Copertina
Autore Paullina Simons
Titolo Il giardino d'estate
EdizioneSonzogno, Milano, 2007, I romanzi , pag. 666, cop.ril.sov., dim. 14x22,4x4,4 cm , Isbn 978-88-454-1415-2
OriginaleThe Summer Garden [2005]
TraduttoreRoberta Zuppet
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe narrativa russa , narrativa statunitense
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Pagina 11

1
Deer Isle, 1946


Il carapace
Carapace (sostantivo maschile): scudo o guscio
duro e spesso, fatto di osso o chitina, che copre
parte del corpo di un animale come l'aragosta.



C'era una volta, a Stonington, nel Maine, prima del tramonto – al termine di una guerra calda e all'inizio di una fredda – una giovane donna vestita di bianco, in apparenza calma ma con le mani tremanti, seduta su una panchina vicino al porto, intenta a mangiare un gelato.

Lì accanto un bambino, anche lui intento a mangiare un cono, il suo al cioccolato. I due chiacchieravano con noncuranza; il gelato si scioglieva più rapidamente di quanto la madre riuscisse a leccarlo. Il piccino la ascoltava cantare una vecchia canzone russa mentre cercava di insegnargli le parole, e la prendeva in giro storpiando i versi. Aspettavano entrambi che le barche delle aragoste tornassero. Di solito, prima di avvistare le imbarcazioni, la donna udiva i gabbiani che bisticciavano.

Soffiava una lievissima brezza; i capelli schiariti dal sole le si agitavano leggermente davanti al viso. Alcuni ciuffi le erano sfuggiti dalla treccia lunga e spessa, e le svolazzavano sopra la spalla. Era bionda, bella, con la pelle traslucida, gli occhi traslucidi e le lentiggini. Il bambino abbronzato aveva i capelli neri, gli occhi scuri, le gambette paffute.

Sembrava che madre e figlio stessero seduti lì senza scopo; la loro però era una finta tranquillità. La donna scrutava con decisione le barche sull'orizzonte azzurro. Lanciava occhiate al piccolo e al gelato, e fissava la baia come se ne fosse nauseata.

Tatiana vuole immergersi in se stessa, perché vuole credere che non vi sia nessun ieri, ma solo il momento in cui sta vivendo adesso, su Deer Isle, una delle lunghe isole con le scogliere a strapiombo poco distante dalla costa del Maine, collegata al continente da un traghetto e da un ponte sospeso di trenta chilometri; e proprio passando sul ponte sono arrivati lì con il camper, il loro Schult Nomad Deluxe di seconda mano. Hanno attraversato Penobscot Bay, sopra l'Atlantico e verso sud, fino al bordo estremo del mondo, fino a Stonington, una candida cittadina annidata nell'insenatura formata dalle colline coperte di querce. Tatiana, tentando con tutte le forze di vivere soltanto nel presente, pensa che non vi sia nulla di più bello o pacifico di quelle case di legno bianco incassate nei pendii di anguste strade sterrate, affacciate sulla distesa d'acqua increspata che lei guarda giorno dopo giorno. Quella sì che è pace. Quello è il presente. Quasi come se non esistesse nient'altro.

Di tanto in tanto, tuttavia, mentre i gabbiani volano e gridano, c'è qualcosa che si intromette, anche a Deer Isle.

Quel pomeriggio, dopo che Tatiana e Anthony erano usciti per andare alla baia, avevano udito delle urla a casa dei vicini.

Lì accanto vivevano due donne, madre e figlia. La prima aveva quarant'anni, la seconda venti.

"Litigano ancora", aveva detto Anthony. "Tu e papà non litigate."

Litigare.

Magari!

Alexander non alzava la voce neanche di un semitono con lei. Se le parlava, non andava mai oltre il timbro smorzato di un pozzo profondo, come se imitasse l'amabile e cordiale dottor Edward Ludlow, che si era innamorato di lei a New York. Il serio, affidabile, professionale Edward. Anche Alexander cercava di acquisire modi rassicuranti.

Litigare avrebbe richiesto una partecipazione attiva verso un altro essere umano. Nella casa accanto, madre e figlia inveivano l'una contro l'altra, per qualche motivo, soprattutto a quell'ora del pomeriggio; le si sentiva sbraitare dalle finestre aperte. La buona notizia: il loro marito e padre, un colonnello, era appena tornato dalla guerra. La cattiva notizia: il loro marito e padre, un colonnello, era appena tornato dalla guerra. Lo aspettavano da quando era partito per l'Inghilterra nel 1942, e ora era di nuovo a casa.

Nemmeno lui partecipava alle liti. Quando Anthony e Tatiana erano usciti per strada, l'avevano visto parcheggiato sulla sedia a rotelle nel cortile infestato dalle erbacce, immobile come un cespuglio sotto il sole del Maine mentre moglie e figlia strillavano all'interno. Avvicinandosi, Tatiana e Anthony avevano rallentato.

"Mamma, cos'ha?" aveva sussurrato il piccolo.

"È rimasto ferito in guerra." L'uomo non aveva braccia né gambe, era solo un tronco dotato di testa e moncherini.

"Riesce a parlare?" Ormai i due erano davanti al cancello.

All'improvviso lo sconosciuto aveva risposto con voce forte e chiara, una voce abituata a dare ordini: "Riesce a parlare, ma preferisce non farlo".

Anthony e Tatiana si erano fermati, osservandolo per qualche istante. Lei aveva tolto il chiavistello, ed erano entrati nel cortile. L'uomo pendeva verso sinistra come un sacco troppo pesante da una parte. I moncherini arrotondati gli scendevano fino al gomito inesistente. Le gambe non c'erano proprio.

"Su, lasci che la aiuti." Tatiana l'aveva raddrizzato, sistemando i cuscini che lo sostenevano sotto le costole. "Va meglio?"

"Oh", aveva sospirato lui. "Un modo vale l'altro." I suoi piccoli occhi azzurri l'avevano fissata. "Sa cosa vorrei?"

"Cosa?"

"Una sigaretta. Non fumo più; come vede, non posso portarmele alla bocca. E quelle due", aveva accennato alla casa con il capo, "preferirebbero crepare che darmene una."

Tatiana aveva annuito. "Ho proprio quello che fa per lei. Torno subito."

L'uomo aveva girato la testa verso la baia. "Non lo farà."

"Sì, invece. Anthony", aveva aggiunto Tatiana, "siediti in braccio a questo signore gentile finché la mamma torna. Ci vorrà solo un minuto"

Anthony aveva accettato con piacere. Sollevandolo, Tatiana l'aveva posato sul grembo del vicino. "Puoi aggrapparti al collo."

Dopo che era corsa a prendere le sigarette, il bambino gli aveva chiesto: "Come ti chiami?"

"Colonnello Nicholas Moore", aveva risposto l'altro. "Ma puoi chiamarmi Nick."

"Sei stato in guerra?"

"Sì. Sono stato in guerra."

"Anche il mio papà", aveva replicato Anthony.

"Oh!" Nicholas aveva tirato un sospiro. "È tornato?"

"Sì."

Tatiana era ricomparsa e, dopo aver acceso una sigaretta, l'aveva accostata alle labbra dell'invalido. Nick fumava a boccate intense e profonde, come se aspirasse il fumo non solo nei polmoni, ma in tutto il suo essere. Anthony era rimasto accoccolato, guardandolo in faccia mentre inspirava con sollievo ed espirava con dispiacere, quasi non volesse lasciar andare la nicotina. Il colonnello fumò due sigarette di fila con Tatiana china su di lui, che gliele portava alla bocca.

"Il mio papà era maggiore, ma adesso è un pescatore di aragoste", aveva spiegato Anthony.

"Capitano, figliolo", l'aveva corretto la madre. "Capitano."

"Il mio papà era maggiore e capitano", aveva ripreso Anthony. "Compreremo un gelato mentre aspettiamo che torni dal mare. Vuoi che ne portiamo uno anche a te?"

"No", aveva rifiutato Nick, piegando leggermente la testa fra i capelli neri del bambino. "E questi sono stati i quindici minuti più felici che abbia vissuto nell'ultimo anno e mezzo."

In quel momento, sua moglie era corsa fuori dalla casa. "Cosa sta facendo a mio marito?" aveva urlato.

Tatiana aveva raccolto Anthony dal grembo di Nick. "Tornerò domani", si era affrettata a promettere.

"Non tornerà", aveva ribattuto Nicholas, seguendola con lo sguardo.

Ora madre e figlio sedevano sulla panchina, impegnati a mangiare il gelato.

Di lì a poco si udirono le strida lontane dei gabbiani.

"Ecco papà", annunciò Tatiana, tesa.

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5
Bethel Island, 1948


Combattendo contro i mulini a vento



Tatiana, Alexander e Anthony dissero addio al profumo inebriante, nauseabondo e dolceamaro dell'uva matura, salirono a bordo del Nomad e partirono. Tatiana li condusse a sud e a est di Vianza affinché si smarrissero tra i piattissimi duemilaseicento chilometri quadrati dei delta della California, tra isolette così basse sul livello del mare che alcune scomparivano ogni volta che pioveva. A centosessanta chilometri dalla valle del vino, alla foce dei fiumi Sacramento e San Joaquin, trovarono la minuscola Bethel Island, e fu lì che si fermarono.

Bethel Island. Attorniata da canali fluviali, argini naturali e paludi antidiluviane. Nulla si muoveva in nessuna direzione, tranne gli aironi. I canali erano di vetro. La fredda aria novembrina era immobile come se stesse per scoppiare un temporale.

L'isola non sembrava nemmeno appartenere al medesimo Paese, ma era senza dubbio America. In Dutch Slough Road affittarono una baracca di legno con un lungo terrazzo a forma di L che si protendeva nel canale. La casa offriva quello di cui avevano bisogno: una camera tutta per loro e un bagno. Dall'altra parte del canale non vi era niente a eccezione dei campi pianeggianti e dell'orizzonte.

"Sembra l'Olanda", commentò Alexander mentre disfacevano i bagagli.

"Ti piacerebbe andare in Olanda un giorno?" gli chiese Tatiana, impegnata a riordinare.

"Non intendo lasciare l'America per nessun motivo al mondo. Come hai trovato questo posto?"

"Ho consultato una cartina."

"Così ora sei anche cartografa?" Alexander sorrise. "Ti va un bicchiere di vino, mia piccola geologa, capitalista, cartografa?" Aveva portato una cassa di spumante.

Il mattino dopo, alle otto in punto, il postino suonò la sirena della sua chiatta proprio accanto alla finestra della loro stanza. Presentandosi come signor Shpeckel, chiese loro se avrebbero ricevuto della corrispondenza. Risposero di no. Forse zia Esther avrebbe voluto spedire ad Anthony un regalo di Natale? Tatiana disse di no. L'avrebbero chiamata sotto le feste; Esther avrebbe dovuto accontentarsi.

Nonostante ciò Shpeckel continuò a passare ogni mattina alle otto, suonando la sirena proprio davanti alle loro finestre tanto per comunicare che non era arrivata corrispondenza e per salutare Alexander, che, nel suo consueto stile militare, era già alzato, lavato, pettinato, vestito, e stava seduto sul terrazzo con la canna da pesca. I canali ospitavano storioni preistorici, e lui cercava di catturarne uno.

Shpeckel aveva sessantasei anni e viveva a Bethel da venti. Conosceva tutti. Conosceva i fatti loro, sapeva cosa facevano sulla sua isola. Alcuni erano residenti fissi come lui, alcuni erano turisti, altri erano fuggiaschi.

"Come fa a distinguerli?" domandò Alexander un pomeriggio, dopo averlo invitato dentro per un drink quando l'altro ebbe finito il suo giro sull'acqua.

"Oh, si capisce sempre", rispose il postino.

"Allora in quale categoria rientriamo noi?" chiese Alexander, versandogli un bicchiere di vodka, che Shpeckel aveva ammesso di non aver mai assaggiato prima di allora.

I due brindarono e bevvero. Alexander tracannò il liquore. Shpeckel lo sorseggiò con prudenza, come una tazza di tè.

"Siete fuggiaschi", dichiarò, ingollando finalmente il liquido e restando senza fiato. "Perbacco, amico, non berrò più questa roba! Ti brucia lo stomaco. Venga alla Boathouse con noi venerdì sera: là preferiamo la buona vecchia birra."

Alexander rifiutò con educazione. "Si sbaglia sul nostro conto. Perché pensa che siamo fuggiaschi? Non è così."

Shpeckel si strinse nelle spalle. "Be', non sarebbe la prima volta che sbaglio. Per quanto tempo vi fermate?"

"Non ne ho idea. Non molto, suppongo."

"Dov'è sua moglie?"

"A fare la spesa." Tatiana era andata al negozio da sola. Ci andava sempre da sola, liquidando le sue offerte di aiuto. "Oggi non ho preso neanche uno storione."

Vi erano altri pesci in quelle acque. Persico spigola, persico trota, pesce gatto, pesce persico. Quest'ultimo era russo. È arrivato fin qui dal fiume Kama, pensò Alexander, divertito, mentre l'esemplare tremava sulla sua lenza. Tatiana non commentò l'esistenza del persico russo nelle acque americane mentre lo puliva, lo cucinava e lo serviva. E Alexander non commentò il fatto che lei fosse stata zitta.

Commentò tuttavia quel che Shpeckel gli aveva detto. "Figurati! Ci ha definiti fuggiaschi... Eppure siamo le persone insieme più radicate e sradicate che io conosca. Gironzoliamo, troviamo un posto, poi non ci muoviamo da lì."

"Ha preso un bell'abbaglio", convenne Tatiana.

"Hai comprato il giornale?"

Lei affermò di essersene dimenticata. "Ma Jan Masaryk, il ministro degli Esteri cecoslovacco, è appena morto a causa di una 'caduta' dalla finestra del suo ufficio dopo il colpo di Stato comunista a Praga." Sospirò.

"Ora la mia triste moglie è anche un'annunciatrice e una storica. Perché ti interessa Masaryk?"

Abbattuta, Tatiana spiegò: "Nel 1938 Jan Masaryk fu l'unico a difendere il suo Paese quando la Cecoslovacchia stava per essere servita a Hitler su un vassoio d'argento. I sovietici lo odiavano, mentre Herr Hitler godeva dell'ammirazione generale. Poi il Führer gli ha portato via la sua nazione, e ora i russi gli hanno portato via la vita." Distolse lo sguardo. "E il mondo si è capovolto."

"Non saprei", replicò Alexander. "Non abbiamo nemmeno la radio in questa casa. Ne hai rimediata una come ti avevo chiesto? Non posso continuare ad andare nel Nomad."

Si era dimenticata anche di quello.

"Mi hai comprato il Time?"

"Domani, tesoro. Oggi ti ho comprato dei bei libri americani del diciannovesimo secolo. Le ali della colomba di Henry James, le storie di fantasmi di Poe e le opere complete di Mark Twain. Se preferisci qualcosa di un po' più attuale, ecco qui l'eccellente Uomo immortale del 1923."


I Barrington superarono l'inverno come topi di fiume nel mondo perduto a valle di Suisun Bay.

Una mattina del marzo 1948 Shpeckel salutò Alexander e, dopo aver suonato la sirena, disse: "Immagino di essermi sbagliato sul conto suo e di sua moglie, capitano. Sono stupito. Poche donne riescono a condurre questa vita giorno dopo giorno".

"Be', bisogna sapere chi si è", osservò l'altro, la sigaretta in bocca e la canna da pesca in acqua. "E lei non conosce mia moglie."

E Tatiana, che udì la conversazione dalla finestra, pensò che forse nemmeno Alexander conosceva la propria moglie.


Anthony era bellissimo. Aveva capelli e occhi scurissimi, e stava crescendo. Andava sulle barche; ora sì che era temerario. A Bethel Island gli insegnarono a leggere, in inglese e in russo, a giocare a scacchi e a carte, a fare il pane. Acquistarono mazze, guanti e palle, e trascorrevano le fredde giornate all'aperto. Andavano tutti e tre in un campo vicino con i giubbotti pesanti – la temperatura non superava i cinque gradi – e tiravano il pallone da calcio, lanciavano quello da football e colpivano la palla da baseball.

Anthony imparò a cantare, in inglese e in russo. I genitori gli comprarono una chitarra e alcuni spartiti, e nei lunghi pomeriggi invernali gli insegnarono note, accordi, canzoni, e gli spiegarono come leggere la chiave di basso e quella di violino, i toni e i semitoni. Era così bravo che ben presto fu lui a fare da maestro a loro.

Un pomeriggio Tatiana guardò con orrore suo figlio che sostituiva il caricatore della Colt M1911 del padre in sei secondi.

"Alexander! Sei impazzito?"

"Tania, tra poco compirà cinque anni."

"Cinque, non venticinque!"

"L'hai visto?" Alexander era raggiante. "Hai visto com'è bravo?"

"Altroché! Ma non vorrai insegnargli anche questo."

"Gli insegno quello che so."

"Non intendi insegnargli tutto quello che sai, vero?"

"Oh, santo cielo! Vieni qui."

Andarono in letargo, mangiarono bacche, dormirono, aspettando che il ghiaccio si sciogliesse. Tatiana, dentro, si sentiva morire. Nel suo terrore, sembrava paralizzata persino verso se stessa. Per il figlio, per il marito, assumeva l'espressione più coraggiosa, ma temeva che non fosse abbastanza.

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Una conversazione al battesimo



Shannon non piantò Amanda. In qualche modo risolsero i loro problemi, lei cominciò a usare la camicia da notte invece del pigiama, rimase subito incinta ed ebbe un altro bambino.

Tatiana, Alexander e Anthony furono invitati al battesimo nel giugno del 1957. Con profonda costernazione, Anthony si ritrovò ad accudire sette bimbi sotto i cinque anni. Suo padre gli consigliò una disciplina inflessibile.

Amanda domandò ad Alexander se volesse prendere in braccio la sua piccina di un mese, ma lui rifiutò con educazione.

"Non avere paura", lo incoraggiò. "Non si rompe."

Sfiorando la testa della neonata, Alexander rifiutò di nuovo.

Tatiana corse in suo aiuto, portandolo via, distraendolo con un dettaglio riguardante il buffet. Amanda non poteva sapere che il marito di Tatiana non aveva mai preso in braccio un neonato prima di allora.

Dopo cena gli adulti sedevano in sala da pranzo davanti al caffè e alla torta quando Karen, la moglie di Skip, disse: "Sapete che, a parte la nostra Tania, non conosco altre donne che lavorino fuori casa?"

Tra le invitate si levò un mormorio di approvazione. Gli uomini lanciarono un'occhiata ad Alexander, poi alle forchette. Tatiana lo fissò dall'altra parte del tavolo, e lui le gettò uno sguardo che significava: Vuoi pensarci tu?

D'accordo, Shura, ci penso io. "Be', Karen", intervenne Tatiana, posando la forchetta e giungendo le mani, "so di non essere l'unica infermiera dell'ospedale... ce ne sono altre centonovantaquattro, tutte donne. E le insegnanti di Anthony sono tutte donne. Le bibliotecarie, donne. Oh, e le signore che ti vendono i cosmetici da Macy's, donne anche quelle. Forse", aggiunse, "non conosci donne che lavorano fuori casa perché sono troppo impegnate a lavorare."

Vi furono alcune risatine, seguite da un silenzio imbarazzato. Tutti, compreso Alexander, fingevano di mangiucchiare il dolce.

"Sì, ma quante sono sposate come te?"

"Nessuna è sposata come me", rispose Tatiana, gli occhi su suo marito. "È vero, sono quasi tutte vedove o nubili. Alcune sono più vecchie, alcune più giovani. Ma, Karen, sono pur sempre tutte donne."

"Oh, lo so, lo so! Comunque non vorrei mai fare l'infermiera... Mi sembra un mestiere schifoso", commentò l'altra, disgustata. "Sei un'infermiera del pronto soccorso? Oppure della reception?"

"Sono un'infermiera della terapia intensiva, della rianimazione." Alexander non alzò gli occhi, giungendo le mani. Giusto, Shura? avrebbe voluto interpellarlo Tatiana. Ricordi, vero, quando ero un'infermiera della rianimazione e sono corsa sul ghiaccio della Neva nel bel mezzo della battaglia di Leningrado per riportare a riva il tuo corpo? E poi sono diventata la tua infermiera delle cure terminali?

"Vedrai delle cose orribili", ipotizzò Karen.

"In vita mia", ribatté Tatiana, "ho visto tante cose che avrei preferito non vedere." Abbassò lo sguardo sulle mani, sempre giunte sul tavolo.

"Quante ore lavori?"

"Cinquanta."

"Cinquanta!" Nessuno riusciva a crederci. "Immagino che non ti rimanga tempo per nient'altro", aggiunse Karen. "Chi cucina a casa tua?"

"Io."

"Chi pulisce?"

"Io."

"Chi fa il bucato?"

"Sempre io."

Le ragazze fischiarono. Sul resto della compagnia calò il silenzio.

E poi Amanda interloquì: "Sì, ma chi fa i bambini, Tania?"

Tatiana tacque, guardando Alexander, che era immobile come una statua.

Fu Anthony a comparire con un balzo e a urlare con voce rabbiosa: "Lasciate in pace mia madre! Lavora più duramente di tutti voi, in qualsiasi ambito. Mentre voi organizzate i vostri pranzetti, lei cura i malati e i moribondi. Ecco cosa fa lei mentre voi sorseggiate sorbetti sputando sentenze sul suo conto. Ecco cos'è: un'infermiera della rianimazione e una madre".

Tatiana lo indicò. "Amanda, questo è mio figlio. Te lo ricordi, vero?"

Anthony si voltò verso suo padre. "E se non fosse stata un' infermiera della Croce Rossa", proseguì, puntando il dito contro Alexander, "sai dove saresti a quest'ora."

"Anthony! Basta così." Era Tatiana.

"Non ho finito!"

Alexander si alzò e lo fissò con espressione così arcigna e severa che il ragazzo ammutolì e scappò dalla stanza. Tatiana si allontanò. I Barrington se ne andarono poco dopo.

Nel furgone riuscirono a mantenere la calma, ma a casa Anthony esplose. Avevano appena varcato la soglia ed erano ancora nello spazio aperto davanti alla cucina in cui era morto Dudley, quando, sforzandosi di tenere la voce bassa, dichiarò: "Papà, non capisco come hai potuto restartene seduto lì senza dire niente".

"Anthony!" lo ammonì Tatiana. "Vai in camera tua!"

"No!"

Alexander gli diede uno schiaffo sulla bocca con il palmo della mano. "Non alzare mai la voce con tua madre", lo rimproverò.

"Perché no? Tu lo fai!"

Mettendosi tra loro, Tatiana afferrò Alexander per gli avambracci e gli ordinò con molta pacatezza: "No. Smettila subito".

"Stai dicendo a me di smetterla subito?" sbottò lui "Ma lo hai sentito?"

E dietro di lei, Anthony riprese con rinnovato coraggio: "È tutta colpa tua, mamma. È perché tutto quello che fa ti va bene, tutto quanto! Ti grida dietro, e ti va bene. Non dice una sillaba quando la gente ti attacca, e ti va bene anche quello!"

"Anthony!" sbraitò Alexander. Tatiana gli affondò le unghie nelle braccia, sapendo che suo marito l'avrebbe allontanata solo con la violenza, e sperando che si trattenesse davanti al figlio.

Si trattenne. La tensione che lasciava piano piano il suo corpo, Alexander sollevò le braccia, la prese per le spalle, la guardò in viso e mormorò: "Parla così perché tu glielo permetti. Gli hai permesso di passarla sempre liscia. Io non intendo fare lo stesso. Ora lasciami andare".

Anthony rimase immobile, ansimante.

"Cosa diavolo ti prende?" gli domandò Alexander. "Quante volte tua madre ti deve dire di non intrometterti nei fatti nostri? Se vuoi sfidare me, bene, infuriati finché vuoi, ma come ti salta in mente di rivolgerti in quel modo a tua madre?"

Con lacrime di orgoglio che gli pizzicavano il volto, il ragazzo rispose in tono molto più calmo: "Oh, ora capisco, così è da me che dev'essere difesa mia madre!"

Questa volta Tatiana non trattenne Alexander, si girò verso Anthony. "Tuo padre ha ragione, stai davvero esagerando", lo rimproverò, spingendolo lungo il corridoio fino alla sua camera e articolando la parola: "Piantala!" prima di sbattere la porta.

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