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| << | < | > | >> |IndiceVia, via di qua 9 1. Roma palindroma 13 2. Prigioniero della scimmia 53 3. Gerontofilia 101 4. Milano Inganni 149 Ma che, davvero davvero? 197 Post scriptum 205 Addendum in extremis 211 Nota 221 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Roma, 28 settembre 2012 La scala telescopica fende l'azzurro fino al quinto piano, come un bisturi d'acciaio lucente; brillando in sincrono un aereo diretto a Fiumicino provvede alla sutura. Cielo formicolante di ruffiana trasparenza. Finalmente sono arrivati i chirurghi e della casa se ne occupano loro; la mia casa ferita e incerottata da una settimana ho le chiavi di Chiara Gamberale (che villeggia a Formentera) ma non mi sono mai deciso a trasferirmi da lei. Non potevo mollarla qui da sola questa povera tana dove ho vissuto gli anni migliori, tutto l'amore o quel che ho creduto tale, gli scossoni di felicità che ancora oggi mi fanno andare a testa alta. Guardami, Dio, non rinnego niente. Gli amici di Marcello si sono portati via il divano, i pensili della cucina, il tavolo e il frigorifero; hanno strappato le ante del lavello prima che urlando riuscissi a fermarli e non si sono scusati («mica ciavevi detto ch'ii volevi sarvà, a noi si ce dài l'ordine de levà, levamo»). Il proprietario mi tratterrà la caparra per ripagare il danno, dove c'era il mobiletto è rimasto uno scheletro bianco che fa male al cuore, buono giusto per conservarci nell'acqua rugginosa due lattine di birra e un'aranciata. Pure il pinguino De' Longhi li ho autorizzati a prendersi, e bicchieri e tazzine che forse rimpiangerò, e la centrifuga e il microonde, nella stolta recidiva illusione che un regalo debba essere almeno un po' ricompensato con un'elemosina d'affetto. Di tutt'altra classe i traslocatori professionali della ditta Pompa (ebbene sì): il caposquadra è un polacco asciutto e ironico che tratta le mie ansie come cagnolini viziati e non perde d'occhio i colli più fragili nemmeno mentre sta sullo scaleo a isolare i fili del lampadario. Vedo il mio appartamento sparire pian piano inghiottito dalla finestra e ricomparire in cortile sotto forma di scatoloni, che due abilissimi impilano nel camion in modo da non lasciare vuoti. Nessun rimpianto è più possibile, né tornare indietro: queste notti passate sul nudo materasso tra rotoli di scotch, le mattine a lavarmi e a radermi senza specchio, le vaschette unte con le melanzane della rosticceria, sono state le ultime propaggini simboliche del mio lunghissimo soggiorno romano. Per me finisce un'epoca e un dialetto, e quel che per molto tempo ho considerato un destino. Non è vero che non si possa cambiare a sessantacinque anni: se evapora l'ambizione, evaporano anche le preghiere e il loro bisogno di incarnarsi. (Ma Alfonso Berardinelli mi ha avvisato: «se rinunci all'ossessione tutt'in un colpo, morirai»). Come l'ideologia, il desiderio è frutto delle condizioni materiali; anche l'ossessione, su cui tanto ho elucubrato, era un consumo di lusso. «Ma perché, non capisco, chi te lo fa fare? Non puoi trovare un altro affitto un po' più in periferia? Te ne pentirai, la tua cervicale ti presenterà il conto, a Milano è umido e ci si rompe le palle... è un paesotto di trader piacioni, di stilisti micragnosi e di carampane in carriera.» Qualcuno sostiene che parto per dimenticare, qualcuno scommette che si tratta di rabbia, qualcuno ipotizza che io stia biecamente cercando altra materia di scrittura. (Se lo standard sono due occhi con lacrime di gratitudine mentre glí stai sopra, o sotto, la mania dei volumi perde urgenza.) Finora me la sono cavata affabulando di cicli, più o meno ventennali, che hanno segmentato la mia vita: i primi diciannove di docilità a Modena, i secondi ventuno di apprendistato a Pisa, i terzi venticinque di realizzazione a Roma; il prossimo trasloco sarà in un cappottino di cipresso ("une redingote de sapin" dicevano i lazzaroni di Hugo). Ma non è questo, non è solo questo: qui e ora, a mezzogiorno nel cortile dove stanno sprangando il portellone posteriore col letto in verticale a fare da sigillo, in fretta perché devo correre alla Taodue (dimenticavo, il bilancino da orefice mi brucia in tasca, non ci pesavo l'oro ed è meglio che lo butti nel primo cassonetto), proprio qui si coagula un'abiura o meglio una traiettoria, privata e pubblica, da leggere in filigrana. Se mi permettete di tornare indietro ai primi dell'anno scorso, proverò a decifrarla (per me e per voi). | << | < | > | >> |Pagina 26Chi sloggerà lui, questa è la domanda. La sua vita rutilante, clamorosa, "une vie bling bling" come dicono i francesi. Le quaranta magioni in giro per il mondo, i calciatori del Milan che a un suo comando si tagliano barba e capelli, i soldi del gas di Putin che fatica a ripulire, i dittatori caucasici e maghrebini che lo scelgono come testimone di nozze e gli regalano i guardaroba dei souk e dei bazar. ("Lei è nuda, lui prende in mano la croce salmodiando che Dio ti benedica... ma gli abiti non sono da suora, sono quelli di Gheddafi con le perline.") Per lui che finge di sodomizzare il proprio autista, con la mente sempre rivolta al possesso e alla vittoria, il cazzo non è che una sineddoche. Lui che dimostra nei fatti di essere più forte delle leggi e di poterne ridere, nessuno lo condannerà mai; «le sue riprovevoli notti» dice Bersani. (E i miei pomeriggi?) Impasse e paralisi delle istituzioni, il muro contro muro, la mancanza di alternativa politica; Oscar Giannino sul "Sole 24 Ore" si chiede quale possa essere la exit strategy. Tutto sembra fermo da sempre nel Paese, solo qualcuno si suicida lasciando rivoli di sangue qua e là. Tra la folla serpeggiano commenti, incerti tra libertà del cittadino e parresia degli schiavi durante i lupercali."S'el vö fà i so còmud el va ai Caraibi, che nissun al véd e al ciula quel che ghe par a lü." "Brao nano, ai Caraibi a ghé i négher, lù al veur minga fa i cunfrùnt..." "Ma baciatevi i gomiti, quello poteva promulgà 'e leggi speciali... chi je s'opponeva, er Parlamento? meno male che je piace 'a sorca..." "Depeus bocciri su proccu." "Poareto, i so' amissi io' gà portà a 'sto punto... i sè dei diavoi... vardè Dellutri ch'el sé gà inventa ea tarantè1a de Petrolio par dare un avertimento a chi che saveva éo, ai catanesi che i gà assessinà Pasolini..." La sua onnipotenza è contagiosa: che effetto fa l'onnipotenza assorbita da chi non ha niente? ("L'ho visto commuoversi per la Englaro" mi scrive Gigi Simonetti "e ho capito cosa avete in comune, anche lui crede alle balle che racconta.") Ma le voci femminili, voci di ragazze le cui nonne hanno fatto il Sessantotto, insistono a idolatrarlo mediante l'insulto come le santere brasiliane sputano sugli orixà o come si bestemmia un paesaggio familiare che resterà per sempre il nostro orizzonte. "Mi serve benzina, cribbio!" "Vèstiti da infermiera con il camice e sotto niente, solo autoreggenti bianche... comprati la macchinetta per misurare la pressione e fagli una visita, a lui gli piace recitare da finto malato." "Che palle 'sto vecchio... stavolta lo giuro che ci vado io a tirargli la statuetta in faccia..." Lui racconta le barzellette come moderne parabole: quella della mela che sa di fica («ma sa di culo!»; «la giri...») dura tre minuti e quarantotto secondi, tra i sindaci con la fascia che si scompisciano e applaudono. Ma a ogni ostensione trionfale appare più stanco, non regge il ritmo; si addormenta alle celebrazioni alla Polanco che lo assilla per un appartamento risponde «no no assolutamente, sulle gemelle hai tu la precedenza, ci mancherebbe, però stasera vado a letto presto amore, mi fa anche male alla pancia». "L'imputata Minetti Nicole dichiara di essersi fermata ad Arcore per molte notti e di aver fatto sesso col Presidente (scilicet Berlusconi Silvio) in quanto innamorata di lui; ma richiesta di precisare in quale periodo deve collocarsi questo suo amore, risponde di non potersi ricordare con esattezza quando." | << | < | > | >> |Pagina 30INVITO A SPENDERE CINQUE SECONDIHo constatato che, più amici, nell'atto di smettere di giocare; si tolgono il grembiulino e, lo buttano malamente sulle mensole. Se avete ben notato, a queste mensole c'è avvitato un gancetto: messo per appendere appunto i grembiuli stessi (già muniti di occhiello). Tutta l'operazione di appendimento, cronometro alla mano, si compie all'incirca in cinque secondi... compiendo nel contempo tre cose importanti e giuste: stanno meglio appesi che buttati, si asciugano dall'umidità delle mani e si lasciano libere le mensole per le consumazioni. Sopportate vi prego, queste parole che non intendono affatto passare per "ramanzina', ma semplicemente come ovvia presa di posizione di un responsabile di sala che naturalmente si ripromette di dare esempio. Questa è la brutta copia, trovata nella scrivania dopo ch'è morto, di un volantino che mio padre aveva affisso in polisportiva a edificazione dei giocatori di biliardo. Poi mi si domanda perché odio le regole. Tutto, pur di restare al di sopra delle mie possibilità economiche e al di sotto della mia dignità morale; il mondo esiste per disubbidirgli. Anche se ormai il mio sogno più trasgressivo è la solitudine. ("Solo sulla terrazza / alzo il bicchiere e invito la luna: / con la mia ombra facciamo tre.") La solitudine non è mai stata per me una conquista, né tanto meno un'impresa: è un residuo, l'orma vuota di un istrionismo andato a male ma meglio la solitudine che la desolazione della centesima replica. L'imperativo è essere adeguati all'infelicità, non sono mai stato un buon depresso: ditemi soltanto dove devo sedermi. Le visite di Marcello sono (erano?) gli isolotti che dividono i bracci di mare; ora il mare deserto, infinito davanti a me, mi spaventa. Cerco di convincermi che sto facendo la cosa giusta, che devo tornare al centro di me stesso per immagazzinare forza; il diradarsi degli incontri dovrebbe decelerare fino a spegnersi, come il pulsare di una stella che si allontana. Poi verrà l'assurdo: massiccio, inviolabile, da accettare come una liberazione. | << | < | > | >> |Pagina 47Novembre 2011Joseph Ratzinger è un intellettuale a cui i paramenti papali stanno larghi; cerca di risanare lo Ior, ricomporre lo scisma dei lefevriani, nuotare nell'omosessualità rimossa della Chiesa senza comportarsi da dittatore, ma annaspa. Berlusconi è ricattato dall'ultimo dei ruffiani e costretto a compravendite affannose. Vaticano e Montecitorio hanno perso il loro carisma e gli italiani sono troppo democratici e troppo cattolici per non percepire questa perdita come una generale perdita di fede. Alla mia falotica ossessione sta accadendo lo stesso: se Marcello non è l'unico, Marcello non esiste più. I1 piacere solitario continua a essere la mia unità di misura: come screensaver ho sperimentato Turner e Rothko e la Decollazione di Caravaggio ma torno sempre a Carl Hardwick che scende le scale (scopritelo su 3xMuscle, i quadricipiti arcuati come la ringhiera). Una mediazione più elegante l'ho ottenuta talvolta nella mia vita vera mettendo il corpo che mi ossessionava a contatto con l'opera già sublime in partenza: Marcello e l'altare di Pergamo, Ruggero sullo sfondo di Guernica, un muscolosissimo fonditore davanti alla pala giorgionesca di Castelfranco Veneto; niente da fare, l'evasione nobile non fa per me, l'inferriata della cella è troppo in alto a me serve la fisiologia bruta, la miccia, ma la deve accendere qualcun altro, per me non c'è assoluto senza innesco sessuale. Č questo che mi condanna alla molteplicità? Come si esce da dieci anni di fuga nell'insussistente? Noi baby boomers abbiamo vissuto un po' tutti al di sopra delle nostre possibilità, ma per me Roma è stata un veleno: Roma trionfante, enfatica, a ogni svolta un arco di cartapesta o un amore inconsulto, un rosso tramonto ingannevole. Roma feroce e sbadata, abitata sul fiume dalle nutrie fangose che divorano i piccioni, sui terrazzi dai gabbiani che straziano col becco i topolini; Roma che ti invita a dimenticare, sempre prodiga di amnistie e di colonne fantasma, che nasconde le feste dietro i cerotti dei lavori in corso. Roma che è Amor letto al contrario, come sa chi appena si azzardi a qualche forma di astinenza. Possibile che il mio smarrimento si riduca a un problema di catalogo? Per vivere soli bisogna essere una bestia o un dio, dice Aristotele; ma basta a giustificare la volgarità del chiodo-scaccia-chiodo? «Dio non abita più qui.» Macché Dio, la verità è che la mia periodica capacità di autoinganno è arrivata di nuovo al capolinea. "Verità" è una parola che ho giurato a me stesso di pronunciare il meno possibile, la verità dei vecchi è come chi riprova i colpi del biliardo dopo aver perso la partita; tutto sfuma, si volatilizza. Devo adottare il settantenne che presto sarò e farlo coincidere con me senza però ripetere, questo mai. Circa due anni fa qualcuno voleva suicidarsi per gelosia e quel qualcuno ero io (Emanuele Trevi se lo ricorderà, di quando andai a pregarlo piangendo perché mi facesse da curatore filologico per un libro che non avrei portato a termine...); ora l'infima scintilla di quell'inconcepibile fiammata è l'abitudine di cancellare immediatamente dalla memoria del cellulare i messaggi che non siano né di Marcello né di Rodrigo. Un testa a testa, molti chilometri al di sopra del mondo.
Se ho deciso di eliminare uno dei due non è per avarizia
(tra l'altro è quello che adesso mi costa incomparabilmente di meno, circa un
dieci per cento del totale); semmai è
per legittima difesa, eppure laggiù dove c'è buio sento mormorare di una
sacrilega caccia di frodo. Rodrigo è il meraviglioso ruminante dagli occhi di
gladiolo, ma fingendo di
sparare a lui è Marcello che posso finalmente uccidere; con
Marcello è sempre stata la sfida per la vita e per la morte,
il paradiso o la dannazione.
(Non bisogna aver paura del ridicolo, quando lo si è meritato!)
Ucciso il cuore oscuro, anche l'arma che mi sarà servita per spegnerlo perderà
senso; quel che spero di guadagnarci è la fine di un'impotenza più
subdola dell'impotentia coeundi: la chiamerò l'impotenza a rinascere.
Mario Monti è stato nominato senatore a vita, fuochi si accendono nella notte per festeggiare la destituzione rituale di Berlusconi, panettoni precoci divorati come ostie; lo abbiamo visto mentre annotava "traditori" su un taccuino, erano i nove che gli hanno fatto perdere la maggioranza. L'auto nera che lo trasportava al Quirinale, dove rassegnerà le dimissioni al capo dello Stato, aveva l'incedere lento di un carro funebre o di un ascensore per il patibolo. Neanch'io sono pronto, più il rettile è grosso più la muta è lenta. | << | < | > | >> |Pagina 72Modena, interminabile febbraio 2012La road map della malattia, come ci era stata tracciata dal primario, si sta realizzando implacabile: «presto avrà difficoltà di linguaggio» e infatti ormai spesso ci accoglie con una cantilena per cui le altre vecchiette e le infermiere la prendono un po' in giro: «Nananare, nananare, nananare...». Forse è l'esito sgretolato di una domanda che faceva sempre nei mesi scorsi, «dove devo andare?» nell'ospizio non si è mai sentita al sicuro, aveva paura che tutto le fosse proibito, aspettava autorizzazioni per qualunque cosa. Alle proposte delle animatrici, di avvolgere gomitoli, colorare sagome o impilare cubi, rispondeva invariabilmente «non riesco» e a noi, dopo, «a 'm fagh réder adré» (mi faccio ridere dietro). La teoria sostiene che la memoria delle mani sia più tenace di quella che verbalizza, però mamma (che ha lavorato tanto in vita sua) adesso sembra in sciopero; è finalmente emerso in superficie il suo rifiuto di socializzare («io non le dico niente perché non la conosco») e di avere figli («mamma, è Walter»; «e allora?»). L'unica gioia la va a pescare nelle filastrocche infantili («al papà l'e andè a Sasól / a cumprèr un bel sibiól: / al sibiól sunèva fort / e la mama l'ha fàt al gnòch...»), quando giocava al girotondo con le altre ragazzine; ci sorprende (o meglio ci sorprendeva) con inattese punte di arguzia («sei diventata magra...»; «così la dottoressa non mi vede») o con residue capacità matematiche («sai che oggi tuo nipote compie diciotto anni?»; «la metà di me, io ne ho trentasei...»). I frammenti linguistici integri si sono man mano diradati, ora le frasi di senso compiuto sembrano giungere da un'altra dimensione, come se sognasse: «Mi devono cosare un'altra porta, perché devo entrare...». «Dove, devi entrare?» «Mah... a gh'è scur...»
Da brividi. Il pronostico è terrificante: dimenticherà come
si fa a camminare, poi a deglutire, alla fine morirà soffocata perché non
ricorderà più quali muscoli si usano per respirare. Già scambia l'esofago per la
trachea, inghiotte ogni cucchiaiata con la cautela di uno speleologo e dopo
quattro o cinque dice «basta!», esausta. Bisogna decidere in merito al famoso
impianto sottocutaneo e comunque è impossibile ospitarla ancora in questa
struttura riabilitativa, visto che ogni riabilitazione sarebbe vana si
prospetta il trasferimento in una lungo-degenza, dove l'unica cura sarà di
accompagnarla dolcemente. Le ossessioni che tanto ci avevano
irritato (la ricerca continua delle chiavi, della torcia, del borsellino) sono
cadute, segno che la morte si avvicina.
Fa cenno con la mano di portarsi qualcosa alla bocca: che
abbia fame? Qualsiasi comunicazione verbale è cessata, il
quasi-digiuno ha dimezzato il suo peso gli occhi, sbarrati
nell'incomprensione, sembrano più grandi. Qui nella clinica
nuova la chiamano "la nostra bambolina", non sanno quanta
misantropia si nasconde sotto l'apparente mitezza di quell'incessante pigolìo.
Il dottore buono accarezza mamma sulla
spalla sinistra, cosa che io non riuscirei a fare. Con mia sorella ci prepariamo
alacremente al peggio («senti, i soldi per seppellirla non ce li ho»; «ci penso
io, chiedo un pre-anticipo all'editore») fine delle finzioni: resta
l'efferatezza della vita che si manifesta col suo dato più primitivo, la durata.
Mamma è caduta inciampando in uno scalino, frattura scomposta, ora per sicurezza la tengono legata alla poltrona con una cinghia; data l'enorme fragilità delle ossa pare che l'ingessatura sia un'opzione da scartare, l'hanno imbragata in fasce elastiche e non riusciamo neppure a capire se soffre. L'omero si risalderà? L'ortopedico risponde con una smorfia che significa "qualcos'altro accadrà assai prima". La spalla rotta è proprio la sinistra, esattamente nel punto dove il dottore buono l'aveva accarezzata: il dottore era dunque il diavolo? Quanto a me, un pensiero diabolico mi attraversa come una saetta divina: "fin che io sarò vivo, lei non riuscirà a morire". | << | < | > | >> |Pagina 101Bordeaux, ancora maggio 2012 Sono qui a una fiera del libro per la traduzione francese di Scuola di nudo; una "session de signature" ma, mentre all'altro lato del padiglione davanti a Baricco c'è la fila, da me non si ferma nessuno. I buoni bordolesi, coi loro leggings per la corsa domenicale, i loro solidi palazzi del commercio, i tram scintillanti e velocissimi, il vento sul lungo Garonna e i bracciali africani sui polsini di seta, sbirciano dubbiosi la fascetta con Federico Focherini fotografato nella cupa magnificenza dei suoi muscoli in offerta. Cosa volete che gliene importi di un paradiso così improbabile, abituati come sono a stivare l'assoluto insieme al vino e ai formaggi? Che ne possono sapere della tragedia di un culturista di Destra, tutto Dio e Patria, falsamente accusato di aver ucciso la fidanzata col doping, umiliato e deluso da quelle stesse forze dell'ordine che prima idolatrava, costretto a riparare in Sudafrica dove è snobbato dagli afrikaner calvinisti? Ieri un'amica che abita qui, vedova di un funzionario e lesbica tardiva, cercava di consolarmi vedendomi affaticato dal nulla. «Tu non sei Berlusconi... l'ossessione che vuoi uccidere dentro di te assomiglia a Berlusconi, è lei che non molla come lui non mollerà mai...» «Aspetto una mutazione sinaptica che non arriva... il pensiero del suicidio aiuta a passare molte cattive notti.» «Forse io e te siamo più simili di quanto sembra... anch'io ho bisogno di essere in due per esistere.» E via con gli aneddoti di macelleria coniugale, mariti ubriaconi e maneschi, orecchini strappati lacerando i lobi, fughe notturne per i tetti e figlie adolescenti che si tagliano le vene; letteratura di seconda mano, non resa più interessante dal fatto di realizzarsi in natura. Se una persona decide di tormentarne un'altra, chi sono io per dissuaderla? Poi siamo andati al mercato dietro la chiesa di Saint-Michel, dove i banchi erano già chiusi e i maghrebini dondolavano il capo a una nenia singhiozzante e sentimentale, osservando con indolenza i pochi sudamericani che più in là ballavano sfrenati un merengue. «Sia gli uni che gli altri si accontentano di poco...»
Eh già Flavia; da che pulpito, e a chi lo dici?
Palermo, 29 maggio Da un capo all'altro dell'Europa a presentare due libri diversi, separati da vent'anni e l'uno all'altro ostili; albergo di vecchio lusso, con patio e palme. Attratto da un gridìo indistinto esco inoltrandomi in stradine di friggitorie; mi ritrovo davanti al palazzotto feudale e merlato della Provincia, in piena manifestazione con bandiere della Cgil e della Cisl. Pochissime le donne, più interessanti i giovani in fondo dove il corteo si sfilaccia, meno Guttuso e più centri sociali. Brillano gli scudi in plastica dei poliziotti, tra striscioni contraddittori: "carabinieri di merda", "Acab" e "basta partiti, i militari al potere".
La sera, in uno dei soliti talk, rivedo la piazza ridotta a set
pittoresco: un forcone stilizzato di legno, operaie in tuta, un
carretto siciliano addobbato di stracci rossi da cui si grida
«vergogna!». Poco più che una clip di alleggerimento per
rompere la noia delle discussioni in studio.
("Il governo dura fin che fa le cose / non m'interrompa mi lasci parlare / ma
lei non può dire cose non vere / i numeri sono numeri, io elenco fatti / capisco
che lei sia nervosa / io sono calmissima guardi / risolvere i problemi della
gente / non il bene mio ma quello del Paese / dire basta alla macchina del fango
/ ho la pubblicità", e vai col tango.)
La televisione come cilicio quotidiano, placebo per i soli e i malati. Da Hugo a
oggi, i miserabili come materia da varietà; il dato nuovo è che molti ex
spettatori sono stati arruolati nello spettacolo e non se ne sono
(ancora) accorti.
Io sono solo non per difficoltà momentanee ma per costituzione e destino: la presenza di un altro nelle mie decisioni di vita mi è sempre sembrata un ostacolo, un peso e una censura. Coloro che mi hanno amato li ho sempre condannati a morte, almeno letterariamente (ma per me la letteratura è tutto); una volta soltanto mi sono rassegnato a convivere, per una decina di mesi e per motivi pratici d'urgenza: è finita malissimo, con libri sparsi a terra e una lampada liberty sbriciolata, vetri rosa e verdognoli dappertutto. Nevrotico incontentabile, sempre in cerca di un sacro che non esiste: pronto a proiettarlo ovunque, nel sesso nell'arte nel paesaggio, ovunque tranne che in Dio. L'insoddisfazione eletta a misura dell'umano, come se fosse una dimostrazione d'anima; il male preferito al bene perché il male offre l'illusione di travalicare più limiti, ogni incontro con un delinquente mi trova succube e bendisposto e mi flagello e mi sveno per far sentire ogni energumeno a proprio agio, come se fosse chissà quale emissario dell'Altrove. Nato proletario e con un metabolismo geneticamente pigro, eredo-familiare di contadini obesi trangugiatori di patate e polenta: ossessionato dalla quantità più che dalla qualità in ogni settore dell'esperienza. Nessuna tradizione di sobrietà o di stile a cui fare riferimento, anzi l'atavica fame di carboidrati, zuccheri e approvazione; servo nel cuore (ma avendo perso dei servi ogni solidarietà collettivistica), grasso scudiero che mai ha trovato il proprio comandante anche perché i comandanti sono sempre andato a pescarli tra i peggiori, così da poterli ben presto liquidare con disprezzo. | << | < | > | >> |Pagina 173Nessun luogo, tempo di cambiamenti e riflessioniIn Iran la polizia bastona e arresta i ragazzi e le ragazze che nei parchi si divertono sparandosi addosso con la pistola ad acqua: il pretesto della repressione è che i vestiti bagnati lasciano trasparire le forme. Il corpo spaventa quando accende metafore, le rotondità alludono a frutti proibiti. Il Potere suggerisce alle masse "sputtanate il vostro infinito negli acquisti" e raccomanda agli intellettuali "raccontate in giro che l'infinito è male"; chi difenderà l'infinito nudo, cosmico, la sfaccettatura di diamante da cui pretendere il di-più? Confrontare i trastulli annoiati dei padroni con gli aneliti libertari di giovani ardenti è infame, lo so, ma i percorsi del desiderio sono tortuosi e scavalcano le distinzioni più ovvie. Spurgo il voyeurismo specchiandomi nelle sculture gastronomiche di Peck, in giaguari cromati e in maglioni di cachemire: anche la mia ossessione sessuale era un riflesso sul vetro? Se appena vira di qualche grado l'angolo di incidenza della luce, o se un barlume di chiarore si infiltra nel grigio che ci contrista, gli showroom dell'incantesimo inventano un girotondo la primavera che non arriva mai. Il lusso non è lo strato superiore del quotidiano, è l'annuncio di un'altra orbita. Come il divino e il terrestre nelle tele barocche (il trionfo dei santi sopra, il contorcersi degli appestati sotto), ormai la società si divide in due razze nettamente distinte, sopra i Luminosi e sotto gli Iloti; la beatitudine dei primi è nascondere i piedi in soffici strati di nuvole, la dannazione dei secondi è che non esiste altra regola tranne quella di lassù. Io faccio la spola, l'elastico: rimbalzato tra il padre di un'amica, che col suo fondo di private equity si è comprato l'aeroporto di Capodichino, e mia sorella che ha problemi a comprarsi due etti di prosciutto crudo. La regina d'Olanda, una delle donne più ricche del mondo, abdica al trono per stare accanto al figlio in coma dopo un incidente; il lusso è irresistibile per i poveri, solo i milionari possono permettersi di disdegnarlo. Toccare il lusso con la punta delle dita significa essere assunti (per qualche secondo) nella sfera superiore; quel che luccica emerge dall'essere, che sia un iPad conquistato sgomitando in una coda o un albergo con dorature e personale solerte. (Per un riflesso pavloviano, gli alberghi mi profumano d'assoluto anche ora che mi accolgono senza gli additivi del sesso e della cocaina per pura metonimia: la mia ossessione era una figura retorica?) Il nostro è un Paese che non ha più la sfacciataggine di sperperare, non sa più su che cosa masturbarsi e ha perso la speranza di godere; se le si fissa a lungo, perfino le vetrine più scintillanti si vergognano. Il denaro è l'estremo rifugio del non-mediocre e del non-irregimentato, la bellezza è il malinteso premio della diserzione. Ma fuggire nel denaro ormai è consentito a pochissimi, gli infelici molti si dibattono tra i fossili di un consumismo estinto, faccia a faccia coi cadaveri di una passata illusoria imitazione. Forse l'individuo riesce a rassegnarsi alla perdita del paradiso, ma per una società è più difficile. Il delirio d'onnipotenza non vuole morire: coi droni è possibile combattere una guerra senza percepirla come tale, l'informatica ha scombussolato le catene di comando, un generale può visionare i minimi dettagli scavalcando capitani e colonnelli. Con un computer da pochi euro una ragazza finlandese occhi-di-fiordaliso che sul sagrato di St Paul a Londra protesta contro la dittatura bancaria (ma va a dormire da una zia perché lo scampanio notturno la disturba) può vantarsi amica di una ragazza siriana che trema sotto le bombe; un adolescente giapponese "no life" satura la propria mistica misantropia esattamente come Hugh Hefner mura le finestre della sua stratosferica mansion californiana. L'immediatezza della comunicazione universale è l'ultima sirena dell'illusione omologante, l'ermetico guscio di uno smartphone è il seme che i padroni hanno insinuato nel cuore dei servi. Se una cosa non puoi comprartela, puoi sempre chattarne su un ideale palcoscenico illimitato, il pensiero è una funzione statistica.
La scrittura sui social appartiene allo stesso sistema culturale che negava
le barriere tra desiderio e soddisfacimento: quel che scrivi può arrivare subito
dovunque, tanto più facilmente quanto più il suo stile è appiattito e
semplificato. La dissoluzione delle singolarità provocata da mezzo secolo di
consumismo ha dato una mano formidabile al
secondo principio della termodinamica; neppure il male è
più percepito come energico ma solo come reazione meccanica di quell'animale
truccato che è l'uomo (nel senso in
cui si "trucca", forzandolo, un motore). "Tutti sappiamo
quel che bisogna fare ma ciascuno vorrebbe farlo a modo
suo" è il ritornello di questo Paese; dunque la diversità
delle opinioni diventa un alibi per mantenere questo alibi è essenziale che si
indebolisca la gerarchia di comunicazione: chi non sa niente deve poter arrivare
sotto gli occhi e alle orecchie di chiunque, senza per questo aspirare
ai vertici decisionali. Credendo di esprimersi, i ragazzi si
consegnano legati all'entropia dell'informazione. La pedagogia potrebbe salvarli
insegnando che una relazione riuscita è preferibile all'acquisto di una merce;
ma che succede se le relazioni riuscite vengono mimate nei dominii
della Rete (dove la
quantità
dei followers prevale sulla qualità), e dunque trattate a tutti gli effetti come
una merce? L'autenticità e il mutismo sono sprechi che il Potere non
può permettersi.
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