Copertina
Autore Georges Simenon
Titolo Memorie intime
SottotitoloSeguite dal Libro di Marie-Jo
EdizioneAdelphi, Milano, 2003, La collana dei casi 54 , pag. 1230, cop.fle., dim. 140x220x55 mm , Isbn 978-88-459-1775-2
OriginaleMémoires intimes [1980]
TraduttoreLaura Frausin Guarino
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe biografie , gialli
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Indice


MEMORIE INTIME                             9


IL LIBRO DI MARIE-JO                    1031


Tavola delle opere di Simenon citate    1221


 

 

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Pagina 11

1
Sabato, 16 febbraio 1980

Piccolina mia,

so che sei morta eppure ti scrivo, e non è la prima volta che lo faccio. Te ne saresti voluta andare con discrezione, senza disturbare nessuno. Invece la tua morte ha messo in moto una quantità di ingranaggi burocratici e non solo, tanto che ancor oggi notai e avvocati cercano di venire a capo di alcuni problemi sollevati dall'ostinazione di tua madre, e che forse prima o poi saranno risolti dai tribunali.


A dare l'allarme è stato il nostro buon amico, il dottor Martinon, di Cannes, con il quale avevi un appuntamento telefonico per il venerdì 15. Il tuo apparecchio suonava a vuoto. Martinon continuava a chiamare, e alla fine gli hanno detto che la linea era interrotta. All'alba ha telefonato a Marc, quello dei tuoi fratelli che vive più vicino a Parigi; Marc e Mylène si sono precipitati a casa tua, sugli Champs Elysées, e hanno trovato la porta chiusa dall'interno. Poiché il portinaio non possedeva una copia delle chiavi, si è dovuto ricorrere al commissario di zona, che è arrivato immediatamente e ha chiamato un fabbro.

Il tuo appartamento era impeccabile, ordinato e pulito come se, prima di andartene, tu avessi fatto le pulizie di fino, lavato e stirato vestiti e biancheria. Ogni cosa era al suo posto, e tu eri sdraiata sul letto, con un piccolo foro rosso nel petto.

Da dove veniva la calibro 22 a un solo colpo? Chi aveva comprato le cartucce?


Si è avviata un'inchiesta giudiziaria: medico legale, procura, Scientifica... Quanto a me, assistevo, dalla mia piccola casa di Losanna, a tutto quel frenetico carosello che ho così spesso descritto nei miei romanzi.

Conclusi i primi rilievi, il tuo corpo è stato portato all'Istituto di medicina legale; sono riuscito a evitarti l'autopsia, ma ho telefonato al commissario per chiedergli di far mettere i sigilli alle tue due porte.

Sigilli che sono stati tolti per qualche ora, circa un mese fa, per permettere un inventario e una stima di tutti gli oggetti da parte di un funzionario. Erano presenti il notaio, un ufficiale giudiziario, il commissario di zona, due avvocati, quello di tua madre e quello che ci rappresentava, nonché i tuoi tre fratelli, tua madre e Joyce Aitken, la mia assistente, che mi sostituiva perché non sono più in grado di viaggiare, con tutti che andavano e venivano intorno al tuo letto rimasto tale e quale lo avevano trovato quasi due anni prima.

Dopodiché, sono stati apposti di nuovo i sigilli e non so quando verranno tolti. Č un po' come se il tuo corpo fosse ancora caldo dopo seicento giorni!


Non potendolo fare di persona, è stata Joyce Aitken, seduta vicino all'autista del carro funebre, a portarti a Losanna, com'era nei tuoi desideri. Io ti aspettavo lì; ti hanno sistemata in una saletta delle pompe funebri della città dove, affranto dal dolore, sono rimasto quasi un'ora solo con te.

Ho osservato scrupolosamente le tue ultime volontà, trovate accanto al tuo corpo. Nessuna cerimonia. Il giorno seguente, solo poche persone si erano riunite davanti alla tua bara mentre un organista suonava in sordina un pezzo di Bach che ci piaceva tanto. Gran profusione di fiori; i miei erano bracciate intere di lillà bianchi che ben si addicevano alla ragazzina ridente che ricordavo.

Nella prima fila di banchi a sinistra, quattro uomini in piedi, spalla a spalla: i tuoi tre fratelli, Marc, Johnny e Pierre, e io, tuo padre, in fondo al banco, a margine della stretta corsia.

Sull'altro lato, tua madre e una signora che non conosco.

Dietro, Mylène, Boule e Teresa con due o tre dei tuoi amici che mi avevi detto di invitare.

Venti minuti di immobilità e di musica. Poi, a un cenno del cerimoniere, sono uscito per primo dopo aver dato appuntamento ai tuoi fratelli per l'indomani. Fuori ho trovato Teresa che mi ha riaccompagnato a casa, inebetito, come se fossi diventato di colpo vecchissimo.

Seduti ai due lati del caminetto, sapevamo che in quel momento il tuo corpo veniva cremato, e io stesso mi ero assicurato, secondo quanto avevi insistentemente chiesto, che non ti togliessero l'anellino d'oro che mi avevi supplicato di comprarti quando avevi otto anni e che ti eri poi fatto allargare a più riprese.

Il mattino dopo, sul presto, il rappresentante delle pompe funebri ci ha consegnato l'urna che conteneva le tue ceneri e, rimasti soli, ho esaudito il tuo ultimo desiderio: che quella bianca polvere venisse sparsa nel piccolo giardino della nostra casa rosa.

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Pagina 58

I contadini, allora? Ma dove sono, ormai? Gli operai? Gli scienziati? Gli intellettuali dal linguaggio sofisticato?

Se devo essere sincero, la mia preferenza va all'uomo dalla pelle nera e lucente che ho fatto in tempo a incontrare in mezzo alla sua tribù, nel cuore della savana o della foresta equatoriale, e che viveva ancora lontano dai bianchi, senza neppure conoscere la parola denaro.

Quell'uomo era nudo, dormiva in una capanna (chi lo desiderava se la tirava su, in un giorno, sulla terra di tutti), e al mattino, poco prima dell'alba, munito di un piccolo arco e di piccole frecce molto appuntite, si allontanava con passo elastico e circospetto, senza far rumore, guardingo, attento al minimo fremito degli alti ciuffi d'erba o del fogliame, mentre la sua o le sue donne, nude come lui e come lui lucenti nel sole, circondate da un nugolo di marmocchi dagli occhi grandi, pestavano il miglio in mortai scavati direttamente nel legno con un pezzo acuminato di selce.

In quell'uomo, in quelle donne, ho scoperto una dignità umana che non ho incontrato da nessun'altra parte. Li si vedeva e li si sentiva appena, immersi com'erano nella natura, confusi con essa, in armonia con i suoi ritmi.

Avevano forse un cattivo odore, come alcuni sostengono? In realtà sono loro che, quando incontrano il bianco, si sentono disturbati da un odore che gli ricorda quello dei morti. Hanno labbra tumide e capelli crespi. Ma chi ha fissato i canoni della bellezza umana? Per conto mio, se dovessi indicare una Venere in grado di competere con quelle dell'arte greca, l'andrei a cercare in Africa, ammesso che anche là si trovi ancora qualcosa allo stato originario.

Gli capita di mangiare carne umana? Sono cannibali?

E non lo siamo forse stati anche noi in un lontano passato? Ho incontrato quattro marinai, tra cui un capitano, che avevano fatto la stessa cosa, o meglio: per sopravvivere avevano succhiato sangue umano ancora caldo. E tre o quattro anni fa, i giornali ci hanno riferito che un gruppo di giovani, tutti uomini, il cui aereo era precipitato nella cordigliera delle Ande in un luogo impervio, inaccessibile ai soccorsi, avevano mangiato i compagni più deboli. E si trattava di giovani cosiddetti di buona famiglia, beneducati, per di più universitari, e tutti ferventi cristiani.

Per me le questioni razziali non sono un problema: le ignoro. E milioni di anni fa, avrei probabilmente trovato l'uomo che ho tanto cercato lungo le rive della Senna, del Reno, del Po, del Danubio o del Dnepr, l'uomo che aveva imparato a conoscere la Vita non fra quattro pareti, bensì alla scuola tanto più vera della natura.

Siamo stati tutti uomini nudi, o, nei climi meno clementi, coperti da pelli di animali che allora si uccidevano solo per fame, non per il piacere di uccidere o per avere una conferma della propria superiorità o del proprio potere. Perché ci vergogniamo dei nostri lontani antenati? Essi hanno lasciato nelle nostre cellule tracce profonde, e a volte, in alcuni di noi, gli antichi riflessi all'improvviso riemergono.

E noi, come ci comportiamo nei confronti di questi individui che pure tanto ci assomigliano? Gli affibbiamo appellativi che inventiamo a ogni guerra per umiliare i nemici o darci buoni pretesti per ucciderli senza rimorsi, e anzi vantandocene, come i nostri aviatori che aggiungevano una stella sulla loro carlinga a ogni aereo abbattuto, o come i nostri fanti che incidevano una tacca sul calcio del fucile ogni volta che uccidevano un uomo.

L'uomo nudo, invece, si limitava a vivere al ritmo della natura, del mare e del cielo, e quando ha avuto bisogno di un dio ha scelto una stella o un animale conosciuto.

Ho nel cassetto la mia brava targhetta d'argento di commissario della Polizia giudiziaria (a nome dell'amico Maigret, comunque); porta il numero di matricola 0000, mentre quella del prefetto ha lo 0001. In Arizona mi hanno consegnato, come a tutti i proprietari di un ranch, una stella da sceriffo, e tenevo sempre, nel vano portaoggetti della macchina, una colti a canna lunga.

Non ho mai sparato un colpo.

Se a volte mi è capitato di inseguire qualcuno dei miei simili, si è sempre trattato di donne, perché ero continuamente a caccia d'amore, di amore fisico e di tenerezza.

Ed è la caccia più estenuante e più scoraggiante che ci sia, perché nella società che ci siamo costruiti, o meglio, che altri, più avidi e maligni, hanno costruito per noi, sempre più coercitiva, l'amore e la tenerezza sono più rari del diamante – quella benedetta tenerezza, specialmente, che tutti noi sogniamo e di cui abbiamo un bisogno profondo, radicato nella carne, e che, non essendo quasi mai raggiunta e goduta, crea tutto un universo di scontenti, di instabili, di automi e di infelici.

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Quando ho deciso di scrivere queste memorie, non è stato senza ragione che nella mia mente i ricordi si siano subito ordinati in base alle case che ho abitato, con immagini precise dei muri, del colore e di ciò che stava intorno.

Fino a questo momento, sono state quasi sempre le case a contrassegnare il succedersi dei vari periodi. Non ho consultato gli archivi che conservo in ufficio e sono stati i fatti più significativi, come il matrimonio con Tigy, l'avvento di Hitler, il mio primo figlio, i trasferimenti da un continente all'altro e altri episodi più personali, a servirmi da riferimento per quel che riguarda le date.

Di recente, però, ho chiesto ad Aitken di prepararmi una documentazione precisa, cronologicamente esatta. Data la mia incapacità di ricordare le date, e a volte anche i nomi, questa lista mi è senz'altro preziosa, anche se, lo confesso, nel corso del mio racconto non sempre la seguo.

I sei anni a Échandens, per esempio, costituiscono per me un tutto omogeneo e mi capita di saltare degli anni, o di tornare indietro, a seconda dell'umore del momento. Échandens rappresenta una tappa importante quanto New York o il Canada, ma segnata da un'atmosfera del tutto diversa perché anche lì, come in ogni vita umana, ci sono stati periodi più o meno solari e altri cupi e tempestosi.

Che cosa è stato Échandens per me? Diciamo che vi ho condotto diverse vite parallele. Prima fra tutte, quella vissuta con i miei figli bambini, una vita intima, calda, esaltante, di cui conservo immagini piacevoli e serene. Ho già parlato delle spedizioni ai mercati di Morges e di Losanna in compagnia di Johnny e di Marie Jo, dei pomeriggi trascorsi in giro per negozi, a scegliere allegri vestitini per la figlioletta che finalmente mi era stata data, e ho già scritto dei loro giochi e dei miei.

Ho come due flash, due immagini che mi tornano alla memoria e che contribuiscono a rischiarare il cielo minaccioso di quegli anni. Ed entrambe riguardano il mio Johnny.

Di solito cenavamo alle sei, e perlopiù D. non era presente, poiché prolungava al massimo i suoi pomeriggi «di lavoro» nello studio. Fra noi tre, regnava sempre una grande allegria, sotto lo sguardo divertito della giovane Yole che, in piedi vicino al passavivande, nell'uniforme nera che D. aveva imposto al personale, teneva d'occhio la tavola, pronta a servire le varie pietanze.

Dopo mangiato, Marie Jo saliva in camera sua per fare i compiti (ci teneva molto a essere la prima della classe), e veniva messa a letto alle otto e mezzo.

Allora, mio caro Johnny, in quella mezz'ora avevamo il nostro momento d'intimità, perché volevi seguire insieme a me il telegiornale delle otto.

Il televisore era inserito in un monumentale mobile antico, un mobile di chiesa con tanto di angioletti scolpiti, che conteneva anche il giradischi, le casse e i dischi.

Ogni sera, mio imperioso Johnny (così mi è accaduto di chiamarti, qualche volta), al momento di sederti sulla tua sedia, vicino alla mia poltrona, avevi un attimo di esitazione:

«Posso, Dad? Non sei troppo stanco?».

Ci capivamo subito: volevi stare in braccio. E spesso mormoravi, ancor più timidamente:

«Non vorresti, magari, fumare un sigaro?».

Fumo esclusivamente la pipa, ma tenevo sempre, nello studio lì vicino, qualche scatola di avana per gli invitati. Ti accontentavo sempre e la gioia che dimostravi nell'aspirare l'odore del sigaro compensava ampiamente il mio scarso entusiasmo di fumarlo. Ti interessava tutto del telegiornale, compresa la politica, e ogni tanto mi chiedevi sottovoce:

«Cosa voleva dire, De Gaulle?».

Le prime volte ti ho risposto. Una sera, però, ti ho spiegato che se stavo lì a risponderti perdevamo altre cose interessanti che venivano dette nel frattempo.

«Prendi un blocchetto e una matita,» ti ho suggerito «butta giù le domande e fammele dopo, alla fine del telegiornale».

Da allora hai fatto così. In fondo, Johnny, nonostante i tuoi scatti d'ira sei un tenero. Dopo una decina di minuti, per esempio, sussurravi:

«Forse ti peso troppo...».

«No, resta...».

Ma poco dopo scivolavi giù dalle mie ginocchia e andavi a sederti sulla tua sedia. Te ne ricordi, mio dolce e violento Johnny? Perché spesso alla minima contrarietà, anche a tavola, avevi improvvisi scoppi di collera. Allora ti alzavi e andavi su e giù per il corridoio esprimendo la tua ribellione con voce rabbiosa.

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