solide di Parigi».

«Suo marito non giocava in Borsa, per caso? E nemmeno d'azzardo?».

Sul camino, alle spalle del commissario, c'era un orologio a pendolo di marmo nero, fermo da sempre su mezzanotte e cinque. Perché poi mezzanotte e cinque, e non mezzogiorno e cinque? Fatto sta che guardandolo tutti pensavano immancabilmente a mezzanotte e cinque. Lì accanto c'era una sveglia rumorosa che invece segnava l'ora esatta. Si trovava proprio nel campo visivo della signora Monde, e tuttavia, ogni tanto, la donna torceva il collo lungo e magro per consultare un minuscolo orologio che portava sul petto come un medaglione.

«Se escludiamo le preoccupazioni finanziarie... Forse suo marito aveva qualche problema sentimentale?... Mi perdoni se insisto...».

«Mio marito non aveva amanti, se è questo che intende».

Lui non osò chiederle se fosse lei ad avere un amante. Era troppo inverosimile.

«La sua salute?...».

«Non è mai stato malato in vita sua».

«Bene... Benissimo... Ricorda che cosa ha fatto esattamente suo marito nella giornata del 13 gennaio?».

«Si è alzato alle sette, come al solito. È abituato ad andare a letto presto e a svegliarsi presto».

«Mi scusi, lei e suo marito dormite nella stessa stanza?».

Un sì secco, velenoso.

«Si è alzato alle sette ed è andato in bagno dove, nonostante... lasciamo perdere... dove ha fumato la prima sigaretta della giornata. Poi è sceso di sotto...».

«Lei era a letto?».

Lo stesso sì duro come una pietra.

«Le ha detto qualcosa?».

«Uscendo mi ha salutata come ogni mattina».

«In quel momento a lei è venuto in mente che era il suo compleanno?».

«No».

«È sceso di sotto, stava dicendo...».

«E ha fatto colazione in studio. Una stanza in cui non lavora mai, ma alla quale tiene molto. C'è una grande finestra con i vetri colorati e dei mobili in stile vagamente gotico».

Era evidente che non amava né il gotico né le vetrate, o forse aveva immaginato di adibire ad altro uso quella stanza che il marito si ostinava a voler occupare.

«Avete molti domestici?».

«Una coppia di custodi. La moglie fa anche le pulizie mentre il marito è maggiordomo. Poi abbiamo una cuoca e una cameriera. Senza contare Joseph, l'autista, che è sposato e non vive in casa nostra. Di solito io mi alzo verso le nove, dopo aver dato a Rosalie le disposizioni per la giornata... Rosalie è la mia cameriera... Era già al mio servizio prima del matrimonio... Voglio dire prima del mio secondo matrimonio...».

«Quindi il signor Monde era il suo secondo marito?».

«Ho sposato in prime nozze Lucien Grandpré, che è morto in un incidente d'auto quattordici anni fa... Era un appassionato di automobilismo e ogni anno partecipava alla Ventiquattro Ore di Le Mans...».

Nella sala d'attesa la gente seduta sulla panca logora ogni tanto avanzava di un posto, mentre qualcuno sgusciava fuori discretamente, senza quasi aprire la porta.

«Insomma, quella mattina è andato tutto come al solito?».

«Sì, come al solito. Verso le otto e mezzo ho sentito il motore della macchina che ogni giorno accompagnava mio marito in rue Montorgueil. Ci teneva ad aprire personalmente la posta, perciò andava in ufficio così presto. Suo figlio è uscito un quarto d'ora dopo di lui».

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Prima di sgorgare dagli occhi chiusi le lacrime gli gonfiavano le palpebre. Non erano lacrime comuni. Sembravano sgorgare all'infinito, tiepide e fluide, da una sorgente profonda, premevano dietro la grata delle ciglia e finalmente scendevano, libere, giù per le guance, non in gocce isolate, ma in rivoletti tortuosi, come se ne vedono sui vetri delle finestre nei giorni di forte pioggia; e la macchia di bagnato vicino al mento si allargava sempre di più sul cuscino.

Era la prova che il signor Monde non dormiva, non sognava, perché gli era venuto in mente un cuscino e non la sabbia. Eppure, nella sua immaginazione, non era disteso in una camera d'albergo, di un albergo di cui non conosceva neanche il nome. Era lucido, ma la sua non era la normale lucidità di tutti i giorni, quella che ammettiamo di possedere; era, invece, quella lucidità che l'indomani ci fa arrossire, forse perché dà alle cose che in genere consideriamo banali la grandezza che scorgono in esse i poeti e le religioni.

Quella che lasciava scorrere via dal suo essere attraverso gli occhi era tutta la stanchezza accumulata in quarantotto anni, e se quelle lacrime erano così dolci era perché ora la battaglia era finita.

Si era arreso. Non lottava più. Era corso lì da lontano – il treno non contava, c'era solo un immenso movimento di fuga –, era corso verso il mare che, sconfinato e azzurro, più vivo di qualsiasi creatura, anima della terra, anima del mondo, respirava placido accanto a lui. Perché, a dispetto del cuscino, la cui realtà non aveva nessuna importanza, al termine della corsa si era sdraiato in riva al mare, si era accasciato lì, esausto ma già rasserenato; se ne stava lungo disteso sulla sabbia tiepida e dorata, e in tutto l'universo non esisteva più nulla oltre al mare, alla sabbia e a lui che parlava.

Parlava senza aprire la bocca, perché non ce n'era bisogno. Raccontava della sua stanchezza infinita che non era dovuta al viaggio in treno, ma al suo lungo viaggio di uomo.

Non aveva più età. Non doveva più preoccuparsi se le sue labbra prendevano una piega infantile.

«Da che mi ricordo, ho sempre fatto tanti di quegli sforzi...».

Ora non era tenuto a spiegare il senso delle sue parole, come quando si lamentava di qualcosa con sua moglie.

Già da piccolo dava l'impressione di essere così grasso che i domestici mormoravano che non avrebbe mai camminato. E per molto tempo aveva avuto le gambe arcuate.

A scuola gli capitava di guardare le lettere sulla lavagna con una tale dolorosa fissità che il maestro gli diceva:

«Stai di nuovo sognando!».

Forse aveva ragione, visto che finiva sempre per assopirsi.

«È inutile farlo studiare...».

Si rivedeva allo Stanislas, in un angolo del cortile, immobile mentre gli altri ragazzi correvano, abbandonato su una panchina dai professori che non lo degnavano neanche di uno sguardo.

Eppure, con pazienza, con tenacia, era riuscito a prendersi un diploma.

Dio mio, com'era stanco adesso! Chissà perché proprio lui, che non aveva mai fatto male a nessuno, era stato costretto a caricarsi sulle spalle i pesi più gravosi.

Suo padre, per esempio, non aveva mai dovuto fare il benché minimo sforzo. Prendeva alla leggera la vita, i soldi e le donne, viveva solo per divertirsi e tutte le mattine si svegliava di buon umore; il figlio lo vedeva passare sempre fischiettando, con gli occhi che gli brillavano per un piacere appena goduto o per uno che si apprestava a godere.

Così si era mangiato la dote della moglie, ma lei non se l'era presa. Aveva quasi mandato in rovina la ditta ereditata dal padre, ed era toccato poi al figlio sgobbare anni e anni per risanarla.

E ciò nonostante, quando alla fine si era ammalato, aveva avuto tutti i suoi cari attorno a sé, compresa una moglie devota che non gli aveva mai rimproverato niente e che aveva passato la vita intera ad aspettarlo.

Tutto ciò era immane, di una grandezza indescrivibile a parole, smisurato come il mare, la sabbia e il sole. Il signor Monde era ormai come una cariatide finalmente libera del suo fardello. Non si lamentava. Non recriminava. Non portava rancore a nessuno. Però, per la prima volta, adesso che era finita, lasciava che la stanchezza scorresse via come pioggia sui vetri e sentiva il proprio corpo più caldo e tranquillo.

«Perché sei stato così duro con me?» aveva voglia di sussurrare dolcemente all'orecchio del mare.

Eppure aveva sempre cercato di fare le cose per bene! Si era sposato per avere una famiglia, dei figli, non voleva essere un albero sterile, ma un albero che desse frutti, e una mattina sua moglie se n'era andata; e lui si era ritrovato da solo, con un bambino in fasce in un letto e una bimbetta in un altro, senza capire, senza sapere; sbatteva la testa contro il muro, e tutti quelli a cui chiedeva spiegazioni sorridevano della sua ingenuità. Alla fine, in un cassetto dimenticato, aveva scoperto disegni indecenti, fotografie oscene, cose innominabili che gli avevano svelato la vera natura di quella donna che aveva creduto tanto innocente.

In cuor suo non l'aveva condannata, anzi l'aveva compatita per quel demone che si portava dentro. E, per evitare che i bambini rimanessero soli, si era risposato.

Sentiva tutto il suo corpo distendersi, come sollevato, mentre piccole onde scintillanti lambivano la sabbia accanto a lui: chissà che prima o poi una di loro non venisse a fargli una carezza...

Aveva portato il suo fardello finché ne aveva avuto la forza. Che cosa orribile! Sua moglie, sua figlia, suo figlio... E i soldi!... I suoi soldi o i loro, non lo sapeva più, non voleva più saperlo... Tanto era inutile ora che tutto era finito e che...

C'era qualcuno che camminava. Di colpo aveva avvertito un rumore di passi, uno scricchiolio minaccioso del pavimento, il cigolio di una porta aperta e poi richiusa, un silenzio angosciante; intuiva la presenza di due persone, due persone che si fronteggiavano e si sfidavano, ed erano sull'orlo di una tragedia.

«No!».

Si passò la mano sul viso e si accorse che era asciutto; la passò sul cuscino senza trovare la macchia umida sotto il mento. Gli bruciavano le palpebre, ma era solo per la stanchezza, forse anche per via della polvere di carbone, e il viaggio in treno lo aveva lasciato tutto indolenzito.

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