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| << | < | > | >> |Pagina 9Ormai la gente non aveva neanche più la forza di lamentarsi e di notare che quella era la domenica prima di Pasqua. A che cosa sarebbe servito? Andava avanti così da mesi! E da mesi i giornali parlavano di inondazioni, smottamenti e frane! Meglio alzare le spalle e starsene zitti, come Pastore, il vicesindaco, che — piazzatosi davanti alla porta con le mani in tasca e la schiena curva — guardava dritto davanti a sé. Erano soltanto le dieci del mattino. A quell'ora, il vicesindaco non si era ancora vestito di tutto punto. Era sceso così come stava, infilandosi sopra la camicia da notte un vecchio paio di pantaloni e una giacca, e con i piedi nudi nelle pantofole gialle di capretto. Dietro il banco, Lili lavava i bicchieri e li riponeva sulla mensola, mentre Tony, il pescatore, semisdraiato sulla panca in similpelle, ne seguiva i gesti con lo sguardo senza nemmeno rendersene conto. A ogni raffica di vento l'insegna ritagliata nel metallo dondolava con un cigolio e l'acqua inondava la zuppa di pesce dipinta a colori vivaci che sovrastava la scritta «Da Polyte». Polyte, naturalmente, era arrabbiatissimo! Neanche lui si era ancora vestito, e neppure lavato. Con gesti bruschi ricaricò la grossa stufa che avrebbe dovuto essere spenta già da due mesi. Quindi andò in cucina, un gradino più in basso, e si mise a spostare secchi e tegami. «Non è oggi che benedicono i ramoscelli d'ulivo?» chiese il vicesindaco quando presero a suonare le campane della chiesa di Golfe-Juan. Stava giustappunto passando una vecchia vestita di nero da capo a piedi, china sotto l'ombrello, con un messale in mano. «Non è il giorno dei ceri, piuttosto?» sospirò Tony senza muoversi. «Quali ceri?». «Quand'ero chierichetto...». «Non mi dirai che sei stato chierichetto, tu!». «Cosa c'è di strano? Ora che ci penso, mi viene in mente un grosso cero in cui il parroco piantava dei chiodi...». «Te lo sarai sognato!» borbottò il vicesindaco, che nella sua memoria non trovava niente del genere. Davanti a lui, nel porto di Golfe-Juan, le barchette danzavano, tutte ormeggiate a pochi metri dal molo, con la prua al vento. Soltanto molto più in là, dove non era più riparato da Cap d'Antibes, il mare era così agitato che sembrava emanare fumo. «Io invece il cero me lo ricordo...» intervenne Lili, a cui nessuno pensava più. Il vicesindaco ne approfittò per fare una battutaccia e poi aprì un poco la porta vetrata. In un attimo la pioggia, che crepitava sull'angusto marciapiede, arrivò con qualche schizzo fino a metà del locale. «La porta!» strillò Polyte dalla cucina. «Zitto tu!» ribatté il vicesindaco; ma subito la richiuse. Di tanto in tanto passava una macchina, bardata con baffi di melma, che arrivava da Cannes e proseguiva verso Juan-les-Pins. A un certo punto si fermò una grossa auto blu, una limousine guidata da un autista in divisa. Ne uscì un uomo con indosso dei calzoni bianchi e una cerata nera, e in testa un berretto da marinaio; porse distrattamente la mano all'autista e, stringendosi nelle spalle, si precipitò verso il bistrot. Scostandosi per lasciarlo passare, il vicesindaco mormorò: «Salve, Vladimir!». L'auto fece dietrofront e ripartì verso Cannes. Vladimir scrollò la cerata nera e si avvicinò al banco cupo, imbronciato, indeciso. Tutte le mattine era la stessa storia: si metteva lì a guardare le bottiglie con aria disgustata. A quell'ora aveva il viso gonfio e le palpebre arrossate. Lili, con in mano un bicchiere e un canovaccio, aspettava sorridendo. «Un whisky?». «No...». Anche Tony, stravaccato sulla panca, guardava Vladimir. Ora il vicesindaco dava le spalle alla porta vetrata. «Ma sì!... Vada per un whisky!» disse alla fine Vladimir. Si accese una sigaretta e fissò Tony senza provare il bisogno di salutarlo. Che senso ha, quando ci si vede tutto il giorno? Poi diede un'occhiata fuori, allo yacht che si profilava in fondo al molo. «Blinis è uscito?». «Non si è visto...». Vladimir entrò in cucina, dove Polyte stava mettendo sul fuoco una pentola di patate. Aprì un armadio, prese il vasetto di acciughe sotto sale e ne tirò fuori un paio con le dita. «Fatto tardi stanotte?» chiese Polyte. «Le quattro... Le cinque... Non ricordo...». «Avevate ospiti?». «Amici di Marsiglia che ripartono stasera». Andò a piazzarsi di nuovo davanti al banco, e lì si mise a mangiucchiare le acciughe ancora coperte di sale, bevendoci sopra qualche sorso di whisky. Poi si girò verso il panfilo bianco e sospirò. Sospirò anche il vicesindaco, sconsolato per il tempo. «È ora che vada a vestirmi» proclamò. Era la terza volta che lo diceva, ma non trovava la forza di uscire dal locale ed entrare nella casa accanto. Tony, che non si era mosso da dov'era, esclamò: «Eccolo là Blinis!...». Laggiù, in fondo al molo, dallo yacht era appena sceso un uomo vestito come Vladimir: calzoni di tela bianca, cerata nera e berretto con uno stemma dorato. In mano teneva una rete per la spesa e camminava di fretta, con il mento chino nel bavero rialzato. Fece una deviazione per lanciare uno sguardo dentro il locale, vide Vladimir e proseguì verso il mercato. «Non c'è pericolo che si annoi, quello, con la ragazza!» osservò il vicesindaco.
Vladimir non rispose. Senza curarsi di pagare, si
gettò la cerata sulle spalle e si diresse verso l'
Elektra.
Da Polyte nessuno aveva notato nulla: avevano creduto che, il suo, fosse il broncio di tutte le mattine. Era capitano dell' Elektra da anni, e ormai si erano abituati a lui. Nonostante il suo rifiuto iniziale, Lili non aveva esitato a servirgli un whisky. Anche in quel momento, erano tutti convinti che non sarebbe rimasto molto a bordo: presto sarebbe tornato a bere un altro whisky, e soltanto allora il suo malumore mattutino sarebbe svanito. In realtà, nessuno di loro sapeva nulla. Avevano ripreso a contemplare malinconicamente la pioggia, e ora seguivano con lo sguardo la figura di Vladimir che si avvicinava al panfilo, si stagliava sulla passerella e infine scompariva attraverso il boccaporto anteriore. «Quello sì che ha trovato la gallina dalle uova d'oro...» sospirò Tony, il pescatore. «Ci sono giorni in cui non vorrei essere al posto suo» obiettò il vicesindaco, che si chiedeva se non fosse arrivato il momento di andare a vestirsi. Lili, che aveva finito di asciugare i bicchieri, stava passando uno straccio sul ripiano dei tavoli, su cui si era condensata l'umidità. Il locale non era né un bar di pescatori né un ristorante per turisti, ma una via di mezzo. Polyte aveva tenuto il banco che c'era prima, un bancone di ottone, i fusti per la birra alla spina e, in un angolo, la macchinetta mangiasoldi. Il pavimento era ancora quello di piastrelle rosse in stile provenzale, ma i tavoli erano dei bei tavoli rustici di rovere scuro, le sedie avevano un'impagliatura robusta e i vetri erano ornati da tendine a quadretti. «Lili!» urlò Polyte. «Vammi a prendere due etti e mezzo di lardo...». «Posso mettermi la sua cerata?» chiese a Tony la ragazza.
Poi corse verso le botteghe raggruppate attorno
alla chiesa e al cinema. Vide Blinis, intento a tastare
le zucchine una dopo l'altra come una brava casalinga, e gli gridò da lontano:
«Salve, Blinis!».
Ancora vento, e nuvole grigie che correvano sullo sfondo uniforme di altre nubi imperturbabili. Nella cabina dell' Elektra riservata all'equipaggio, Vladimir se ne stava in piedi, immobile come un cardiopatico quando avverte lo spasmo che annuncia l'attacco. A destra la cuccetta di Blinis, a sinistra la sua. In realtà, c'erano due lettini a castello su entrambi i lati, ma le cuccette superiori servivano per riporre i loro effetti personali. In quella di Vladimir, il caos: biancheria, vestiti gettati alla rinfusa e qualche bottiglia di Vittel. In quella di Blinis, un ordine da soldato modello: coperte ripiegate con cura, biancheria disposta in pile, qualche gingillo, dei souvenir, una veduta panoramica di Batumi, sul Caucaso, incorniciata con un nastro azzurro... Vladimir teneva la mano destra in tasca. La sua figura dondolava un po' per via delle onde che cullavano la nave. Sopra di lui il boccaporto aperto lasciava entrare la pioggia, che formava sul pavimento un riquadro bagnato. D'improvviso trasse un sospiro, balbettò una parola in russo e tese la mano verso un cofanetto pirografato che si trovava dalla parte di Blinis. Era uno di quei cofanetti in cui le ragazze conservano prima i ricordi più cari e, in seguito, le lettere d'amore. Dentro c'erano fotografie, spiccioli, cartoline, un'accozzaglia di cianfrusaglie senza valore, che Vladimir scostò con la mano. Per un attimo qualcosa scintillò nella cabina, nonostante la luce lì scarseggiasse: un diamante, grosso come una nocciola, incastonato in un anello. Ci fu un rumore sul ponte, e con un gesto repentino Vladimir rimise a posto il cofanetto. Ebbe appena il tempo di chinarsi verso la sua cuccetta e già una figura si profilava sopra di lui, vicino al boccaporto aperto. «Era qui!» disse una voce. «Sì, signorina...». Diventò paonazzo. Non sapendo più che cosa fare, afferrò a caso dei vestiti. Poi salì la scaletta di ferro e si trovò a sua volta sul ponte. La ragazza non si curava già più di lui. Adesso stava a prua, anche lei con indosso una cerata, le mani in tasca. Non sembrava accorgersi della pioggia che cadeva sui suoi capelli scuri. Aveva un volto dai tratti decisi, grave e sereno. Guardava scendere la pioggia, come il vicesindaco dietro il vetro del bistrot di Polyte, come dovevano fare tanti altri, chiusi in casa, a quella stessa ora. «Signorina Hélène...». Si girò appena verso Vladimir, sempre con il suo sguardo impenetrabile. «Sua madre mi ha incaricato di dirle...». In fondo al molo comparve Blinis, con la rete per la spesa da cui spuntava qualcosa di verde. «... che vorrebbe averla a pranzo ai Mimosas... Le manderà l'auto a mezzogiorno...». «Nient'altro?». Vladimir si rimise il berretto e si incamminò lungo la passerella. Incrociò Blinis a metà del molo ed entrambi si fermarono. «Torni là?» chiese Blinis in russo. «Non lo so». «La padrona verrà?». «Forse». Erano già lontani uno dall'altro quando Blinis si girò per urlare, sempre in russo: «Se la vedi, domandale un po' di soldi. Non ne ho più».
Vladimir borbottò qualcosa e proseguì per la sua
strada. Aprì la porta di Polyte e si sedette sulla panca,
vicino alla finestra, da cui scostò la tenda. Il vicesindaco non aveva ancora
trovato la forza di andare a radersi.
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