Autore Fredrik Sjöberg
Titolo Mamma è matta, papà è ubriaco
SottotitoloUno studio sul caso
EdizioneIperborea, Milano, 2020, n. 318 , pag. 210, ill., cop.fle., dim. 10x20x1,8 cm , Isbn 978-88-7091-618-8
OriginaleMamma är galen och pappa är full. En essä om Slumpen
EdizioneAlbert Bonniers Förlag, Stoccolma, 2018
TraduttoreAndrea Berardini
LettoreDavide Allodi, 2020
Classe narrativa svedese












 

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Indice


Kanabriel                                    11

Qui c'è Dick                                 15

Le sorelle Adler vanno a caccia              23

Le ragazze in cantina                        33

Geranium bohemicum                           39

Giovane e promettente a Copenaghen           51

Legno di deriva                              61

La forbicina di Sant'Elena                   67

Kattresan e altri francobolli                79

Erst kommt das Fressen                       91

Il re dei vagabondi                         103

Anni felici a Mentone                       115

Nella sonnolenta città di Verona            125

Solo                                        133

I ficus strangolatori di Bordighera         141

La scatola in soffitta                      153

La galassia Arosenius                       165

Il bambino sotto il letto                   177

L'arte di fallire                           187

Il monte Sinai                              199


 

 

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Pagina 11

Kanabriel


Nella mia infanzia c'era un uomo che si chiamava Adolf. È l'unico Adolf che abbia mai conosciuto, o anche solo visto. In effetti aveva un nome antiquato. Come facesse di cognome non lo so; tutti lo chiamavano con il nome di battesimo, e quel che lo rendeva speciale era che possedeva una Volvo 142 bianca, anche se questa era solo una delle sue peculiarità.

L'altra era che nelle notti d'agosto più tiepide, quando il mare era calmo, andava a pescare le anguille con la fiocina a mano nelle acque basse della baia di Grantorpsviken, subito sotto il vivaio - le serre e il recinto con le ortiche dove in seguito sono state costruite delle ville.

Già allora quel tipo di pesca era severamente proibito, ma lui non se ne curava e ogni estate, in agosto, fissava alla prua della sua barchetta a fondo piatto una lampada a cherosene dall'intensa luce bianca e poi se ne stava là, immobile, a guardare l'acqua stringendo bene in tutt'e due le mani la lunga asta della fiocina. Una volta ero sul molo, al buio, a guardare la lampada nella baia - la lampada, la barca, la fiocina e Adolf, che nelle tante ore in cui restai là solo e invisibile in quell'odore di catrame e fango non pescò mai nulla.

All'epoca non sarei voluto andare in nessun altro posto.

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Pagina 23

Le sorelle Adler vanno a caccia


Adesso racconterò tutto quel che è noto di Anton Dich, nato a Copenaghen nel 1889 e scomparso a Bordighera quarantacinque anni dopo, ma siccome è un po' come se il suo cavalletto, disposto di fronte a Hanna e Lillan a Mentone, lo nascondesse, devo prima fare una deviazione passando per le madri delle ragazze.

Non che debba, a dire il vero. Qua vige totale libertà. È solo che mi diverte. E poi credo che, quando si esplora qualcosa che è non solo ignoto ma sfuggente, partire da una zona di luce sia un vantaggio. Oltre che di Johanna e Jöns, e del loro contributo iniziale sotto forma di un'eccezionale alacrità e di un appetito sessuale incontenibile, può essere utile dire subito qualcosa dei loro cinque figli. Quelli che avrebbero poi costituito il nucleo dell'impero Adler.

Axel era il maggiore e aveva fiuto per gli affari, poi venivano le sorelle Eva, Elvi e Lisa, tutte decise a diventare artiste, e ultimo ma non ultimo il fratello minore Nils Bande Adler, militare, playboy, mecenate, scapolo impenitente e cattolico convertito con un particolare interesse per le attività ricreative giovanili. Tutti raggiunsero età venerande.

Il punto di partenza è l'anno in cui fu realizzato il ritratto, il 1921, dal quale si gode una buona visuale su entrambi i punti cardinali della mappa cronologica. L'aria è limpida e rarefatta. All'epoca Johanna era vecchia - morì un paio d'anni dopo - e già da tempo aveva affidato la ditta ad Axel. Eppure quell'estate anche lei era a Mentone, sulle montagne. Eva e Anton abitavano lì.

Eva scrive in una lettera a Nils: «La mamma passava le giornate a leggere a un piccolo tavolo in giardino; sembrava una vecchia incisione tedesca.»

Tra l'altro, in questa stessa lettera scrive anche di Lillan e di sua cugina, molto più matura della sua età: «È stato davvero un piacere conoscere Hanna. È una ragazzina ubbidiente, allegra e deliziosa. Hanna dimostra un paio d'anni in più della mia Lillan, ma sono diventate amiche per la pelle e si sono divertite un mondo ed è un peccato che abitino così lontane, perché credo che entrambe trarrebbero giovamento dalla reciproca compagnia.»

All'epoca Hanna abitava con i genitori a Berlino, e Lillan era stata spedita in un collegio femminile nei dintorni di Parigi. Su quanto fossero felici si potrebbe discutere. Ma non anticipiamo.

I fratelli Adler sono una storia a sé. E forse farei meglio a cominciare dal fratello maggiore Axel, che sarebbe passato alla storia come uno dei più avidi o perlomeno dei più fortunati uomini d'affari del periodo interbellico, ma le sorelle offrono maggior colore - Eva (nata nel 1879), Elvi (1880) e Lisa (1883) - e voglio che il racconto cominci con Lisa, la madre di Hanna. La ribelle della famiglia. I fratelli minori, com'è noto, hanno la tendenza a uscire dal seminato ed esplorare nuovi territori, nei limiti del possibile.

Della sua infanzia non si sa molto, oltre ai dettagli ufficiali. È vero che, essendo vissuta fino al 1981, avrebbe avuto parecchio tempo per raccontare, eppure non disse mai granché, se non che la sua infanzia non era stata interessante. Questioni per lo più di latte, si può supporre, e traslochi a indirizzi via via più prestigiosi. Ma già nel 1901, a diciott'anni, si trasferì a Vienna per studiare arte. Non mi pare una coincidenza.

Il padre Jöns, lo stallone della contea, era malgrado tutto un tipo allegro che, nelle fattorie che si ostinava ad acquistare, amava circondarsi di artisti. Almeno da questo punto di vista, l'ambiente in cui crebbero i suoi figli fu stimolante. E poi per le ragazze delle classi agiate le scuole d'arte e artigianato erano uno sbocco accettabile, come parcheggio temporaneo in attesa di una proposta di matrimonio adeguata. Che l'arte potesse diventare una vera e propria professione di solito non era contemplato. Una componente della normale educazione borghese e nulla più, come suonare il piano o ricamare centrini.

Questo avveniva nel periodo in cui Gustav Klimt e i suoi amici del movimento Jugend laggiù dettavano legge: Vienna e Monaco, come calamite quasi parigine, attraevano a sé fuggiaschi dall'intera Europa, e un bel giorno ne arriva uno mentre Lisa Adler è a una mostra d'arte. Un ragazzo elegante, studente di architettura, di un'abbiente famiglia ebrea di Lemberg. Isidor Gesang. Lui parte in quarta e, con la disinvoltura rilassata dell'uomo di mondo, dice a Lisa che le sue mani sono le più belle che abbia mai visto.

Così si era trovata un uomo.

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Pagina 47

In ogni modo, pare che dopo l'iniziale diffidenza Ivar abbia cominciato ad andare a genio a tutti gli Adler. Forse si accorsero che i suoi eccessi da bohémien poggiavano su un terreno sufficientemente solido, un'infanzia borghese, rassicurante quasi quanto la loro. A Sämsholm fu presto ben accolto, e Nils, il fratello minore di Eva, diventò suo caro amico e compagno di giochi.

Anche in seguito, tuttavia, i piccoloborghesi rimasero per Ivar il principale oggetto d'odio. L'autoproclamato bohémien ha costantemente bisogno di qualcuno da biasimare, o almeno di qualcuno che possa fare da metro di paragone per la sua diversità. Una maggioranza, naturalmente, dato che il bohémien appartiene a una minoranza esclusiva: qualunque società composta soltanto di vagabondi e poeti collasserebbe nel giro di un giorno. Così, per chiunque si muovesse ai margini del sistema, i borghesi, come il maltempo, erano diventati oggetto di rimostranza di ogni bohémien.

Come osserva Adam Zagajewski, si tratta di calunnie che il piccoloborghese riceve da più di due secoli. Coloro che preferiscono vivere da bohémien, liberi, fuori da tutto, hanno sempre accusato il borghese di avarizia, egoismo, grettezza d'animo, assenza d'eroismo, mancanza di entusiasmo e tanto altro ancora; tutti epiteti azzeccati e di solito veritieri. Ma c'è un ma, scrive Zagajewski. Gli attacchi non riguardano il borghese, ma l'essere umano in generale.

«"Le bourgeois" è un sinonimo azzeccato di "essere umano". Autore e lettore sono entrambi soddisfatti: nessuno si riconosce in quel mostro terrificante, che a breve si sfilerà gli occhiali, poserà il libro e, di ottimo umore, andrà a farsi una breve e salutare passeggiata.»

Comunque sia, Ivar Arosenius è uno dei protagonisti della storia di Anton Dich, e non solo perché entrambi hanno sposato la stessa bella e soave ragazza borghese e da lei hanno avuto dei figli, ma perché per molti aspetti Ivar è l'opposto di Anton e può dunque fare da costante in un'equazione complessa. Era dotato davvero di un talento raro, era uno dei migliori, e non solo come pittore, come ben sa qualunque svedese abbia imparato a memoria i versi di Kattresan. Particolarmente significativo, a questo proposito, è uno dei frammenti letterari che ha scribacchiato su un foglio poco prima della morte. Almeno secondo me. Una sintesi che per certi versi si ricollega a un concetto formulato molto più avanti da uno degli amici parigini di Anton, il poeta arcibohémien Blaise Cendrars.

«C'era una volta un gomitolo, che rotolò e rotolò diventando sempre più piccolo, e alla fine era così piccolo da non farcela più. Ma quando si voltò a guardare la strada alle sue spalle vi vide un lungo filo. "Sono io", disse il gomitolo.

«C'era una volta una palla di neve, che rotolò e rotolò diventando sempre più grande, e alla fine era così grande da non farcela più. Ma quando si voltò, vide una traccia spoglia nella neve. "Oh, cazzo", disse la palla di neve.»

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Pagina 71

Com'è possibile che vivere ai margini rendesse più grandi i grandi e più piccoli i piccoli? Non è il contrario? Eppure questa affermazione ha il suono della verità. Che strano.

Il più grande e il più piccolo. Di colpo ero di nuovo nel mondo delle avventure, in quello stadio larvale che tutti i bambini devono attraversare, il periodo dei dinosauri, che poi può essere prolungato in un'idolatria altrettanto infantile in campo religioso o sportivo, o in qualsiasi altro ambito in cui qualcuno o qualcosa possa essere considerato il più grande. O il più piccolo. Ma all'epoca - dev'essere stato il 1972 o giù di lì, quando per la prima volta lessi della forbicina di Sant'Elena, l'isola sperduta nell'Atlantico meridionale - ovviamente erano i giganti ad attirare la mia attenzione.

Non so perché, ma già allora le periferie erano il mio habitat, specialmente le isole, e comunque sia adocchiai un saggio sulla forbicina gigante di Sant'Elena, ritenuta estinta. Fu durante il mio periodo scientifico. L'insetto si chiamava Labidura herculeana ed era lungo ottanta centimetri. Accidenti! pensai quando li misurai con le mani. L'ultimo avvistamento certo era avvenuto nel 1967. E si pensava che l'insetto fosse ormai estinto.

Nei giorni seguenti vissi in preda all'euforia. Fu il naturalista danese Fabricius, uno dei discepoli di Linneo, a descrivere la specie alla fine del Settecento, ma siccome Sant'Elena era lontanissima e siccome chi arrivava sull'isola di solito non pensava alle forbicine giganti, delle sue abitudini non si sapeva granché.

Il piano che prese forma nella mia coscienza esaltata prevedeva banalmente che cercassi di diventare adulto il più rapidamente possibile per poter andare laggiù, riscoprire la forbicina, studiarne la biologia e infine diventare celebre per la mia impresa scientifica. Più o meno era questo.

Non successe mai. Altri ci hanno provato, nessuno c'è riuscito. Restava solo il ricordo di quella straordinaria esaltazione. Una solenne sbornia di vanagloria, con tanto di postumi quando, il terzo giorno, mi accorsi di aver letto male. La forbicina era lunga ottanta millimetri, non centimetri, non poco per una forbicina, questo è vero, ma pur sempre una delusione.

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Pagina 79

Kattresan e altri francobolli


È un'ottima cosa essere i primi. In un'altra epoca probabilmente bastava essere i migliori, ma con il culto dell'arte rivoluzionaria introdotto dai modernisti è salita alla ribalta l'originalità. È un elemento sul quale oggi gli storici dell'arte puntano molto l'attenzione, ed è ragionevole farlo, perché un pittore che imbratti una tela nello stesso stile usato, diciamo, da Malevič o Jackson Pollock, ma dopo di loro, non è un vero ribelle.

Il fattore decisivo è quando, non cosa o come.

[...]

Fu in primavera, il l° maggio 1840. Una data che ha segnato la storia, letteralmente, perché fu allora che in Inghilterra fu messo in commercio il One Penny Black, il primo francobollo al mondo, e quello stesso giorno John Edward Gray si diresse al più vicino ufficio postale e ne comprò diversi esemplari, per collezionarli. Il primo filatelista. Palo, rimbalzo, gol, verrebbe da dire, più o meno come quando l'eroe gioiosamente stordito del film Forrest Gump investe per caso i soldi faticosamente guadagnati in «una ditta di frutta» che si chiama Apple.

Fintanto che esisteva un unico francobollo la collezione era completa, quindi chissà che noia mettersi a riordinarla per calmare i nervi, ma già pochi anni dopo altri paesi si accodarono, dapprima la Svizzera e il Brasile e poi tutti gli altri. Di colpo la cosa si fece più interessante, perché all'epoca i filatelisti collezionavano tutto. Il mondo intero.

Dopo la morte di mio padre, svuotando la soffitta della mia casa d'infanzia trovai le collezioni di francobolli del nonno. Non i francobolli svedesi - quelli, considerati preziosi, li conservava in una cassetta di sicurezza -, ma in fondo alla soffitta c'era un enorme album in tedesco del periodo interbellico, con un quadratino prestampato per ciascun francobollo emesso. A quei tempi era ancora possibile contemplare il mondo intero, almeno per i filatelisti.

Quel giorno in soffitta viaggiai lontano nello spazio e nel tempo, e naturalmente ripensai al mio periodo di collezionista di francobolli. Capita a quasi tutti i ragazzi, se ricordo bene, e dunque molti rammenteranno anche quando il mondo iniziò, per così dire, a deragliare. Già all'epoca, per chi sognasse una collezione completa, raccogliere tutto di tutti i paesi era impossibile, ma si poteva ancora provare a mettere le mani almeno su qualche francobollo di ogni paese. Le ottime conoscenze geografiche della mia generazione devono molto ai francobolli.

Il divertimento finì nel 1971, quando in Svezia i distributori Texaco iniziarono a regalare francobolli a chiunque facesse almeno venti litri di benzina. Per farsi pubblicità. Fintanto che i distributori della compagnia si erano chiamati Caltex, noi bambini ci eravamo dovuti accontentare degli adesivi da incollare sulle biciclette, ma anche il settore pubblicitario si stava evolvendo e all'inizio degli anni Settanta i francobolli erano un'esca perfetta.

[...]

Oggi il filatelista viene generalmente considerato una figura ridicola. Un buffone. Già a pagina due del Mondo nuovo, Aldous Huxley scrive: «Non i filosofi, ma i taglialegna e i collezionisti di francobolli compongono l'ossatura della società.» E non lo diceva in senso positivo. Chi colleziona insetti può all'occorrenza mascherare da scienza questa sua forma di auto-medicazione, ma il collezionista di francobolli è visto come un bambinone con una diagnosi psichiatrica che non è stata affrontata in tempo.

Si è ampiamente dibattuto sulla diagnosi che sarebbe stata affibbiata alla filosofa e scrittrice russo-americana Ayn Rand se fosse stata bambina ai nostri tempi: sindrome di Asperger è l'ipotesi più accreditata, o comunque una qualche forma di autismo, mentre i suoi sostenitori parrebbero mossi più spesso dall'edonismo e da una comune fame di profitto di stampo libertario. Non saprei dire. I tomi che ha scritto non mi hanno mai attratto. Solo uno dei saggi, comparso lo stesso anno in cui la Texaco provò a adescare i clienti con le Bahamas.

Dunque. Why I Like Stamp Collecting fu scritto nel 1971; Rand iniziava a invecchiare e per caso aveva ricominciato a collezionare francobolli. Riprese da dove aveva smesso all'età di dodici anni, come se nulla fosse. L'unica differenza era che all'entusiasmo dell'infanzia ora si aggiungevano le esperienze e la libertà della vita vissuta. Nulla riusciva a scacciare la stanchezza di una lunga giornata di lavoro alla scrivania come qualche momento in compagnia dei francobolli.

Riposare senza fare niente non era da lei. Le vacanze la annoiavano; nemmeno gli inviti a cena o agli eventi mondani riuscivano a farla staccare, perché vivere appieno il momento le tornava difficile. Collezionare era diverso. La travolgente eccitazione della caccia al tesoro era importante di per sé, ma ristoro e gioia derivavano anche, e forse di più, dall'ordinare pazientemente, oculatamente, sistematicamente le prede in file precise. Come pure dal senso di comunanza, da quella solidarietà priva di mire egoistiche che si crea tra collezionisti.

«Questo non è un mondo per guizzi improvvisi, non è un mondo per coloro che apprezzano il caos dei sentimenti indefinibili, mutevoli, vorticanti, travolgenti. È un mondo per intelletti metodici e razionali.» Tuttavia un buon consiglio, proseguiva, è quello di evitare «l'enorme quantità di spazzatura filatelica» che certi paesi meno seri riversano sul mercato. E tutto questo ben prima che il commercio di Modigliani decollasse sul serio.

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Pagina 93

Cercate di capirmi. I pregiudizi sono come gli animali domestici. Se uno li ha è per via di una combinazione di pressioni esterne, scarso controllo sui suoi impulsi e amor proprio, e in questo non c'è nulla di sbagliato. Il trucco è tenerli alla giusta distanza. Con l'eccezione dei cani guida e di qualche altro caso particolare, gli animali domestici così come i pregiudizi sono una compagnia gradevole, ma alla lunga diventano fastidiosi. Se li si prende troppe sul serio si trasformano in zavorra e ti rincretiniscono. Per quanto ne so, i gattari non hanno mai contribuito al progresso del mondo.

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Pagina 103

Il re dei vagabondi


Lo chiamavano Modì. Con l'accento sulla seconda sillaba, perché tutto questo avveniva a Parigi negli anni Dieci, e i francesi adorano i giochi di parole. C'è sempre qualcosa che non si capisce, un sottinteso, e intanto loro ridono chiusi nella propria intesa esclusiva. Maudit si pronuncia allo stesso modo; viene dal verbo maudire e significa «maledetto».

In seguito tutti avrebbero conosciuto Modigliani, il genio autodistruttivo, il re dei vagabondi. Coloro che, su basi traballanti, sostenevano di essere stati amici di Picasso si assumevamo un gran rischio, perché lui non moriva mai, e dunque ogni affermazione simile poteva essere verificata, almeno in teoria; l'ubriacone bohémien di Livorno, invece, era una preda semplice per chiunque cercasse di splendere del riflesso di vecchi ricordi. Morì giovane e già prima del funerale fu trasformato in mito.

E in soldi contanti. Chi vuole credere che l'arte sia arte e i soldi siano soldi non di rado dimentica questo prosaico collegamento.

Ora, non paragonerò Modigliani ad Anton Dich, il primo un autore di quadri che oggi sono battuti all'asta per miliardi e il secondo un insignificante danese dimenticato in soffitte e umide cantine. Sarebbe sciocco e ingiusto. Ma siccome si sa per certo che, da qualche parte in quella nebbia, diventarono amici e raggiunsero il culmine artistico più o meno contemporaneamente, in un certo senso sono personaggi dello stesso dramma. Se si tratti di una tragedia o di una farsa, non è facile dirlo.

Amedeo Modigliani (1884-1920), dunque, veniva dalla vivace città portuale di Livorno. La famiglia era di origine ebraica e oscillava con noncurante eleganza tra la ricchezza e la povertà; se a guadagnare o perdere non erano le miniere, erano i boschi o le banche, ma questo non sembrava preoccupare eccessivamente il figlio minore Amedeo, né sua madre, che alla maniera delle madri italiane si adoperò per farlo entrare in varie scuole d'arte a Firenze e Venezia. Era un ragazzo gracile, quasi costantemente malato e malconcio, ma molto dotato.

A Parigi ci andò per bere, fare sesso e diventare famoso. Era il 1906. È come se a Montmartre, il monte dei martiri, ci arrivi planando dalle nuvole, per atterrare in un contesto sociale in cui per fortuna arrivano ben presto altri giovani con ambizioni simili, che diventano suoi amici e compagni d'armi: Picasso, Cendrars, Brâncusi. Sì, loro e tutti gli altri che abitano lì, godendosi - a pensarci col senno di poi - gli anni migliori della loro vita. Il mito di Modigliani sembra tagliato su misura per Hollywood.

Questo mito racconta, detto in breve, di un artista combattivo che visse in estrema povertà disperdendo al vento le proprie opere. Un genio incompreso la cui unica mostra, nel 1917, è interrotta dalla buoncostume perché l'assenza di compromessi con cui l'artista venera il corpo della donna è in anticipo sui tempi, o forse in ritardo. Un seduttore consapevole, votato a droghe d'ogni genere e ciononostante in continua attività, e che sa di avere i giorni contati. Muore a trentacinque anni, dopodiché la giovane moglie, al nono mese di gravidanza, si getta dalla finestra del quinto piano per seguire l'amato nella tomba. Sipario. Un sospiro profondo, musica d'archi. In metropolitana fino al Père Lachaise, il cimitero più visitato al mondo, dove i due riposano in compagnia di Oscar Wilde, Jim Morrison, Isadora Duncan e quasi un milione di altre persone che non sono più in vita.

Quest'ultima parte è vera. Ma il mito di Modigliani non è altro che un mito, c'è pochissimo di cui fidarsi, malgrado gli sforzi immani con cui i ricercatori seguono ogni minima pista, fino ai recessi più nascosti, quindi ammetto di non essermi sorpreso quando arrivò la prima lettera da Londra.

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Pagina 126

Comunque sia, l'aneddoto non mi fu raccontato come storia a sé, ma come prologo a un altro evento che Lillan non avrebbe mai dimenticato. Un senso di imbarazzo, forse più vicino a un senso di vergogna. Uno di quei sentimenti che possono rimanerti addosso come cicatrici: è vero che con gli anni sbiadiscono, ma ti restano sempre sulla pelle - e sotto - anche quando campi quasi cent'anni.

La scena è lo stesso scompartimento, poco dopo la presa d'atto che Anton ha perduto per distrazione il suo quadro. Ci si può immagina- re la discussione. Chissà la delusione e i rimproveri di Eva; probabilmente si era rallegrata che alla fine Anton avesse realizzato qualcosa di duraturo, qualcosa che forse poteva perfino essere esposto al Salone di Parigi, convincendo il pubblico di aver di fronte un pittore che aveva finalmente trovato la sua lingua. Un uomo che non era più solo un ubriacone sfaccendato come tanti.

E Anton, alticcio, a dire che per la miseria lui se ne fregava di quel cavolo di quadro, che tanto non valeva niente e sarebbe stato un fiasco. Forse, immagino, promise lo stesso, anche solo per mettere fine al battibecco, di telefonare o scrivere a quel caffè da Parigi per farsi spedire il quadro che aveva lasciato lì, appoggiato al bancone.

I bambini guardano fuori dal finestrino, in silenzio. Ci hanno fatto l'abitudine.

È all'incirca così che immagino la scena prima che, senza preavviso, faccia la sua comparsa una quinta persona. Nello scompartimento entra un militare francese, un ufficiale, che rivolge loro un rapido saluto e prende posto tra i cuscini. La discussione si spegne. Si scambiano qualche frase di circostanza, tipici convenevoli tra viaggiatori, su partenze e destinazioni, e poi cala una certa quiete. Lo sferragliare del treno sulle giunzioni delle rotaie.

È allora che Lillan pronuncia la sua famosa battuta, quasi tra sé, nella lingua materna, senza staccare lo sguardo dal paesaggio che le sfreccia davanti.

«Papà è ubriaco e mamma è matta.»

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Pagina 130

Il vino, a un primo stadio, infonde coraggio. L'audace si fa ancora più baldanzoso e impavido, l'umorista diverte ancora di più, l'aggressivo si fa violento, il credente diventa timoroso e così via, secondo uno schema che i più riconosceranno dai primi balli dell'adolescenza. Chi è cresciuto con un alcolista queste cose le sa fin dall'infanzia.

In seguito la carriera del bevitore si complica, soprattutto perché col tempo l'alcol inizia a suscitare angoscia, creando un meccanismo che ricorda quello del pianoforte meccanico. Stabilire cause e connessioni si fa sempre più complesso. L'alcolismo non è un'isola. È privo di confini netti, come la terraferma. Un villaggio nella foresta.

Beato chi si addormenta prima che la ruota giri, prima che venga presentato il conto, e se qui dico che Anton era un alcolista, benché altri che bevevano più di lui non lo fossero, è perché posso vantare un ottimo fiuto per gli attimi di intensa ebbrezza che si sentono lungo la pista da me seguita. Si dissolvono e svaniscono in continuazione, ma io non mi arrendo.

Un giorno ho trovato un frammento autobiografico, forse l'incipit di una lettera mai spedita, scritto a Bordighera all'inizio degli anni Trenta, in cui Anton parla della sua insonnia. Negli ultimi dieci anni ha difficoltà a dormire. Dev'essere stato tremendo. Quell'angoscia fino alle ore piccole. Le mie conoscenze dell'anatomia dell'alcolismo sono limitate, perché è difficile descrivere a parole le sensazioni suscitate, ma immagino che sia un po' come essere divorati dall'interno da una di quelle bestioline senza colore e senza occhi che vivono nelle grotte.

Immagino anche - non posso saperlo per certo - che il vino non fosse più suo amico, e probabilmente nemmeno quella polvere di nome Veronal. Una cosa però è certa: quasi tutti quelli che si ammazzano a furia di bere non si ammazzano a furia di bere se la posterità preferisce pensare altrimenti.

Il Veronal, così chiamato dalla pacifica città di Verona, fu a lungo un sonnifero molto diffuso, il primo di una lunga serie di sostanze, ora proibite, chiamate barbiturici. Fu sintetizzato nel 1903 dall'azienda farmaceutica Bayer e, come spesso nel caso dei sonniferi, aveva parecchi effetti collaterali: era facilissimo diventarne dipendenti e andare in overdose, specialmente mischiandolo con l'alcol. Sia Jimi Hendrix che Marilyn Monroe finirono così i loro giorni.

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Pagina 190

E poi i soldi. È sempre utile seguire questa pista. In superficie, sostanzialmente ogni aspetto della vita di una persona può essere spiegato con i soldi. Un giornalista - categoria di gente per lo più di notevole stupidità - mi attribuì una volta una dichiarazione in cui avrei detto che la più grande passione della mia vita erano gli insetti (il virgolettato era seguito da un «ovviamente»), cosa più stupida del solito che mi costrinse a una replica spontanea.

I miei principali interessi in questo mondo, dissi nel tono più sfacciato che trovai, sono i soldi e il sesso. Un riassunto forse un po' troppo stringato, ma il fatto è che volevo soltanto liberarmi di quel giornalista. Non si fece vivo mai più.

Il ruolo degli insetti nella mia vita, così come quello dell'arte, è legato all'idea della fuga, in un modo che nessuno è riuscito a spiegare meglio di Ryszard Kapuscinski , il caparbio polacco che tra l'altro contraddice tutti i miei pregiudizi sui giornalisti. Lo fa nel celebre reportage La prima guerra del football, scritto nel 1969 in occasione degli scontri tra El Salvador e Honduras, cioè di quella guerra ancora più insensata del solito, durata cento ore ma sufficientemente sanguinosa, che scoppiò per via di una disastrosa partita tra le due nazionali per la qualificazione ai mondiali.

In tutto il reportage si indaga con grande precisione l'idea, molto ragionevole, che con pochissime eccezioni lo sport in generale sia un'attività rincitrullente e che i suoi danni siano superati solo dal comportamento da branco degli spettatori. Non finisco mai di stupirmi di come così tante persone possano ancora ostinarsi a credere che lo sport sia utile, o perfino positivo. Niente di più sbagliato. Ma il discorso ci porterebbe fuori strada.

In ogni modo, Kapuscinski si ritrova nelle vicinanze del focolaio della guerra e rapidamente raggiunge il fronte, allo scopo di tenere d'occhio l'evento per il suo giornale di Varsavia. Sta viaggiando sul cassone di un camion lungo una strada di campagna deserta, in compagnia di qualche altro corrispondente, quando di punto in bianco scoppia l'inferno. Il veicolo viene fermato da esplosioni di granata e colpi di mitraglia da ogni direzione, i soldati corrono come galline ubriache tra i cespugli sparando a tutto quel che si muove. Il posto piomba nel caos, dovuto in parte al fatto che i salvadoregni hanno divise e armi simili a quelle degli honduregni e tutti urlano invettive nella stessa lingua.

I giornalisti, ora in pericolo di vita, si gettano giù dal cassone e si mettono al riparo lungo il terrapieno al lato della strada. Proiettili e frammenti di granata fischiano accanto alle orecchie di un Kapuscinski ormai terrorizzato, che in preda al panico scappa nella boscaglia fin dove fiato e coraggio riescono a portarlo, per poi crollare a terra.

Quando poco dopo torna in sé e si convince ad aprire gli occhi, scopre una colonna di formiche in marcia.

«Seguivano i loro percorsi una dietro all'altra. Non era il momento più indicato per osservarle, ma la sola vista di quelle formiche che camminavano tranquille, la vista di un altro mondo e di un'altra realtà, bastò a farmi riprendere. Pensai che se fossi riuscito a controllare la paura tappandomi le orecchie e concentrandomi sugli insetti in movimento, avrei recuperato la mia presenza di spirito. Sdraiato tra gli arbusti, mi tappai forte le orecchie con le dita e, naso a terra, presi a scrutare le formiche.»

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Ivar Lo-Johansson, uno che con l'alcol aveva sperimentato un bel po', conosceva meglio di molti altri il lavoro dell'artista. «Quando ci si accosta al problema dell'alcol», scrive, «ci si accosta inevitabilmente e immediatamente al problema della solitudine.» L'artista è un individualista romantico, come un gatto che se ne va a zonzo per i fatti suoi, e siccome il pubblico è un insieme di romantici ammiratori del genio, lui corre più di altri il rischio di diventare alcolizzato, semplicemente perché nessuno interviene. Come i bambini, gli idioti e i poeti, l'artista ubriaco è intoccabile. La sua ebbrezza «è l'ebbrezza del gatto solitario».

Il problema che gli tocca risolvere, però, è lo stesso della gran parte degli altri.

«Il legame tra solitudine e alcolismo è spesso molto evidente. L'alcolizzato è Monissos. L'alcolismo è il male della solitudine. È solo che la questione non è mai stata affrontata in quest'ottica.

«Nelle persone "comuni" l'alcol rimuove le inibizioni, libera dall'angoscia, elimina il senso di insicurezza, infonde il coraggio per cercare un contatto con gli altri. Nel visionario, nel solitario, per esempio lo scrittore o l'artista, l'alcol rimuove i medesimi ostacoli. Ma ciò con cui l'artista entra più strettamente in contatto sono le figure della sua immaginazione e le sue fantasie.»

Ivar Lo provò tra l'altro a lavorare da ubriaco, cosa che purtroppo si rivelò complicata, per non dire impossibile. Quando scriveva da sbronzo i risultati non erano granché. Sul suo organismo l'effetto dell'alcol si manifestava soprattutto nel desiderio di bere ancora, e questo a sua volta trasformava la pulsione creativa in altre pulsioni, ben più primitive, non ultime quelle erotiche.

Anton Dich morì ufficialmente di polmonite, seduto in poltrona. Solo. Accadde a Bordighera, l'8 febbraio 1935. Aveva quarantacinque anni. Pace alla sua memoria.

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