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| << | < | > | >> |Pagina 9La prima cosa che Hans notò della casa dei Krull, della famiglia Krull – era un Krull anche lui, ma del ceppo originario, un Krull di Germania –, fu, quando ancora non era sceso dal taxi, una réclame trasparente incollata sulla porta a vetri dell'emporio. Stranamente, fra tanti particolari che attiravano la sua attenzione, il suo sguardo si appuntò su quella réclame di cui decifrò, a rovescio, le due parole: «Amido Remy». Lo sfondo era blu, un bel blu oltremare, e al centro campeggiava un pacifico leone bianco. In quel momento, di fronte al leone dalla criniera immacolata come un lenzuolo, tutto il resto passò in secondo piano: un'altra réclame, anch'essa di plastica trasparente, con le parole «Liscivia Reckitt», relegata in posizione subalterna senza una precisa ragione; una scritta in giallo – «Mescita» –, metà sul vetro di sinistra e metà sul vetro di destra della porta; una vetrina zeppa di cordami, lanterne, frustini e parti di bardature; infine, poco distante, sotto il sole, c'era un canale, degli alberi, chiatte immobili e, lungo l'argine, un tram giallo che sfrecciava scampanellando. «"Amido Remy"!» scandì Hans scendendo dal taxi. Alle sue orecchie suonava come una formula magica, tanto più che, non parlando bene il francese, ignorava che cosa volesse dire. «Vediamo un po' come sono questi Krull di Francia!» pensò alzando la testa mentre si cacciava in tasca il resto. Sopra l'emporio, da una finestra aperta, si scorgeva il busto di un giovane in maniche di camicia seduto a un tavolo ingombro di quaderni. Da un'altra zona della casa provenivano grevi accordi di pianoforte. Fu allora che, oltre la vetrina di articoli marinari, in una penombra che pareva remota, Hans intravide la fronte di una donna, due occhi e una capigliatura grigia. In quell'istante, il giovane in maniche di camicia si affacciò alla finestra del primo piano a guardare incuriosito il taxi; a destra, un'altra finestra si aprì mostrando il viso affilato di una ragazza... Doveva solo attraversare tre metri di marciapiede e spingere una porta a vetri. Nella mano sinistra Hans reggeva una valigia di cuoio giallo, o più esattamente, di similpelle: un'ottima imitazione, come sanno fare in Germania. Data la sua altezza, camminava a grandi falcate. Un passo. Due passi. Allungò il braccio per girare la maniglia, ma la porta si aprì da sola mentre una singolare voce femminile, roca e stridula insieme, un miscuglio cacofonico di toni gravi e acuti, strillava sovrastando tutti gli altri rumori: «Eccome se sei una depravata, lo sai benissimo... Siete tutti dei depravati in questa casa!... Non solo ladri, dei miserabili ladruncoli, ma anche depravati...». Hans, con la valigia in mano, fu costretto a bloccarsi davanti a due donne che si spintonavano sulla soglia: l'una strapazzava l'altra cercando di buttarla fuori, mentre la megera continuava ostinatamente il suo monologo. Una parola aveva colpito Hans, la parola «depravati». Gli sembrava di conoscerne il significato, ma gli riusciva difficile associarlo ai Krull. Lo colpì anche un'altra parola pronunciata dalla negoziante dai capelli grigi, probabilmente sua zia: «Su, Pipì, non fate scenate!». «Pipì» andò a incasellarsi nella sua memoria accanto all'amido Remy. La scena durò il tempo di scendere dal taxi, pagare e attraversare il marciapiede. Intanto il giovane del primo piano era sbucato dall'emporio e, afferrata l'ubriacona per una spalla, l'aveva spinta con tanta violenza da spedirla barcollante diversi metri più in là. «Hans Krull?» chiese poi prendendo la valigia del viaggiatore. «Sì, sono io» rispose Hans in tedesco. Nonostante tutto, ci voleva un momento per abituarsi: la zia lo squadrò da capo a piedi, ma si capiva che a impressionarla maggiormente era la valigia dalle cromature lucenti. «Entrate, cugino» disse il giovane lanciando un'ultima occhiata minacciosa alla donna di nome Pipì. Dopodiché arrivò l'odore. Non subito, però: prima, il campanello. Ogni volta che la porta si apriva e si chiudeva, trillava un campanello e a Hans sembrava di non aver mai udito un suono simile prima di allora. Quindi, dentro l'emporio, ecco l'odore: un misto di catrame norvegese, quello che si applica sulle chiatte, di cordame, di spezie, con la nota dominante degli alcolici che venivano serviti su un angolo del bancone zincato. «Venite in salotto, cugino... Non ci aspettavamo di vedervi arrivare in taxi... Anna!... Élisabeth!... C'è il cugino Hans!...». Dietro l'emporio Hans scorse una cucina che doveva essere il centro della casa, ma lo fecero svoltare a destra, attraversare un freddo corridoio piastrellato di azzurro ed entrare in un salotto dove una ragazza si alzò precipitosamente dallo sgabello del pianoforte. «Buongiorno, cugino...». «Buongiorno, cugina...». «Lei è Élisabeth, mio padre la chiama Liesbeth... Ed ecco Anna... Io sono Joseph...». «Non parlate per niente francese?» domandò Élisabeth, mentre sua madre se ne restava immobile sulla porta, con le mani sul ventre. «Poco e male... Me lo insegnerete...». Le iniziazioni sono sempre imbarazzanti, eppure Hans conservava il suo buonumore, un buonumore particolare, sconosciuto in quella casa. Più che altro una leggerezza, fisica e morale. Si muoveva con disinvoltura e i suoi gesti erano aggraziati come quelli di un ballerino, e gli occhi, che erano piccoli, sprizzavano gioia di vivere, e forse malizia. «Vi faccio vedere la vostra camera, cugino?» riprese Joseph. Aveva più o meno la stessa età, venticinque anni, ma i suoi gesti, a differenza di quelli del cugino, erano legnosi e cauti. I gradini della scala, tirati a lucido, scricchiolavano. Tutta la casa era impregnata degli effluvi dell'emporio, anche se al primo piano erano meno intensi e si mescolavano agli odori domestici. Dalla finestra del pianerottolo si scorgeva un cortile e un giardino con un albero solitario. «Da questa parte, cugino... La camera è mansardata, ma guarda sul canale... Volete darvi una rinfrescata?». Hans si guardò le mani, che erano pulitissime. Sorrise e fu sul punto di spiegarne il perché. Doveva dirlo? Non subito, decise. Più tardi, forse, avrebbe raccontato che, sul treno da Colonia, aveva conosciuto una bella donna, l'aveva aiutata a contrabbandare alcuni oggetti alla frontiera e, scendendo alla stazione, l'aveva portata all'Hôtel du Chemin de Fer. Avventure del genere gli capitavano in continuazione, quasi senza volerlo. Lei non si era nemmeno spogliata. Gli aveva detto: «Mia cognata mi aspetta alle quattro e mezzo e mio marito rincasa alle sei...». Ecco perché si era lavato prima di presentarsi dai Krull. Non le aveva nemmeno chiesto come si chiamava. Era salita su un tram giallo. «Avete visto la famiglia quasi al completo» spiegò coscienziosamente Joseph mentre il cugino apriva la valigia e cominciava a tirare fuori qualche effetto personale. «La mamma manda avanti l'emporio...». «Come mai ha chiamato Pipì quella donna? È un nome?». «Un soprannome! Quella donna è l'incubo di mia madre. Vive con la figlia e un barbone su una chiatta abbandonata, mezza affondata nel canale. Sbriga le commissioni per i marinai, soprattutto quelli di passaggio, che si fermano alla chiusa solo per pochi minuti. È sbronza dalla mattina alla sera, e quando le va si accuccia in riva al fiume o sul marciapiede per fare i suoi bisogni...». «Ho capito». «Anna, mia sorella maggiore...». «Quanti anni ha?». «Trenta! È lei che bada alla casa. Era in cucina a stirare quando siete arrivato... Élisabeth ha diciassette anni... Studia pianoforte... Vuole diventare insegnante di musica...». «E voi?». «Studio medicina. Tra quindici giorni presento la mia tesi sullo pneumotorace bilaterale...». «E vostro padre?». «Passa tutto il tempo nel laboratorio con l'operaio... Volete che andiamo a trovarlo?». Il laboratorio era al pianterreno, in un locale in fondo al corridoio, con la porta che dava sul giardino. Due uomini seduti su seggiole così basse da sembrare seduti sul pavimento intrecciavano ceste di vimini. Quello che, con la sua bella barba bianca, somigliava a una statua di san Giuseppe, era il vecchio Krull, Cornélius Krull. Dopo aver girato Germania e Francia come cestaio, si era stabilito in quella città senza una ragione particolare, come ci si ferma una volta giunti al termine del proprio viaggio. Invece di baciare Hans, gli tracciò sulla fronte una piccola croce con il pollice, in un gesto che gli era familiare, e chiese: «Come sta mio fratello Wilhelm?». «Bene... Abbastanza bene...» rispose prontamente Hans. «Abita sempre nella nostra casa, a Emden? Nell'ultima lettera che mi ha scritto, trent'anni fa, diceva di avere aperto una bottega da calzolaio...». Cornélius Krull, con il viso e la barba di legno, continuava a maneggiare i flessibili ramoscelli di vimini, mentre una cicca di tabacco gonfiava ora la guancia sinistra, ora la destra dell'unico operaio, che lavorava lì sin da quando era arrivato il vecchio Krull. «Adesso volete vedere la mia camera, cugino?». La camera sapeva di chiuso. Era il più sgradevole tra gli odori della casa e Joseph, con il lungo corpo privo di vigore, il volto pallido e sempre serio, i capelli a spazzola, né biondi né rossi, gli occhi di un azzurro slavato, lo annoiava. «Anche voi state preparando qualche esame?». «Ne ho dato qualcuno... Di diritto... Ho dovuto lasciare l'università per motivi politici...». «Che cosa fate in Germania?». «Niente... Non tornerò mai più in Germania...». Sentì lo sguardo di Joseph farsi freddo, diffidente. «Quando avrò un po' più di dimestichezza con il francese andrò a Parigi e mi arrangerò... Magari mi farò naturalizzare... Voi siete naturalizzati, vero?». «Papà è francese da prima della guerra. Io ho fatto il servizio militare in Francia...».
Hans non si trattenne a lungo in camera di Joseph,
lasciando il cugino alla sua tesi sullo pneumotorace bilaterale... «La
radioscopia consentirà di osservare il collasso polmonare sin dalla fase
iniziale dello pneumotorace bilaterale e...».
Erano le ultime parole del quaderno. Accordi di piano rimbalzavano su tutte le pareti di casa. Hans andò a sedersi dietro la cugina Liesbeth che aveva un lungo naso appuntito. «Diamine! Non è esattamente uno spasso vostro fratello!». Lei sorrise ma non disse nulla. «Nemmeno vostra sorella Anna, del resto!». C'era una carta da parati a fiorellini. Dalla finestra aperta entrava l'estate, insieme ai rumori della strada e soprattutto, ogni tre minuti, al festoso scampanellio del tram giallo. La fermata distava soltanto una cinquantina di metri, e ogni volta si udiva lo stridio dei freni che facevano cadere un po' di sabbia sui binari. «Poco fa» spiegò Hans guardando la nuca della cugina «mi sono sentito parecchio in imbarazzo davanti a vostro padre...». «Come mai? Perché è così silenzioso?». «No... Perché mi ha chiesto notizie del mio...». «Ed è una domanda imbarazzante?». «Be', sì!... Mio padre è morto da quindici anni...». Lo aveva detto in tono scherzoso e Liesbeth, che si era girata di scatto a guardarlo, a sua volta non riuscì a trattenere un sorriso. «Ma la lettera?... Quella che vostro padre ha scritto ai miei genitori?...». «... che io ho scritto!». «Perché?». Lui si grattò la testa in modo comico. Benché fosse il Krull tedesco, come dicevano in casa, aveva una carnagione quasi scura, un aspetto quasi meridionale, mentre i Krull francesi avevano conservato un colorito di porcellana danese. «Non lo so nemmeno io... Ho pensato che una lettera da parte di mio padre avrebbe fatto più effetto... Sono bravo a imitare le calligrafie... Così ho scritto che mio figlio Hans aveva bisogno di passare due o tre mesi in Francia per perfezionare la lingua...». La fissava negli occhi e lei fu costretta a distogliere lo sguardo. «Siete arrabbiata?». «La cosa non mi riguarda... Ma se mio padre...». «Glielo direte?». «Per chi mi prendete?». «Cercate di capire, dovevo assolutamente lasciare la Germania e avevo solo pochi marchi... Allora mi è venuto in mente il fratello di mio padre... Mi chiedevo solo se, dopo tanti anni, abitasse ancora nella stessa città... Mi sembra strano che la gente resti così a lungo in un posto...». «E voi?». «Io ho vissuto un po' dappertutto in Germania: a Berlino, a Monaco, e anche in Austria. Poi ad Amburgo e su un piroscafo dell'Amerika Line...». «Cosa facevate?». «Qualunque cosa, quello che capitava ... Sul piroscafo suonavo nell'orchestra... A Berlino mi occupavo di cinema...». «È meglio se qui non raccontate queste cose» disse lei voltandosi verso il pianoforte. «Lo so!». «Allora perché me ne avete parlato fin dal primo momento?». «Così!» rispose avviandosi verso la porta, dove si fermò un istante a squadrarla.
Subito dopo dal salotto uscì un profluvio di note.
Nemmeno ventiquattr'ore dopo il suo arrivo Hans girava per casa con la massima disinvoltura, come se ci avesse passato tutta l'infanzia; ovunque si trovasse riusciva persino a riconoscere la voce di Pipì, che veniva di continuo a sbrigare commissioni per i marinai e ogni volta non perdeva occasione per farsi un cicchetto. E non si era limitato ad ambientarsi tra le pareti domestiche, aveva esplorato anche i dintorni. La città era come se non esistesse. La casa si trovava all'estrema periferia, al punto che non ne faceva quasi più parte. Tanto che il tram si fermava a meno di cinquanta metri e tornava indietro dopo aver fatto manovra. Di fronte alla casa, la banchina, larga e fiancheggiata da tre o quattro filari di alberi, era disseminata di panchine, travi, legname da costruzione e mattoni scaricati dalle chiatte... Al di là del canale, su una specie di terreno incolto o di campo di manovra, sorgeva il lungo fabbricato rosso del poligono di tiro militare; dalla mattina alla sera risuonavano come frustate le detonazioni dei fucili. Ma questo succedeva sull'altra sponda. Non faceva parte di quai Saint-Léonard, perciò non contava. Su quai Saint-Léonard, oltre l'emporio dei Krull c'era solo una casa con annessa un'officina: la Falegnameria Guérin. Più avanti, un cantiere proprio in riva al canale, alcune chiatte tirate in secca e delle barche non ultimate: i Cantieri navali Rideau. «Andate mai a passeggio lungo il canale?» chiese Hans a Liesbeth. «Non mi lasciano uscire da sola». «Allora quand'è che andate a spasso?». «La domenica, quando tutta la famiglia va in chiesa». I Krull francesi, al pari di quelli di Emden, continuavano a professare la religione protestante. «Non vi annoiate mai?». «Mi annoio sempre!». Lui, invece, non si annoiava affatto. Si aggirava per casa curiosando, ficcava il naso negli angoli più remoti e trovava tutto divertente, inclusa Anna, che recitava la sua parte con estrema serietà. «Prendete un po' di formaggio, cugino?». «Prendere? Perché non dite mangiare?». «Perché in francese si dice prendere un po' di formaggio... Io prendo un po' di formaggio, tu prendi un po' di formaggio...». Ricordava tutto quello che lei diceva e, alla prima occasione, si divertiva a farla cadere in contraddizione, con affabilità, e con uno scintillio malizioso nello sguardo. Di tanto in tanto, senza motivo apparente, faceva l'occhiolino a Liesbeth, che voltava la testa dall'altra parte. Pur avendo trascorso più di due terzi della sua vita in Francia, Cornélius Krull non aveva mai imparato il francese. In compenso, aveva quasi dimenticato il tedesco e si esprimeva in una strana lingua ibrida che solo i suoi familiari erano in grado di capire. «Pipì è venuta di nuovo, zia Maria?». Si divertiva a stuzzicare la zia, nonostante la sua imponenza, e le domandava candidamente: «Perché tenete sempre le mani sul ventre?». Due giorni? Nemmeno! Era lì da un giorno e mezzo, sfaccendato e noncurante. Erano circa le undici del mattino: un'ora che prediligeva per via della luce, degli odori che provenivano dalla cucina e del campanello dell'emporio che non la smetteva di trillare. Era appena salito in camera sua, senza una ragione particolare, dopo aver preso dalla dispensa un pezzo di salame. Si era steso sopra le coperte tutto vestito, in ascolto. Dai rumori nella stanza accanto si capiva che Liesbeth era intenta a voltare il materasso e rifare il letto. Con lo sguardo fisso al soffitto, che le mosche avevano picchiettato di nero, sembrava chiedersi: «Vado o non vado?... Ci provo o non ci provo?...». Finì di masticare l'ultimo boccone di salame, si alzò, si pulì la bocca e sorrise rimirandosi allo specchio. Poi girò piano piano la maniglia della porta, si fermò sul pianerottolo con l'orecchio teso, afferrò la maniglia di un'altra porta e la aprì senza fare il minimo rumore. Non si era sbagliato: Liesbeth si girò di scatto e trasalì, lanciando istintivamente intorno uno sguardo spaurito. Che cosa temeva se non questo? E il letto che non era ancora stato rifatto... E lei che non portava niente sotto il grembiule!... «Che cosa...?». Lui sorrise, strizzò l'occhio e richiuse la porta. Un quarto d'ora dopo si allontanò in punta di piedi con un lungo graffio sul viso ma lo sguardo più raggiante che mai. Non si voltò, non voleva essere troppo crudele. Ruotò la maniglia, adagio, senza produrre alcun rumore, come sapeva fare lui. E vide... Si trovò di fronte Joseph, anche se non proprio alla stessa altezza, perché il cugino si era già avviato giù per le scale e se ne scorgeva solo il busto. Era pallido, più pallido del solito, e i suoi lineamenti si contraevano in modo inquietante. Sembrava sul punto di scappare, come se fosse stato sorpreso a spiare dal buco della serratura. Hans non stette lì a domandarsi cosa fosse opportuno fare. Reagì d'istinto e si trasse d'impaccio con un'occhiata. Tornò in camera sua, guardò dalla finestra sfrecciare il treno, la massa verde degli alberi, i riflessi dell'acqua fra i tronchi, si annusò, sentendosi addosso tracce di Liesbeth. A tavola, durante il pranzo, Joseph non disse nulla. Era noioso come sempre, tutto compreso della solennità della vita. Il vecchio Cornélius, l'unico a godere del privilegio di una poltroncina di vimini, non parlava mai e a Hans venne il dubbio che fosse un po' rimbambito. Anna, invece, si occupava del cugino. «Come si chiamano queste?» gli chiedeva indicando il piatto. «Carote...». «E questa?». «Carne!». «Costoletta di agnello... Ripetete... Costol...». Gli sarebbe piaciuto farsi una risata, dare di gomito a Liesbeth seduta accanto a lui, e addirittura – perché no? – chiederle ad alta voce: «Come si chiama quello che abbiamo fatto poco fa?». Invece si tratteneva, non mostrava niente di tutto ciò, non si poteva nemmeno dire che sorridesse, però sprizzava allegria da tutti i pori. «Liesbeth, non mangi?» brontolò zia Maria. «Non ho fame». E lui, nonostante tutto, si tolse lo sfizio di pontificare in un tono degno del paludato Joseph: «Alla vostra età si dovrebbe avere sempre fame!». Per tutta risposta lei gli lanciò uno sguardo afflitto. Scorgendole gli occhi appannati dalle lacrime, lui le strinse giocosamente un ginocchio. «Non è così, Joseph? Voi che siete medico...». Gli altri non potevano capire. Per loro era una giornata qualunque, immersa nella pace e nel sole. Non immaginavano che erano bastati pochi minuti... A un tratto Liesbeth si alzò con il viso affondato nel tovagliolo e mentre usciva si sentì il suono rauco di un singhiozzo. «Ma che cos'ha?» si preoccupò sua madre.
E Joseph che guardava fisso il cugino! Il vecchio Cornélius masticava
lentamente, senza pensare ad altro,
mentre l'operaio, nel laboratorio, sbocconcellava lo
spuntino che ogni giorno si portava da casa...
«Vi va di fare una passeggiata, cugino?». «Chiamatelo Joseph, Hans!» intervenne zia Maria. Era sera. Tutta la famiglia se ne stava sul marciapiede, di schiena al muro di casa: lo zio sulla sua poltroncina di vimini, gli altri su sedie impagliate. Il sole era appena tramontato. Dal canale saliva una frescura umida e tra gli alberi spuntavano sottilissimi nastri di nebbia. Venti metri più in là, sul marciapiede davanti alla falegnameria, altre sedie, altra gente che non aveva niente a che spartire con i Krull e non li degnava nemmeno di uno sguardo. Cornélius fumava una lunga pipa di porcellana, con gli occhi socchiusi e la barba rigida come quella della statua di un santo. Zia Maria ricamava con un filo rosso gli angoli di una pila di tovaglioli a quadretti. Anna aveva preso un libro ma non lo leggeva, e Liesbeth era andata a letto con la scusa che si sentiva poco bene. Il mondo sembrava essersi svuotato. Le chiatte sonnecchiavano. Un sottile rivolo d'acqua che sgocciolava dalla fessura di una paratoia della chiusa diffondeva nell'aria un gorgoglio di fontana, interrotto ogni dieci minuti dal frastuono del tram, le cui irruzioni si diradarono con il calare della notte. «Ma sì... Andate a fare due passi... Non tornate troppo tardi...». Hans non si metteva mai il cappello, il che accentuava la sua aria disinvolta. Portava camicie morbide, con il colletto aperto: il suo modo di vestire aveva una particolare rilassatezza che faceva risaltare la legnosità di Joseph. Chissà perché, sulla superficie liscia del canale continuavano ad allargarsi piccoli cerchi, come a mostrare che lì sotto c'era vita. I due giovani, coetanei, camminavano a lunghi passi lenti. Non solo avevano la stessa età, ma erano della stessa statura e avevano entrambi gambe lunghe e piedi grandi. «Non dite niente, cugino Joseph?». Voltandosi indietro potevano vedere, immobile sulla soglia di casa, la famiglia e, un po' più lontano, raggruppata sul marciapiede, l'altra, quella del falegname. «Mi chiedo che intenzioni avete con mia sorella...». «Non ho nessuna intenzione!». Si erano lasciati alle spalle le ultime case e davanti a loro si estendeva la campagna, o meglio una zona neutra di siepi, ortiche e terreni incolti, ma non ancora di pascoli o vacche. «Avete guardato dal buco della serratura?» domandò Hans senza alcun imbarazzo. Non si girò verso il cugino. Non era necessario per sapere che era arrossito. «Se avete guardato, avrete constatato che lei ne aveva voglia quanto me...». Notò che la mano di Joseph, una mano lunga, resa più pallida dalla luce del crepuscolo, una mano curiosamente disegnata, si era messa di colpo a tremare. «Perché siete venuto da noi?» domandò Joseph con voce esitante. «Perché non sapevo dove altro andare!». «Perché proprio qui?». «Ve l'ho appena detto: mio padre aveva solo un fratello e una sorella... Sua sorella è in un convento, a Lubecca... Non potevo mica andare in convento...». E in tono più leggero: «Avete lavorato oggi?». «No!». «Per via di quello che è successo?». «Pervia di tutto...». «Tutto cosa?». «Tutto quanto!». Gli tremavano le mani. Si erano fermati a meno di venti metri da un lampione, l'ultimo prima della totale oscurità della campagna. Hans seguì la direzione del suo sguardo e scorse una forma confusa, una coppia abbracciata, in piedi, nell'ombra: la donna sollevata sulla punta dei piedi per meglio incollare le labbra a quelle dell'uomo. «Chi è?» chiese tanto per chiedere. «Sidonie...». «E chi è Sidonie?». «La figlia di Pipì... Non importa...». «Dite un po', Joseph!». «Che c'è?». «Non è che siete tutti un po'... un po' esaltati, in famiglia?». Non era la parola giusta. Aveva esitato. Se avesse conosciuto il termine «suonato» probabilmente avrebbe usato quello. «Perché dite così?». «Così... Mi vengono in mente certe cose... La sorella di mio padre e del vostro, che dopo aver letto non so quale libro ha rinnegato la fede luterana ed è entrata in convento... C'è chi dice che abbia persino delle visioni... Quando è morto, mio padre da due anni non sopportava la vista del colore rosso... Sapete com'è morto?». «Mio padre è perfettamente normale!» saltò su Joseph. «Può darsi. Dicevo tanto per dire... È sempre così trafficato il canale?». «Sempre... È il porto principale della città...». «Avete molti amici?». «Neanche mezzo!». «E all'università?». «Non sei molto benvisto quando hai una madre che serve da bere ai cavallanti...». «Perché lo fa?». «Perché la gente del quartiere ci considera stranieri e non viene da noi... Se non fosse per i battellieri e i cavallanti...». La strada si era ridotta a una stretta alzaia lungo il canale. Un barchino scivolava lentamente sull'acqua: un pescatore di frodo, che andava a posare attrezzature proibite, manovrava la pertica scrutando gli argini. «Avete un'amante, cugino Joseph?». «No...». Era un no rabbioso, cattivo. «Torniamo indietro?...». Poco lontano dal lampione rividero la coppia. Pareva che non avessero mai staccato le labbra. Più in là, le barche in secca del cantiere navale, la famiglia del falegname davanti alla prima casa, e infine la famiglia Krull, con la poltroncina di vimini, la barba bianca, la lunga pipa di porcellana e il grembiule a quadretti della zia. L'aria era azzurrina, i nastri di nebbia di un azzurro più chiaro, tutto era azzurro: il cielo, gli alberi erano blu notte, e quando rientrarono era blu anche la réclame trasparente dell'Amido Remy. Prima di aprire la porta della sua camera, Hans indugiò sul pianerottolo. Udì un rumore che sembrava un singhiozzo soffocato e alzò le spalle.
Poi, una volta a letto, sentì Joseph, nella camera sotto
alla sua, camminare avanti e indietro senza darsi pace.
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