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| << | < | > | >> |Pagina 9Da oltre un'ora sedeva immobile, appoggiato allo schienale pressoché diritto della vecchia poltrona Luigi Filippo, di pelle nera ormai logora, che per quarant'anni lo aveva seguito da un ministero all'altro, tanto da diventare leggendaria. Quando rimaneva così, con le palpebre chiuse, limitandosi di tanto in tanto a sollevarne una per lasciar filtrare un rapido sguardo, si poteva pensare che dormisse. Invece, non solo non dormiva, ma conservava una precisa consapevolezza del suo aspetto esteriore: il busto un po' rigido nella giacca nera troppo ampia, simile a una redingote, il mento sostenuto dall'alto colletto inamidato che appariva in tutte le sue fotografie e che indossava come un'uniforme sin dal mattino. Con il passare degli anni la pelle gli era diventata più sottile, più liscia, cosparsa di macchie biancastre che ricordavano le venature del marmo, e ormai aderiva agli zigomi sporgenti e seguiva i contorni dello scheletro, affinandogli i lineamenti sino a renderli come depurati. Una volta, mentre era di passaggio in paese, aveva sentito un bambino dire ad alta voce a un coetaneo: «Ecco il Teschio!». Se ne stava immobile, a meno di un metro dal fuoco di ceppi che ogni tanto crepitava per via del vento, con le mani incrociate sul ventre, nella posizione in cui l'avrebbero composto per la veglia funebre. Chissà se avrebbero osato infilargli tra le dita un rosario, come avevano fatto con un suo collega, che era stato anche lui più volte presidente del Consiglio, nonché alto dignitario massonico. Gli accadeva ormai sempre più spesso di lasciarsi avviluppare dalla quiete, dal silenzio, a qualunque ora del giorno, ma soprattutto al crepuscolo, quando la signorina Milleran, la sua segretaria, sopraggiungeva senza far rumore, senza spostare l'aria, per accendere l'abat-jour col paralume di cartapecora sulla sua scrivania, per poi ritirarsi nella stanza accanto. Era come se volesse innalzare intorno a sé un muro, o meglio come se si rannicchiasse sotto una coperta per non sentire nulla al di fuori della sua personale esistenza. Se pure gli capitava di appisolarsi, ogni tanto, si rifiutava di ammetterlo, persuaso com'era che la sua mente rimanesse vigile; e a mo' di riprova, per se stesso e per i suoi collaboratori, aveva il vezzo di descrivere gli andirivieni di tutti. Quel pomeriggio, per esempio, la signorina Milleran – cognome pressoché identico a quello di un suo ex collega, il quale, però, era poi diventato presidente della Repubblica, sia pure per un breve periodo –, la signorina Milleran, dunque, quel pomeriggio era entrata due volte in punta di piedi; e la seconda volta, dopo essersi assicurata che non era morto e che respirava a ritmo regolare, aveva sistemato un ciocco che minacciava di rotolare sul tappeto. Aveva scelto per sé, per farne il proprio rifugio, la stanza più vicina alla camera da letto, con un tavolo di legno massiccio, non verniciato né incerato, grezzo come un bancone da macellaio. Era la sua famosa scrivania, più volte apparsa nelle fotografie ed entrata ormai anch'essa nella leggenda, insieme agli angoli più reconditi di Les Ébergues. Il mondo intero sapeva che la camera del presidente era una sorta di cella monacale con i muri imbiancati a calce e il letto di ferro. Tutti conoscevano, da ogni angolazione, le quattro stanze con il soffitto basso, un tempo scuderie o stalle, senza porte e con le pareti interamente tappezzate di scaffalature d'abete cariche di libri. Che cosa faceva la signorina Milleran mentre lui teneva gli occhi chiusi? Non le aveva dettato nulla e non vi erano lettere a cui rispondere. Non lavorava a maglia, non cuciva. E solo al mattino sfogliava i giornali per segnalargli gli articoli che potevano interessarlo, evidenziandoli con una matita rossa. Era convinto che annotasse tutto – un po' come certi animali accumulano nella tana materiali di ogni genere – e che dopo la sua morte avrebbe scritto un libro di memorie. Aveva tentato spesso di coglierla sul fatto, ma senza risultato. Né avevano avuto maggiore successo i suoi tentativi di stuzzicarla per strapparle una confessione. Pareva proprio che la signorina Milleran, nella stanza accanto, fosse immobile, esattamente come lui, e che si spiassero a vicenda. La segretaria stava forse pensando alla trasmissione delle cinque? Fin dal mattino soffiava un vento di tempesta che minacciava di svellere le lastre di ardesia del tetto e del muro di cinta a occidente; i vetri delle finestre tremavano come se qualcuno vi stesse bussando. La radio aveva parlato della difficile traversata del traghetto Newhaven-Dieppe, che era riuscito a oltrepassare i moli di Dieppe solo al terzo tentativo, dopo aver rischiato di dover tornare indietro. Il presidente era voluto uscire lo stesso, verso le undici, imbacuccato nel suo vecchio pellicciotto di astrakan che l'aveva seguito in innumerevoli conferenze internazionali, da Londra a Varsavia, dal Cremlino a Ottawa. «Spero che non stia pensando di fare una passeggiata» era intervenuta la signora Blanche, la sua infermiera, trovandolo vestito in quel modo. Sapeva che se il presidente aveva deciso non sarebbe mai riuscita a dissuaderlo, ma questo non le impediva di lanciarsi in una battaglia persa in partenza. «Il dottor Gaffé le ha ripetuto fino a ieri sera...». «La pelle è mia o del dottore?». «Ascolti, signor presidente... Lasci almeno che gli telefoni per domandare...». Il presidente si era limitato a guardarla con i suoi occhi grigio chiaro, che i giornali definivano «occhi d'acciaio». La donna provava sempre a sostenere il suo sguardo, e in quei frangenti chiunque avrebbe pensato che si odiavano. Chissà, magari, dopo dodici anni che la sopportava, lui la odiava davvero... Se l'era chiesto, ma non era sicuro della risposta. L'infermiera era forse l'unica persona che non si lasciava impressionare dalla sua celebrità. Ma chissà, forse fingeva. Un tempo avrebbe risolto il dubbio senza esitare, certo del proprio giudizio, ma con l'avanzare della vecchiaia diventava sempre più cauto. | << | < | > | >> |Pagina 32In tutta la sua vita il presidente non si era mai affezionato a nessuno, non tanto per principio, né per aridità di cuore, quanto per salvaguardare la propria indipendenza, a cui teneva più di ogni cosa. Si era sposato una sola volta, con una donna che era rimasta nella sua esistenza appena tre anni, giusto il tempo di dargli una figlia. E anche quest'ultima — ormai quarantacinquenne, sposata e madre di un ragazzo iscritto al primo anno di Giurisprudenza — gli era sempre rimasta estranea.Aveva ottantadue anni. Aspirava soltanto alla quiete, che riteneva di essersi guadagnato. Paradossalmente, l'unica persona a essersi attaccata a lui, l'unica capace anche a distanza di turbarlo tanto da impedirgli di leggere, era un uomo che per lui non significava né aveva mai significato niente. Chissà, forse l'importanza di Malate derivava dal fatto che, fra tutti i suoi coetanei che aveva conosciuto più o meno bene, era il solo, oltre a lui, a non essere ancora morto. Malate asseriva convinto, come se ne avesse la certezza: «Verrò al tuo funerale». Era stato ricoverato in ospedale una decina di volte, a Parigi e altrove. E per una decina di volte i medici gli avevano dato poche settimane di vita. Ma invariabilmente Malate si riprendeva, tornava a galla, ed era sempre lì, con quell'idea fissa di essere presente al funerale del suo ex compagno di studi. Tempo addietro qualcuno aveva detto di lui: «È un cretino innocuo». L'autore della battuta - poco importa chi fosse - era rimasto sorpreso della reazione del presidente, che aveva perso di colpo tutta la sua cordialità per replicare in tono brusco, come punto sul vivo: «Non esistono cretini innocui» E dopo una pausa, come se prima avesse esitato a formulare sino in fondo il suo pensiero, aveva aggiunto: «Non esistono i cretini». Non aveva fornito altre spiegazioni. Gli risultava difficile chiarire che cosa intendesse. Sospettava, sotto una certa forma di stupidità, un machiavellismo che gli faceva paura. E si rifiutava di credere che potesse essere inconsapevole. Con quale diritto Xavier Malate aveva fatto irruzione nella sua vita e continuava a imporsi con accanimento? In base a quale istinto, a quale meccanismo di pensiero escogitava ogni volta nuove astuzie per attirare al telefono il vecchio compagno di scuola e ripetergli con voce stridula il suo perfido messaggio? Il presidente conosceva l'ospedale di Évreux, in rue Saint-Louis, da cui era partita la telefonata. Era dietro l'angolo dello stabile che un tempo ospitava la tipografia del padre di Malate. Lui e Xavier avevano frequentato il liceo insieme, nella stessa classe, e tutto doveva essere iniziato al primo anno, vale a dire quando erano entrambi poco più che tredicenni. In seguito Malate aveva sostenuto che l'idea era stata del futuro ministro e capo di governo. Il che era possibile, ma non probabile, anche perché il presidente non ricordava affatto di aver preso un'iniziativa che mal si addiceva al suo carattere. Ciò non toglie che partecipò alla congiura. All'epoca avevano un professore d'inglese di cui il presidente — sebbene per quattro anni egli avesse svolto un ruolo importante nella sua vita — non ricordava più il cognome, così come non ricordava quelli di molti compagni di classe. Aveva invece conservato un'immagine nitida dell'insegnante: basso, malvestito, sempre con la stessa giacca nera lisa e troppo larga, i capelli grigi e in disordine che fuoriuscivano dalla bombetta. Faceva pensare a un prete, tanto più che era celibe e che di solito leggeva, a mo' di breviario, un libro di Shakespeare con la copertina nera. A loro appariva vecchissimo, anche se in realtà doveva avere tra i cinquantacinque e i sessant'anni. La madre era ancora viva, e il professore andava a trovarla a Rouen dal sabato sera al lunedì mattina. Anche lui veniva considerato un cretino, perché faceva lezione quasi senza tener conto dei suoi allievi, nei confronti dei quali sembrava nutrire uno sdegnoso disprezzo, finanche una certa repulsione. Quando un ragazzo disturbava, si limitava a infliggergli come punizione duecento righe da ricopiare. Chi fosse davvero e che cosa pensasse, era troppo tardi per saperlo. Lo scherzo richiese una lunga preparazione, perché la sua riuscita dipendeva da una serie di minuziosi accorgimenti. Con l'aiuto di un anziano operaio del padre, Xavier Malate si occupò della parte più difficile, che consisteva nel comporre e stampare una cinquantina di partecipazioni funebri, listate a lutto, con il nome dell'insegnante. Le imbucarono un sabato sera, affinché fossero consegnate l'indomani mattina - all'epoca, infatti, la posta veniva distribuita anche di domenica. Si erano accertati che il professore d'inglese avesse preso il treno per Rouen, da cui avrebbe fatto ritorno il lunedì mattina alle otto e sette minuti, in tempo per depositare la valigia a casa ed essere a scuola per la lezione delle nove. Abitava in una strada popolare, al primo piano, sopra una di quelle drogherie di quartiere che espongono in vetrina barattoli di dolciumi, vasetti di marmellata e qualche ortaggio, e la cui porta è collegata a un campanello dal suono familiare. La partecipazione annunciava la partenza del feretro dalla casa del defunto alle otto e mezzo, e i ragazzi erano riusciti, Dio sa come, a fare in modo che per quell'ora un carro funebre di quarta classe stazionasse davanti all'abitazione. Inoltre, i destinatari delle buste erano stati scelti con una certa astuzia: funzionari, consiglieri comunali, qualche fornitore del liceo e persino alcuni genitori di allievi delle classi inferiori, che erano stati tenuti all'oscuro di tutto. I cospiratori, avendo una lezione alle otto, non erano presenti. Che cosa accadde esattamente? Il presidente serbava un ricordo abbastanza nitido dei preparativi, ma non rammentava nulla degli eventi successivi e doveva fare affidamento su quel che gli aveva raccontato Malate anni dopo. Le lezione d'inglese, in ogni caso, non ebbe luogo, e il professore rimase assente per più di una settimana - ammalato, dissero. Il preside avviò un'inchiesta a seguito della quale risultò facile individuare in Malate il colpevole, e per diversi giorni tutti si chiesero se questi avrebbe fatto i nomi dei complici. Ma lui non parlò, diventando così una sorta di eroe. Eroe che, peraltro, a scuola nessuno rivide più: nonostante i tentativi del padre, che stampava il piccolo settimanale locale, Xavier fu espulso dall'istituto e messo in un collegio di Chartres come interno. Chissà se era vero o no che era scappato, che la polizia lo aveva ritrovato a Le Havre mentre cercava di imbarcarsi clandestinamente, e che alla fine era stato mandato come apprendista da uno zio, titolare di una ditta di importazioni a Marsiglia... Era possibile, ma del tutto privo di importanza. Per trent'anni nella mente del presidente Malate aveva smesso di esistere, e lo stesso valeva per il professore di inglese e per molti compagni di scuola. L'aveva rivisto negli uffici di boulevard Saint-Germain all'epoca del suo primo incarico, allorché, a quarantadue anni era stato nominato ministro dei Lavori Pubblici. Per otto giorni, invariabilmente, verso le dieci di mattina, l'usciere gli aveva portato un biglietto con il nome di Xavier Malate e, sottolineate due volte nello spazio riservato al motivo della visita, le parole: «Strettamente personale». La sua memoria associava in maniera vaga quel nome a un viso, a dei capelli troppo lunghi e a delle gambe magre, ma niente di più. Per sette volte aveva risposto all'usciere: «Dica che sono in riunione». All'ottavo giorno aveva ceduto. La sua esperienza di politico gli aveva insegnato che il solo modo per sbarazzarsi di una certa categoria di importuni è quello di riceverli. Ricordava un'anziana signora, sempre vestita a lutto, con un cane asmatico in braccio, che per due anni, giorno dopo giorno, aveva passato in rassegna tutte le anticamere ufficiali per far ottenere al fratello gli allori accademici. Malate era entrato nel suo ufficio con atteggiamento solenne. L'esile ragazzo dalle ginocchia ossute era diventato un uomo alto e robusto, con gli occhi sporgenti e il colorito roseo e malsano di chi beve troppo. Del tutto a proprio agio, gli aveva teso la mano come se si fossero lasciati il giorno prima. | << | < | > | >> |Pagina 79Per adempiere alle mansioni di cameriere personale Émile indossava mattina e sera una giacca di tela bianca, e forse era proprio il candore della divisa a far risaltare i suoi capelli neri e il viso asimmetrico, dai tratti spigolosi, che avevano indotto qualcuno a commentare:«Con quella faccia, il suo domestico sembra più che altro un brigante...». Émile era nato a Ingrannes, nel cuore della foresta di Orléans, da una famiglia di guardacaccia che si tramandavano il mestiere di padre in figlio sin dalla notte dei tempi; lui e i fratelli, perciò, erano cresciuti insieme ai cani. Più che a un guardacaccia, però, l'autista faceva pensare a un bracconiere. Nonostante la pelle coriacea e i muscoli nodosi, si muoveva per casa spostando ancora meno aria dell'eterea Milleran, e nei suoi occhi, beffardi e ingenui al tempo stesso, balenava talvolta un lampo inquietante. Il presidente l'aveva ereditato quando rivestiva la carica di ministro degli Esteri. All'epoca Émile, fresco di leva, era un autista del Quai d'Orsay, dov'era entrato grazie alla raccomandazione di qualche pezzo grosso, e stonava talmente in mezzo ai suoi impeccabili colleghi che il presidente si era divertito a osservarlo. Addomesticarlo non era stato semplice, perché si irrigidiva subito assumendo un'espressione vacua e irritante. Quel governo era durato tre anni; quando era caduto, Émile, esitante, giocherellando impacciato con il berretto, aveva mormorato a capo chino: «Non è che, per caso, potrei venire con lei?». Era stato con lui per ventidue anni, gironzolandogli intorno come fa il cane con il padrone, e non aveva mai parlato di sposarsi. Forse non ne sentiva il bisogno, ma non appena una qualsiasi ragazza – magra o grassa, giovane o meno giovane – entrava nel suo territorio, le saltava addosso al pari di un gallo o di un coniglio, senza pensarci su e senza darvi peso, quasi fosse una delle sue mansioni. Il presidente si era spesso divertito a osservare quelle manovre, perché gli sembrava che le donne risvegliassero nell'autista l'istinto del bracconiere. Quando si avvicinava una nuova preda, Émile pareva quasi non notarla, ma i suoi occhi, piccoli e neri, diventavano più fissi, i gesti più lenti, più silenziosi del solito. Dava allora l'impressione di mimetizzarsi, come il bracconiere nella foresta diventa albero o roccia, aspettando paziente il momento propizio — un'ora, un giorno o una settimana. Quindi – e il suo istinto non lo tradiva mai – passava all'attacco. Di certo la Marie era finita a letto con lui dopo neanche una settimana, forse già dalla prima notte, e il presidente non si sarebbe sorpreso di scoprire che di tanto in tanto la stessa Milleran riceveva, passiva ma consenziente, le amorevoli attenzioni dell'unico maschio attivo della casa. Una volta, a Parigi, il presidente aveva quasi assistito a una di queste mute conquiste, retaggio di un mondo primordiale, di cui conservavano una certa rozza poesia. All'epoca ricopriva la carica di guardasigilli e al ministero della Giustizia era in corso un parziale rinnovo del personale; una mattina, in occasione di un pranzo importante, era arrivata dalla campagna una cameriera giovane e fresca, ancora «di primo pelo». Negli ampi locali del ministero i preparativi erano febbrili e regnava il disordine. Verso le nove del mattino il guardasigilli era stato per puro caso testimone dell'incontro di Émile con la nuova domestica in una delle stanze dove erano in corso le pulizie. Aveva avvertito scattare qualcosa. Se è vero, come alcuni affermano, che gli uccelli captano le onde emesse dai loro simili, Émile doveva possedere la stessa facoltà, perché, già solo vedendo la ragazza da dietro, si era immobilizzato come un cane da punta e le sue pupille scure si erano rimpicciolite. In tarda mattinata, mentre usciva dall'appartamento dove si era recato per indossare la giacca del tight, il presidente aveva scorto nel corridoio Émile, acceso in volto e con l'aria soddisfatta, che si ricomponeva dopo essersi chiuso alle spalle con cautela la porta della stireria. Gli sguardi dei due uomini si erano incrociati, ed Émile aveva ammiccato leggermente, come a dire: «Fatto!». Quasi avesse catturato una preda dopo aver teso la trappola. Certe ragazze continuavano ad assillarlo, sostenendo di essere rimaste incinte. A volte intervenivano anche i loro padri, e alcuni si rivolgevano al presidente, che ricordava ancora una frase ricorrente: «... e conto su di lei, signor ministro, perché obblighi quel mascalzone a riparare il misfatto sposando mia figlia...». Al che Émile rispondeva, senza scomporsi: «Se uno dovesse sposare tutte le donne che si porta a letto...». | << | < | > | >> |Pagina 139Questa volta si era proprio addormentato, perché non sentì entrare la signora Blanche, chiamata da Milleran, né si rese conto che l'infermiera, in piedi accanto alla poltrona, gli controllava le pulsazioni con tocco leggero tenendo d'occhio l'orologio. Quindi, sempre a sua insaputa, la donna telefonò al dottore, abbassando la voce, mentre la segretaria, seduta su una sedia di fronte a lui, lo fissava con espressione triste e preoccupata. Poi le due donne si scambiarono un cenno e bisbigliarono tra loro. Milleran cedette il posto alla signora Blanche e andò nel suo ufficio. Dopo una mezz'ora trascorsa così, il silenzio scandito dal ticchettio della sveglia fu interrotto dal rombo di un motore che si avvicinava; quando l'auto si fermò davanti alla casa, giunse la voce di Émile, anch'essa ovattata, che parlava con qualcuno. Era come se attorno al presidente si stesse svolgendo una specie di balletto improvvisato: la signora Blanche lasciò a sua volta il posto al dottor Gaffé, il quale, dopo aver controllato di nuovo il polso del paziente, si piazzò sulla sedia, dritto e compassato come in una sala d'attesa. A un certo punto entrò anche Émile per attizzare il fuoco, ma di tutto quest'andirivieni furtivo il presidente non si accorse affatto. Eppure avrebbe potuto giurare di non aver mai perso la consapevolezza di trovarsi nella sua poltrona, assopito, con la bocca socchiusa e il respiro pesante. C'era stata davvero una dissociazione passeggera tra la sua mente e il suo corpo, con quest'ultimo che rimaneva inerte, mentre l'altra, ancora agile, descriveva cerchi - al pari di un uccello - in mondi talvolta sconosciuti, talvolta non troppo lontani dalla realtà? Come poteva sapere, per esempio, che quando lo sforzo si faceva troppo estenuante aggrottava le folte sopracciglia e a volte emetteva anche un gemito d'impotenza? In seguito qualcuno gliel'avrebbe raccontato. E con questo? Dal canto suo, era convinto di essere ormai uscito da se stesso quanto bastava per vedere dall'esterno quella carcassa pressoché inerte che iniziava a diventargli estranea e che gli ispirava più disgusto che pietà. Aveva incontrato parecchie facce, nel corso di quelle due ore, e ne aveva inseguite alcune che non riconosceva, domandandosi perché mai venissero al suo capezzale. Altri visi, invece, gli risultavano familiari, ma non riusciva lo stesso a spiegarsi la loro presenza - era il caso, per esempio, del capostazione di un paesino del Sud, dove aveva più volte trascorso brevi vacanze. Perché era lì adesso? Il vecchio non ignorava che il capostazione era morto da tempo. E la ragazzina venuta a offrirgli un mazzo di fiori, con un grosso fiocco tricolore fra i riccioli accuratamente pettinati per l'occasione? Significava che era morta pure lei? Si era arrovellato soprattutto su questo, mentre Gaffé aspettava, guardandolo, senza osare accendersi una sigaretta. Tentava di distinguere, fra tanta gente, i vivi da quelli che appartenevano già all'altro mondo; e stava scoprendo che il confine tra la vita e la morte è difficile da stabilire, o forse non esiste. Stava qui il grande segreto? Sapeva che, durante quelle due ore di vita intensa nonostante l'inerzia del suo corpo, era stato almeno dieci volte sul punto di risolvere tutti i problemi. A rendergli arduo, frustrante, il compito c'era l'impossibilità di mantenersi a lungo sullo stesso piano. La sua mente mancava forse di agilità o di equilibrio? Oppure era una questione di pesantezza? O di abitudine? Saliva e scendeva, ora gradualmente, ora a balzi, ritrovandosi in mondi diversi, alcuni abbastanza simili alla cosiddetta realtà, e dunque piuttosto familiari, altri così lontani e così diversi che non riusciva a riconoscere niente e nessuno. Aveva rivisto Marthe de Créveaux, che però non somigliava alla donna che aveva conosciuto lui: non solo pesava quanto una bambina - come avevano scritto i giornali quand'era morta -, ma ne aveva anche l'aspetto, l'innocenza. Ed era completamente nuda. Allo stesso tempo si rimproverava di pensare a lei al solo fine di discolparsi, non tanto per la storia del sarto quanto per la Legion d'onore. Non era vero, infatti, che lui non aveva mai fatto favoritismi. Aveva creato quella leggenda, al pari di altre - la leggenda di un politico incorruttibile, intransigente, che compiva il proprio dovere senza lasciarsi condizionare da nulla. Eppure aveva conferito la Legion d'onore a uno dei beniamini di Marthe, una specie di signorotto di provincia il cui unico titolo meritevole di una onorificenza consisteva nel possedere una tenuta dove organizzava battute di caccia. Qualche giorno dopo il presidente aveva accolto con tutti gli onori un sovrano africano che, per sordidi motivi, bisognava trattare con riguardo, sebbene meritasse più che altro la galera. Non aveva mai chiesto scusa a nessuno, e non avrebbe certo iniziato alla sua età. Chi poteva permettersi di giudicarlo, se non lui stesso? Smaniava nella poltrona. La maggior parte dei visi che gli sfilavano davanti aveva lo sguardo inespressivo - come la folla, per strada, lancia una fuggevole occhiata a chi ha subìto un incidente e poi tira dritto -, e lui si sforzava di fermare qualcuno al passaggio per chiedere se quella a cui stava assistendo era una processione di morti. In tal caso anche lui doveva essere morto. Non del tutto, però, dal momento che quelle persone si rifiutavano di trattarlo come uno di loro. Perché, dunque, svolazzava a zigzag con la goffaggine di un uccello notturno? D'accordo! Se lo trattavano con freddezza per via di Chalamont, avrebbe lasciato in pace Chalamont! Aveva capito. Era da parecchio, ormai, che aveva capito - forse già dai tempi dell'Hòtel Matignon -, ma allora non aveva voluto raddolcirsi perché riteneva di non averne il diritto.
Non si era raddolcito nemmeno nei confronti di
se stesso. Perché mai avrebbe dovuto farlo con il suo collaboratore?
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