Copertina
Autore Georges Simenon
Titolo Il gatto
EdizioneAdelphi, Milano, 2011, Gli Adelphi 400 , pag. 166, cop.fle., dim. 12,7x19,5x1,2 cm , Isbn 978-88-459-2611-2
OriginaleLe chat [1967]
TraduttoreMarco Bevilacqua
LettoreFlo Bertelli, 2011
Classe narrativa francese
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Aveva lasciato andare il giornale, che prima gli si era aperto sulle ginocchia e poi era scivolato lentamente fino al parquet lucido di cera. Non fosse stato per la sottile fessura che di tanto in tanto gli si disegnava fra le palpebre, si sarebbe detto che dormiva.

Chissà se la moglie ci era cascata... Se ne stava a sferruzzare, nella sua poltrona bassa, dall'altro lato del camino. Sembrava sempre che non lo guardasse neanche, ma lui sapeva da tempo che in realtà nulla le sfuggiva, nemmeno il più impercettibile fremito di un muscolo.

Fuori, le ganasce d'acciaio di una benna piombavano dall'alto della gru e atterravano pesantemente, vicino alla betoniera, con un frastuono di ferraglia. Ogni volta il colpo faceva tremare la casa, e ogni volta la donna sussultava portandosi una mano al petto come se quel rumore, per quanto ormai familiare, la ferisse nel più profondo dei suoi visceri.

Si osservavano a vicenda. Non avevano bisogno di guardarsi. Da anni si osservavano in quel modo, di soppiatto, aggiungendo di continuo al loro gioco nuove sottigliezze.

Émile sorrideva. L'orologio di marmo nero dai fregi di bronzo segnava le cinque meno cinque e pareva che egli contasse i minuti, i secondi. In realtà li contava senza rendersene conto, aspettando anche lui che la lancetta lunga raggiungesse la posizione verticale. Solo allora il rumore della betoniera e della gru sarebbe cessato di colpo. Gli operai nelle loro cerate, con il viso e le mani grondanti di pioggia, si sarebbero bloccati per un attimo, per poi avviarsi verso la baracca di legno che stava in un angolo del cantiere.

Era novembre. Dalle quattro del pomeriggio lavoravano alla luce artificiale, ma presto i proiettori si sarebbero spenti e allora il vicolo, a malapena rischiarato dall'unico lampione a gas, sarebbe bruscamente sprofondato nel buio e nel silenzio.

Émile Bouin aveva le gambe intorpidite dal caldo. Quando dischiudeva gli occhi, vedeva le fiamme, alcune gialle, altre azzurrognole alla base, saettare dai ceppi del focolare. Il camino era di marmo nero, come i candelabri a quattro bracci che lo sormontavano, come l'orologio a pendolo, piazzato giusto in mezzo.

A parte le mani di Marguerite che si agitavano e il flebile ticchettio dei ferri da calza, in casa tutto era silenzioso, statico, come in una fotografia o in un quadro.

Le cinque meno tre minuti. Meno due. Alcuni operai cominciavano già ad avviarsi, lenti e pesanti, verso la baracca, per cambiarsi, ma la gru era ancora in funzione e un'ultima benna si alzò con il suo carico di cemento verso la cassaforma che segnava il primo piano dell'edificio in costruzione.

Meno uno. Le cinque. La lancetta vibrò, titubante, sul quadrante livido e si sentirono cinque rintocchi distanziati, come se, nella casa, tutto dovesse essere lento.

Marguerite sospirò, tendendo l'orecchio all'improvviso silenzio esterno, che sarebbe durato fino alla mattina dopo.

Émile Bouin rifletteva. Con un vago sorriso guardava le fiamme attraverso le palpebre socchiuse.

Dei tre ceppi, quello più in alto ormai era soltanto uno scheletro annerito da cui salivano fili di fumo. Gli altri ardevano ancora, ma dai loro crepitii si capiva che non avrebbero tardato a cedere.

Marguerite si chiedeva se il marito si sarebbe alzato per prendere dalla gerla altri ceppi e metterli nel camino. Si erano entrambi abituati al calore del focolare, e se lo godevano finché la pelle del viso non cominciava a pizzicare costringendoli ad allontanare le poltrone.

Il sorriso di Émile si fece più ampio. Non era rivolto a lei. E nemmeno al fuoco. Bensì a un'idea che gli passava per la testa.

Non aveva fretta di tradurla in azione. Avevano tempo, tutto il tempo che li separava dal momento in cui uno dei due sarebbe morto. Chi se ne sarebbe andato per primo? Non era dato saperlo. Sicuramente anche Marguerite ci pensava. Ci pensavano da molti anni, molte volte al giorno. Era diventato il loro problema principale.

Alla fine sospirò a sua volta e levò la mano destra dal bracciolo della poltrona di cuoio per cercare a tentoni la tasca della giacca da camera. Ne estrasse un taccuino che aveva un ruolo importante nella loro vita quotidiana. Le pagine erano strette e percorse da linee tratteggiate che permettevano di strappare con precisione strisce di carta di tre centimetri.

La copertina era rossa. In un anellino di cuoio era infilata una matita sottile.

Gli parve che Marguerite avesse sussultato: si chiedeva forse quale sarebbe stato, questa volta, il messaggio?

Ci era abituata, certo, ma non poteva mai sapere quali parole avrebbe scritto suo marito, e lui di proposito rimaneva immobile a lungo, con la matita in mano, come per riflettere.

Non aveva niente di speciale da comunicarle. Voleva soltanto infastidirla, tenerla sulle spine, proprio nel momento in cui lei provava sollievo perché era cessato il baccano del cantiere.

Gli vennero in mente molte idee, ma le respinse l'una dopo l'altra. Il ritmo dei ferri da calza non era più esattamente lo stesso. Era riuscito a turbarla, o almeno a solleticare la sua curiosità.

Prolungò il piacere ancora per cinque minuti, e intanto si udirono i passi di un operaio che si dirigeva verso il fondo del vicolo.

Alla fine scrisse, in stampatello:

IL GATTO

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Suo padre, prima di andare in cantiere, si mangiava una bella scodella di minestra, una bistecca o un po' di stufato, ma non per questo rinunciava a portarsi nel tascapane qualcos'altro da mettere sotto i denti.

Sua madre era piccola e rotondetta. La vedeva quasi sempre lavare dei panni che poi stendeva nel cortile. Non c'erano ancora le lavatrici. E se anche fossero esistite sarebbero state troppo care per loro. Inoltre, sua madre ne avrebbe diffidato, come diffidava di tutto ciò che funzionava a elettricità.

La donna metteva a bollire la biancheria in un enorme recipiente zincato e doveva iniziare di buon mattino, poiché aveva bisogno che il marito o il figlio, prima di uscire, la aiutassero a toglierlo dalla stufa.

C'erano i giorni riservati alla stiratura, le serate in cui rammendava i calzini, il pomeriggio dedicato a lucidare i rami, e così la settimana era un susseguirsi di immagini e odori diversi.

Curiosamente, con l'età, Émile era diventato quasi insensibile agli odori. Non vedeva più neppure le strade con gli stessi occhi di un tempo, quando gli sembrava che offrissero uno spettacolo perennemente mutevole del quale non si stancava mai.

Allora, quando si mescolava alla folla, aveva l'impressione di essere parte di un tutto, inserito in una sorta di sinfonia della quale ogni nota, ogni macchia di colore, ogni soffio d'aria calda o fredda lo affascinavano.

Non avrebbe saputo dire quando fosse avvenuto quel cambiamento. Probabilmente non all'improvviso, ma a mano a mano che invecchiava senza accorgersene. Non si era mai reso conto di invecchiare. Non si sentiva vecchio. E quando pensava alla propria età se ne stupiva molto.

Non era diventato né più saggio, né più distaccato. Aveva ancora gli stessi atteggiamenti infantili, gli stessi gesti, trovate, manie del ragazzo che era stato.

Mentre mangiava diede una prima occhiata al giornale del mattino, che aveva comprato in place Saint-Jacques. Intanto, di sopra, Marguerite si tratteneva a lungo nel bagno. Quattro anni prima, quando ancora si parlavano, le aveva fatto notare che era pericoloso lavarsi in una stanza chiusa a chiave, perché nel caso avesse avuto un malore nessuno se ne sarebbe accorto.

Anche dopo che si erano dichiarati guerra, si era abituato a stare con le orecchie tese mentre lei era nella vasca. Tanto più che il bagno si trovava esattamente sopra la cucina. Il tubo di scarico passava proprio accanto a una delle credenze, sulla destra, e ogni volta che la vasca si svuotava si sentiva un gran fracasso.

Émile bevve un paio di bicchieri di vino. Erano bicchieri tozzi, senza stelo, come quelli che si usano in campagna. Più tardi, verso metà mattina, tornando dalla spesa, ne avrebbe bevuto un terzo.

La sveglia segnava le sette e un quarto. Al mattino quel tic tac gli sembrava più rumoroso che durante il resto della giornata. Aveva anche notato che era più veloce di quello della pendola del salotto, e se ne domandava il perché, visto che segnava la stessa ora.

Si accese il primo sigaro e scese in cantina. Alla fioca luce della lampada fissata al soffitto, si dedicò per circa un quarto d'ora a spaccare la legna: era più economico comprarla in grossi ceppi piuttosto che già tagliata in tronchetti pronti per il camino.

Riempì la gerla e la portò in salotto, dove accese il fuoco, un altro compito da eseguire scrupolosamente mentre ascoltava le ultime notizie da una radio portatile.

In realtà le notizie non gli interessavano. Era solo un'abitudine, un'altra tappa della sua giornata. Sentì Marguerite entrare nella sala da pranzo e poi in cucina. Fuori, la pioggia cadeva in una nebbia lattiginosa.

Non aveva bisogno di sorvegliarla, dato che teneva le provviste personali sotto chiave, nella credenza. Anche Marguerite si preparò un caffè, ma decaffeinato, perché era convinta di essere malata di cuore.

Ma forse era soltanto un alibi, un pretesto per potersi lamentare e assumere un'aria sofferente.

La donna accompagnò il caffellatte con tre o quattro fette biscottate imburrate, di modo che non aveva piatti da lavare.

Nel salotto il fuoco cominciava a prendere vigore. Benché la luce del giorno fosse ancora incerta e sbiadita, Émile spense le lampade e salì al primo piano per rifare il letto, operazione cui si applicava con grande scrupolo, senza lasciare una sola grinza alle lenzuola, alle coperte o alla trapunta.

Nel frattempo salì anche Marguerite. Non si salutarono e non si scambiarono neanche uno sguardo. Ognuno si dedicava alle proprie faccende, gettando all'altro un'occhiata furtiva soltanto quando credeva di non essere osservato.

Marguerite era invecchiata. Quando Émile l'aveva conosciuta non era già più una donna giovane, aveva una certa età, e forse la sua aria delicata le conferiva maggiore distinzione.

La sua carnagione era fresca e rosea, e sotto il serico candore dei capelli il viso aveva un'espressione dolce e cordiale.

I bottegai di rue Saint-Jacques la amavano molto e la rispettavano. Non apparteneva al loro mondo, ma a un mondo a sé. In quel quartiere dove un tempo il padre aveva fatto costruire le case del vicolo cieco che portava il suo nome, Marguerite era considerata alla stregua di un'aristocratica.

Per più di trent'anni aveva vissuto con un uomo distinto come lei, un musicista, un artista, primo violino all'Opéra, che la sera si vedeva passare con il frac indosso sotto un mantello nero e per anni aveva conservato l'abitudine di portare il cilindro.

Anche lui aveva quel sorriso dolce e vago, quella cortesia timida e al tempo stesso un po' altezzosa.

«Č un insegnante così bravo... Anche quest'anno uno dei suoi allievi ha vinto un premio al Conservatorio...».

A quell'epoca, il vicolo risuonava per ore e ore delle stesse frasi musicali ripetute al violino e accompagnate al pianoforte dal maestro.

Il piano era ancora in un angolo del salotto, ingombro di fotografie e di fragili ninnoli. Marguerite lo aveva suonato fino alla morte del primo marito, ma al ritorno dal funerale aveva deciso che non lo avrebbe aperto mai più.

All'inizio Bouin aveva provato a farle cambiare idea. Ma lei rispondeva con dolce ostinazione:

«No, Émile... Era il suo pianoforte. Č ancora un pezzetto della sua vita...».

Una volta lui aveva sollevato il coperchio e aveva fatto scivolare un dito sui tasti d'avorio; lei era scesa in fretta, indignata, senza riuscire a capacitarsi di come Émile avesse potuto osare tanto.

Ai suoi occhi quello strumento era parte del suo primo marito. Era una reliquia sacra, come il violino chiuso in un armadio. Certo, c'era un altro uomo, ora, a dividere con lei la camera da letto in cui Frédéric Charmois aveva dormito al suo fianco per più di trent'anni. Un uomo che si lavava nello stesso bagno. All'inizio avevano anche tentato di intrattenere gli stessi rapporti intimi.

Ma non aveva funzionato. Tutti e due erano imbarazzati e avevano l'impressione che alla loro età quei gesti maldestri diventassero ridicoli, quasi grotteschi.

Chissà, forse per Marguerite era una specie di sacrilegio. Émile la rivedeva con gli occhi chiusi, le labbra strette. Era come rassegnata. Dal momento che erano sposati, il nuovo marito aveva il diritto di disporre del suo corpo.

Ma quel corpo restava rigido, sulla difensiva.

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Al piano di sotto si sentiva qualche movimento. Émile captava il minimo rumore, il più impercettibile fruscio di stoffe. Marguerite si stava lentamente alzando, anche lei con l'orecchio teso. Una volta in piedi, il suo sguardo doveva essersi posato sulla gabbia e sul pappagallo dalla coda spennacchiata, perché la si sentì singhiozzare. Tra i singhiozzi, si diresse verso il corridoio balbettando parole confuse.

Sulla destra c'era un attaccapanni di bambù, che si trovava là forse dai tempi di Sébastien Doise. Vi erano appesi la giacca di pelle di Émile da un lato e, dall'altro, un vecchio cappotto verde di Marguerite.

Probabilmente lo indossò e calzò pure le galosce sopra le scarpe. La porta di ingresso si apri e si richiuse, e sul marciapiede risuonò un rumore secco di passi.

Émile corse alla finestra e la vide dirigersi precipitosamente verso rue de la Santé. Non aveva niente in mano. Si capiva che era agitata e, anche se non gesticolava, sicuramente stava continuando a fior di labbra il suo drammatico soliloquio.

Dove andava in quello stato? Per un istante Émile immaginò che si recasse al commissariato di polizia per lamentarsi di ciò che le aveva fatto, ma, tornato a letto, non tardò ad appisolarsi.

Non perdeva la consapevolezza della situazione. Si era verificato un fatto grave. Il resto della sua vita rischiava di cambiare in modo radicale. Niente gli permetteva di prevedere esattamente che cosa sarebbe accaduto.

Tanto peggio! Meglio, anzi! Doveva succedere, un giorno o l'altro. Doveva esplodere. Per troppo tempo aveva subito le perfidie di quella vecchia.

Lui non si sentiva vecchio. Ma vedeva vecchia lei, più di sua madre che era morta a cinquantotto anni.

Marguerite sarebbe riuscita a trovare il modo di avere l'ultima parola. Chissà, magari si era messa in testa di rivolgersi a un avvocato.

Passò mezz'ora e Bouin sussultava ogni volta che sentiva un rumore nel vicolo.

Per tutta la vita Marguerite aveva previsto disgrazie di cui soffriva in anticipo, anche se poi puntualmente non si avveravano. La sua avarizia, per esempio, derivava da una patologica paura del futuro, dal ricordo della rovina del padre, della fabbrica di biscotti passata in mani estranee.

Poteva ammalarsi, trovarsi all'improvviso paralizzata per sempre. E se un tempo aveva contato su di lui per essere assistita, ora non ci contava più. Avrebbe avuto bisogno di un'infermiera. Sarebbe stata in grado di pagarla per anni?

La parola ospedale la terrorizzava. Veniva presa dal panico all'idea di trovarsi alla mercé di chiunque, in un letto sconosciuto, sotto gli sguardi indiscreti di otto o dieci malati.

Aveva bisogno di soldi, quanto meno per pagarsi la retta in una clinica privata.

Ci pensava già dai tempi di Frédéric Charmois, forse fin da quando era ancora vivo suo padre.

Aveva paura di qualunque cosa, dei tuoni, del vento e soprattutto della miseria: si logorava a furia di fare preventivamente fronte a essa.

«Sarà lei a seppellirmi...».

Émile lo aveva pensato spesso. Glielo aveva anche detto. Una volta lei aveva mormorato:

«Lo spero...».

E poi aveva aggiunto tranquillamente:

«Restare soli è meno duro per una donna che per un uomo... Gli uomini non sono capaci di badare a se stessi... Sono più deboli di noi...».

E così alla fine aveva sempre ragione lei, di qualunque cosa si trattasse. Ora per esempio, mentre Marguerite camminava incurante del freddo e della neve per andare chissà dove, lui se ne stava sprofondato nel letto a piagnucolare, disgustato di sé.

Dei passi... I passi di due persone... Una delle quali era un uomo... La chiave infilata nella serratura...

«Prego, dottore...».

Émile non capiva perché avesse portato un medico, a meno che non fosse per lei, ma per lui. E se avesse chiamato uno psichiatra, pensando di farlo internare?

Entrarono in salotto e chiusero la porta. Bouin sentiva solo un mormorio soffocato. Durò a lungo. Cercava inutilmente di capire. Dopotutto, l'uomo che Marguerite aveva chiamato dottore doveva essere un veterinario.

Era così. Aveva chiamato un veterinario per far curare il pappagallo. Non si sbagliava. Alla fine si aprì la porta del salotto, poi quella d'ingresso. Émile si precipitò alla finestra e vide un uomo di spalle, che si portava via la gabbia ricoperta dal telo che serviva per la notte.

Tornò a letto, attese ancora finché si addormentò.

Più tardi gli giunsero dei rumori familiari, molto lontani, come da un altro mondo. Riconobbe i passi dell'anziana donna sul pavimento della camera e subito dopo l'urto di un piatto o una tazza sul marmo del comodino.

Tenne gli occhi chiusi. I passi si allontanarono. Marguerite scendeva le scale. Émile rimase immobile. Sentiva che la fronte gli si stava pian piano imperlando di sudore. Divenne una specie di gioco. Cercava di indovinare in quale punto preciso si sarebbe formata la goccia successiva, ora vicino a una tempia, ora in mezzo alla fronte, e di tanto in tanto ne spuntavano anche ai lati del naso.

Aprì gli occhi e vide che la tazza fumava ancora leggermente. Non aveva fame. Rifiutava di toccare il cibo che lei gli aveva portato per dovere o per pietà.

Chissà, magari aveva intenzione di sbarazzarsi di lui come si era sbarazzata del gatto...

Era la prima volta che gli veniva un pensiero del genere, sia pure vago, ma non ci credette veramente. Lo attribuì alla febbre, ma di sicuro c'entravano anche le conseguenze della sbornia.

«Sarebbe così pratico... Avrebbe diritto alla pensione senza dovermi più sopportare in casa... ».

Eppure in quel ragionamento c'era una contraddizione che preferiva non vedere. Se Marguerite lo aveva sposato per non essere sola e per assicurarsi un aiuto gratuito in caso di necessità, non aveva alcun interesse a toglierlo di mezzo.

Ma era in grado, lei, di riflettere prima di agire? Non era forse piena di odio? Un odio che sicuramente non era nato quella mattina e dunque non aveva niente a che vedere con il pappagallo, ma risaliva a molto tempo prima, magari a quando nemmeno si conoscevano, anche se dirlo poteva sembrare un'idiozia.

A Émile tornò in mente il suo sguardo freddo e duro quando, dopo aver a lungo esitato, si era disteso su di lei con l'intenzione di fare l'amore. Nel momento in cui, non senza dolore, egli la penetrava, il corpo di Marguerite si era a un tratto irrigidito, come se istintivamente rifiutasse il contatto con il maschio.

Per circa un minuto aveva sperato che si lasciasse andare, ma non era accaduto, anzi, e lui si era ritirato, pieno di vergogna, balbettando delle scuse.

«Perché?» aveva chiesto lei, con un tono di voce indifferente.

«Perché ti chiedo scusa?».

«Perché non continui e non ti soddisfi? Ti ho sposato, ed è mio dovere subire anche questo».

Mille volte gli era tornato in mente quell'«anche». Che cosa significava di preciso? Che altro doveva subire per sottomissione cristiana? I suoi sigari? I suoi modi grossolani? Il fatto di dividere la stessa camera?

Al primo piano c'erano due stanze vuote, una che serviva da ripostiglio, l'altra, la sua camera da ragazza, intatta in ogni minimo particolare, che lei considerava una specie di santuario.

Solo una volta gliel'aveva mostrata, dalla soglia, senza che lui ci mettesse piede. La porta era sempre chiusa a chiave; veniva aperta solo quando lui non c'era, o almeno così immaginava.

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