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| << | < | > | >> |Indice1. La meticolosità 11 2. Il terremoto di San Francisco 13 3. Il paese delle meraviglie 19 4. L'eremita 32 5. Il picchio dorsobianco di Gotska Sandön 43 6. Notizie dal club della Callicera 53 7. Una jazz session con Charlie Parker 67 8. Storia naturale della notte d'estate 80 9. Un ragazzo fortunato 89 10. La terza isola 96 11. Il giardino sotterraneo 109 12. Le querce intorno al castello di Gränsä 125 13. Nel nome del collezionista immortale 141 14. Un misterioso quadro di Strindberg 155 15. Il caso Esaias Henschen 167 16. Legends of The Holy Grail 182 17. Le casette per uccelli al Central Park 197 18. Le mosche lasciano l'isola 207 |
| << | < | > | >> |Pagina 111. La meticolositàLa mia insegnante di cucito era un po' una filosofa. Era il 1971. Avevo appena iniziato le medie a Västervik, in una scuola che all'epoca si chiamava in un altro modo, ma che oggi è intitolata a Ellen Key, una dei pochi abitanti della regione a essersi guadagnata a buon diritto la celebrità. Un grande edificio in mattoni, già allora vecchio di cent'anni, nel centro della città. L'aria di settembre era limpida e il cielo azzurro freddo. Si sentiva il profumo del mare, come sempre a Västervik in autunno. Tutto era nuovo e interessante. Io andavo ancora in giro con le castagne in tasca, e il sellino della mia bicicletta era forse un po' più basso di quello degli altri, ma molte materie di studio nuove stavano a indicare che presto la vita sarebbe cominciata sul serio. Per esempio c'era il cucito, che prima facevano solo le ragazze, e all'inizio del semestre avremmo imparato a lavorare a maglia. Il principio di base era piuttosto semplice, e così anche la pratica. Per lavorare a maglia una sciarpa, come avevo deciso di fare, non ci voleva poi tutta quest'arte. Me ne resi conto già alla prima lezione. Mi scelsi un gomitolo giallo limone e mi misi al lavoro con la gioiosa energia che danno le abilità appena conquistate. Le mie dita erano piccole e da tempo erano abituate a manovrare antenne di farfalle disseccate e minuscoli coleotteri, forse per questo la sciarpa risultò lunga e bella da vedere, ma rigida come una tavola e totalmente inutilizzabile. Una delusione. «La meticolosità è lodevole», mi disse con dolcezza l'insegnante, «ma può facilmente spingersi all'esagerazione.» Ho avuto spesso motivo di ripensare a quelle parole. | << | < | > | >> |Pagina 132. Il terremoto di San FranciscoNella tempesta di fuoco che si diffuse di isolato in isolato dopo il terremoto di San Francisco, il 18 aprile del 1906, andò distrutta una delle più belle collezioni naturalistiche d'America, pazientemente raccolta nell'arco di tre decenni dallo zoologo svedese Gustaf Eisen (1847-1940), che fu a lungo curatore della California Academy of Sciences. Sparì tutto, anche le sue cose personali. Biblioteca, archivio, corrispondenza. Tutto. Dovette ricominciare da capo, a quasi sessant'anni. Certo, gli era già capitato in passato, e più di una volta, ma insomma... Mi sono spesso chiesto come l'avesse presa. Si sarà messo a piangere? Non credo. Non era il tipo. E per di più si trovava dall'altra parte del mondo quando avvenne la catastrofe: la notizia del terremoto e degli incendi la apprese dai giornali mentre faceva colazione una mattina sul golfo di Napoli. Forse la sciagura fu per lui una liberazione. Non è una certezza. Ho solo il sospetto. Già in vita Gustaf Eisen era un uomo cui era difficile avvicinarsi. Andava per la sua strada, come un gatto. Enigmatico ed evasivo. «Eisen a cena», scrive Strindberg nel suo Diario occulto l'autunno di quello stesso anno. «Tra le altre cose mi ha detto che in America i terremoti sono annunciati dall'arrivo di uccelli: sono bianchi sotto e neri sopra, assomigliano alle beccacce, ma la specie è ignota e vengono chiamati uccelli del terremoto.» Era l'ultima volta che Eisen tornava in Svezia. Eisen è uno degli esseri umani più singolari in cui mi sia mai capitato di imbattermi. Forse anche uno dei più soli. Lo studio dei lombrichi, cui si era dedicato nella prima metà della sua vita – il suo brillante sistema di classificazione era ammirato perfino da Darwin, che gli scrisse per ringraziarlo di persona – non era un'occupazione cui volesse tornare. Era finita ormai. La collezione se ne era andata, e anche la voglia. Me lo immagino a Napoli mentre si alza dalla sedia, si stiracchia e sembra annusare l'aria come un vecchio orso. Decise che d'ora in poi avrebbe dedicato la sua vita alle perle di vetro. Aveva già fatto qualche passo in quella direzione. La sua idea era che le perle di vetro, che si trovano in tutti gli stadi dell'evoluzione culturale, dai fenici in poi, potevano rappresentare un buon criterio di datazione per l'archeologia. Ci lavorò per dieci anni. Viaggiava e viaggiava, instancabile. Visitava musei e collezionisti e dipingeva tutte le perle di vetro che vedeva. Tutte, ovunque. Era un bravo acquerellista. Una bella giornata di primavera, cento anni dopo, trovai il manoscritto.
Le perle di vetro non sono soltanto una gioia
per gli occhi, appassionanti da collezionare
e in generale affascinanti. Studiate nel modo
giusto sono anche di estremo interesse per
l'archeologo che, come un moderno detective,
può trasformare in storia e leggenda gli indizi
sparsi ed enigmatici che forse all'inizio sono
stati raccolti come frammenti privi di significato, ma che, nelle mani di chi è
capace di comporre il puzzle, possono portarci in stretto
contatto con coloro di cui stiamo cercando di
ricostruire e capire la storia.
Ho visto anche gli acquerelli. Da più di mezzo secolo giacciono totalmente dimenticati in un archivio nel quartiere di Östermalm, a Stoccolma. Quarantamila: i più graziosi piccoli dipinti che ci si possa immaginare, organizzati con magnifica sistematicità, un intero universo in miniatura. Sul fatto se siano o meno utilizzabili non intendo pronunciarmi. Il lavoro non venne mai pubblicato. Lo impedì lo scoppio della guerra. E anche altro. Ricominciò da capo. Perché uno non si arrende? Che cos'è quel desiderio che lo spinge? Alla fine Eisen trovò il Santo Graal. Letteralmente. Il Graal! La coppa d'argento, antica di duemila anni, che i romantici di ogni epoca non hanno trovato, ma che hanno inseguito come un sogno. Eisen però era un uomo pratico, dotato di uno sguardo da intenditore, e quindi era l'autentico Graal che aveva trovato. Si scoprì che veniva da Antiochia, nella provincia romana della Siria. E l'ho perfino visto. Un calice d'argento riccamente lavorato, attualmente esposto in posizione di rilevanza al Metropolitan Museum of Art, sul margine del bosco di Central Park, a Manhattan. Per il libro che Eisen scrisse su questo oggetto fu più facile trovare un editore. The Great Chalice of Antioch, pubblicato nel 1923. Un volume lussuoso. Il libro più grande, pesante e prezioso che io possegga. A mettergli delle gambe si avrebbe un tavolo. Un'edizione ridotta, in formato più piccolo e pubblicata negli anni Trenta, è in vendita tutt'oggi, come del resto anche il famoso libro di Gustaf Eisen del 1890 sulla produzione dell'uva passa in California. The Raisin Industry: A Practical Treatise on the Raisin Grapes, their History, Culture and Curing. Famoso tra gli esperti, cioè. La multiforme opera di questo mio connazionale è oggi sostanzialmente sconosciuta, al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati di sottoculture, esili come cannucce. Botanici di Gotland, coltivatori di fichi, classificatori di lombrichi, studiosi dei maya, mistici del Graal, vinicoltori, storici dei parchi nazionali, esperti di vetro, alpinisti, teosofi, collezionisti di sigilli a cilindro, coltivatori di uva sultanina, appassionati di Strindberg e diversi altri tipi di fanatici, compresi i collezionisti di libri religiosi e qualche altro. E, a quanto ne so, non c'è alcun contatto tra loro. Ognuno ha il suo proprio Eisen, spesso esclusivamente sotto forma di nome riportato in corpo minuscolo in una nota a piè di pagina, che nessuno vede e tanto meno legge. Chi fosse non lo sa più nessuno. È quindi del tutto naturale che all'inizio mi fossi un po' spaventato, e anche depresso. Pover'uomo. È questo che succede? Il Santo Graal! Ci credeva davvero? Era ammattito? O non era ammattito affatto? Mi portai le mani alla fronte. | << | < | > | >> |Pagina 536. Notizie dal club della CalliceraC'era qualcosa che volevo capire e raccontare, anche se non necessariamente in quest'ordine. Sì, sul serio. A volte ci sono arrivato molto vicino, ma proprio quando la risposta sembrava a portata di mano mi si sottraeva. Era come se vedessi le falde del suo cappotto svolazzare da lontano e poi sparire dietro un angolo. In altre occasioni mi dicevo che la questione di cosa si dovesse capire, e perché, era in un certo senso superflua. L'importante era riconoscere una traccia promettente e seguirla per vedere a cosa avrebbe portato. Il mio primo tentativo è nato dalla convinzione che in questo mondo ci sono molte cose incomprensibili, ma che è tuttavia possibile trovare un senso se si riesce a limitare la propria ricerca, per esempio andandosi a stabilire su un'isola e mettendosi a collezionare mosche, sirfidi, e non negherò che durante quella spedizione parecchie scoperte mi hanno dato una grande soddisfazione, tuttavia devo anche ammettere che qualcosa è andato storto quando la solitudine mi ha spinto tra le braccia di René Malaise (1892-1978), l'uomo che diede il suo nome a una trappola per mosche. In realtà non l'ho mai incontrato di persona, ma è stato comunque il mio compagno di viaggio e in molte notti memorabili mi ha intrattenuto con le storie della sua giovinezza, quando faceva ricerche sugli imenotteri e per sopravvivere nelle vastità deserte della Kamčatka dovette nutrirsi di carne d'orso cotta sottoterra. I terremoti distrussero tutto tranne lui. Ne rimasi un po' innamorato, come ci si può innamorare della propria immagine allo specchio, se non la si osserva con troppa attenzione o per troppo tempo. Malaise era semplicemente irrefrenabile. Le sue avventure si fecero sempre più strane, e quando invecchiando si perse nel mito di Atlantide, l'isola sprofondata nel mare, e allo stesso tempo abbandonò gli insetti per mettersi a collezionare arte antica di scarso valore, io mi ritrovai rispedito alla casella di partenza. Posseggo ancora quel quadro di Rembrandt (a sentire René) che sparì in un furto nella sua villa di Lindingö. È appeso nel mio studio: il piccolo ritratto di un vecchio. Ogni mattina mi rivolge lo stesso sguardo scettico, poi sorveglia distaccato tutto quel che faccio mentre sono alla scrivania. Il suo repertorio è molto limitato, ma almeno non mi risponde quando gli parlo. In seguito decisi di tornare al mio vecchio sogno di scrivere una storia naturale delle notti d'estate. Se non trovavo lì quel che cercavo, non l'avrei mai trovato da nessuna parte. Di questo ero sicuro. Ma solo per un breve periodo. Quel sentimento si dissolse come una di quelle fragili verità che brillano per un attimo nel momento in cui l'insonnia allenta la sua morsa, ma che il mattino successivo, quando rileggiamo l'appunto tracciato mentre eravamo mezzi addormentati, si rivelano vuote e banali come una canzonetta, nel migliore dei casi. Una cupa meditazione sulla brevità e l'insensatezza della vita mi fecero deviare dalla mia strada in compagnia del giustamente dimenticato acquerellista Gunnar Widforss (1879-1934). Una figura un po' patetica che per un bel po' non ebbe il minimo successo. Un uomo gentile e sincero, però, e anche generoso. Cos'altro si può domandare a un compagno di viaggio? Inoltre con il tempo la sua arte migliorò sempre più. Quando morì, in Arizona, gli Stati Uniti erano ormai il suo paese e la sua carriera come pittore di parchi nazionali non era affatto male, nonostante la miseria della depressione, o forse proprio grazie a essa. Diedero il suo nome a una montagna del Grand Canyon: Widforss Point. Quindi andai fin là a godermi un po' il panorama.
Gunnar era in fuga: questa era la mia precisa
impressione. Non riuscii mai a scoprire da che
cosa. Ci trovavamo bene insieme. Non stavo
particolarmente bene nemmeno io in quel periodo. Mi rimisi in sesto, ma in
compenso mi trovai di nuovo solo, a caccia.
La collezione di mosche era ormai quasi completa. | << | < | > | >> |Pagina 76La traduzione comunque fruttò il primo capitale per la nostra nuova casa. Finalmente i tempi erano maturi per un po' di benessere materiale: acqua corrente e posto a sufficienza per i bambini e per i libri. L'epoca della latrina a secco era definitivamente tramontata. Siccome però ci eravamo abituati ad avere humus in quantità praticamente illimitate, non ci procurammo una comune fossa settica a tre camere per lo scarico, ma un avanzato dispositivo di compostaggio che sistemammo in cantina, proprio sotto la stanza da bagno. Non voglio scendere in dettagli, ma in sintesi si trattava di un grande contenitore in plastica in cui un esercito di lombrichi avrebbe prodotto terriccio per la coltivazione dei fiori allo stesso ritmo con cui noi fornivamo la materia prima dal piano superiore.Imparai a questo punto due cose. Come prima cosa capii che l'allevamento dei vermi è diventato un'industria. Il verme per compostaggio famoso in tutto il mondo come Eisenia foetida (il genere Lumbricus ha ben presto mutato il nome in Eisenia) viene allevato in fattorie per vermi, dove si possono ordinare per posta le desiderate quantità di esemplari. Poi, secondo la pubblicità, basta inserire gli animali nel concime — come se fossero software — e sparisce ogni problema al mondo. La seconda cosa che ho imparato è che tutto questo funziona molto di rado, per non dire mai. Dopo tanti sgradevoli anni passati in cantina penso di poter dire con una certa sicurezza che non si arriva da nessuna parte senza una certa ingenuità religiosa, del genere «fanatismo del riciclaggio». Bisogna occuparsi di continuo dei vermi, averci a che fare, altrimenti muoiono. Fedele alle mie abitudini provai comunque a studiare per imparare come trattare questi animaletti, ma i libri che riuscii a procurarmi non fecero che rafforzare il mio sospetto che il moderno compostaggio sia una specie di visione del mondo, e dunque non faccia per me. Adesso abbiamo una fossa settica a tre camere. Un esperto tedesco del ramo, Walter Buch, ha scritto con grande distacco che un tempo si usava macinare lombrichi secchi ricavandone una polvere che veniva poi mescolata alla polvere da sparo per caricare fucili e cannoni: si riteneva che aumentasse la possibilità di colpire il bersaglio. Funzionava di sicuro, bastava crederci. Forse sono ingiusto, ma ho l'impressione che vada più o meno allo stesso modo con i vermi negli scarichi dei gabinetti. | << | < | > | >> |Pagina 78Gustaf Eisen era un darwinista, uno dei primi nel nostro paese a capire davvero cosa comportava quella teoria. Forse è per questo che raccolse tutto il suo coraggio e spedì il suo trattato sui lombrichi svedesi al maestro, a Down House, fuori Londra. La lettera d'accompagnamento è andata perduta da tempo, ci è però pervenuta la risposta con cui Darwin lo ringrazia, datata 3 dicembre 1871. Una reliquia. Un feticcio. Questa lettera risuonò come un lontano assolo di sassofono in sottofondo a tutti i settant'anni che restavano a Eisen da vivere.Quando il giornalista Erik Wästberg andò a fargli visita in Park Avenue, alla fine degli anni Trenta, parlarono anche di quella lettera. Il vecchio signore nel suo immane appartamento aveva appena finito di raccontare di quando aveva incontrato il re – Carlo XV – e aveva tirato fuori una lettera dell'amico Strindberg, in cui questi gli scriveva: «Gustaf! Tutto quello che hai fatto per me, che il diavolo mi porti se l'hai fatto per niente...» Poi tirò fuori un'altra lettera e si mise a raccontare di Charles Darwin. Wästberg scrisse un articolo su Eisen che pubblicò sul Vecko-Journalen subito prima della guerra, quando ormai si potevano tirare le fila della sua vita, e non c'è dubbio che la lettera di Darwin era stata come una jazz session con Charlie Parker. Il vecchio ne andava ancora fiero, benché la lettera contenesse poco più di un breve saluto. Darwin era rimasto impressionato sia dalle tavole a colori – dipinte dallo stesso Eisen – sia dalle dettagliate osservazioni sulla diffusione e le abitudini degli animali, che si era fatto tradurre in inglese. Anch'io, scrive Darwin, mi occupo un po' di lombrichi. | << | < | > | >> |Pagina 899. Un ragazzo fortunatoTra tutti i libri di Darwin, quello che io metto al primo posto è The Formation of Vegetable Mould Through the Action of Worms, with Observations on their Habits. Un classico tra i trattati di biologia. Venne pubblicato nel 1881 e fu l'ultima cosa che scrisse. The Origin of Species (1859) fece epoca, naturalmente, ed è stato uno dei libri più influenti della storia, imperituro come una roccia, ma Worms è più bello: è sia acuto che pieno di speranza, come è stato detto una volta di Thoreau. Abbiamo qui un uomo che ha raggiunto tutti i suoi obiettivi. Già in gioventù aveva visto il mondo nel suo lungo viaggio, e ora il mondo ha visto lui. Ancora i potenti della Chiesa oppongono resistenza e denigrano pubblicamente il suo libro, ma lui sa chi vincerà alla lunga. Delle discussioni si cura sempre meno. È stanco delle polemiche, e nessuno potrebbe portare il peso di un onore ancora più grande, lui meno che mai. Ha lo stomaco in disordine, come al solito. E così si ritira; coltiva il proprio giardino e scrive il libro sui lombrichi cui ha pensato per almeno metà della sua vita. Finalmente torna a fare il biologo sul campo. Credo che la chiave del libro si trovi in una lettera. Naturalmente c'è più di una chiave, o forse non ce n'è nessuna, ma la mia lettura è stata illuminata da un consiglio che Darwin diede una volta al figlio George che, nel suo zelo giovanile, aveva scritto un attacco alla religione e aveva chiesto al celebre padre di leggerlo con occhio critico prima di pubblicarlo. Rifletti, scriveva Darwin nella sua risposta. Metti da parte il tuo pamphlet e aspetta un po'. Criticare la Chiesa attaccandola direttamente non porterà ad alcun risultato durevole. È come versare acqua su un'oca. Non c'è riuscito nemmeno Voltaire, con la sua penna affilata. E citando John Stuart Mill e Charles Lyell aggiungeva che tanto valeva lasciar perdere. O almeno, raccomandava al figlio, ci si deve limitare, come si dice, a «slow & silent ride attacks». Un'attività di erosione sotterranea, semplicemente. Come i lombrichi. Costruiscono la terra dal basso, letteralmente, in silenzio e con ostinazione, di notte. Il bello è che si può benissimo leggere il libro come pura scienza, scritto senza altro scopo che quello di ricercare la conoscenza e passare il tempo ormai limitato che gli restava. Lo studio paziente dell'indaffararsi dei lombrichi nel prato mi sembra assolutamente adatto a un uomo della sua età e nella sua situazione. Passeggia sui sentieri di ghiaia come un vecchio guru e rimugina su qualcosa di insignificante. Cosa possiamo dire dell'intelligenza dei lombrichi? Lui indaga. Procede lentamente perché, come abbiamo detto, è vecchio, ma nonostante tutto riesce a dimostrare che hanno un'intelligenza superiore a quella che ci si potrebbe immaginare. Però sono totalmente sordi. Riesce a stabilire anche questo grazie a una famosa serie di esperimenti. Non posso fare a meno di vedermelo davanti come in un cortometraggio. L'esposizione del risultato dovrebbe essere scritta a lettere d'oro sopra l'ingresso di ogni laboratorio di ricerca. Ai vermi manca il senso dell'udito. Non hanno reagito in alcun modo alle note penetranti di un fischietto suonato più volte a breve distanza e nemmeno ai toni più bassi e potenti di un fagotto. Sono rimasti indifferenti alle urla, se si badava che non venissero toccati dall'alito. Quando sono stati posti su un tavolo, accanto alla tastiera di un pianoforte suonato con tutta la forza possibile, si sono mantenuti assolutamente calmi. C'è da chiedersi quale pezzo venisse suonato. In ogni caso deve essere stata Emma, la moglie di Darwin, a sedersi al piano e pestare i tasti fino a far tremare la casa. Sussurri e grida era sicuramente in grado di produrli da solo, probabilmente anche un po' di umpa-umpa con il fagotto, non aveva però molto orecchio e gli mancava completamente il senso del ritmo, anche del più semplice. Il piano dunque lo lasciava a Emma che in giovinezza, a Parigi, aveva studiato con Frédéric Chopin. Insomma, la dissertazione di Eisen sui lombrichi scandinavi gli tornava utile. Darwin fa riferimento a questo lavoro già nella prima pagina del primo capitolo del libro, e poi molte altre volte qua e là, il che deve essere stato per Eisen un onore e un gradito riconoscimento, sia formalmente che da un punto di vista scientifico, di ben maggior peso della lettera che aveva ricevuto a Uppsala dieci anni prima. E in quel periodo aveva davvero bisogno di un po' di incoraggiamento. Eisen in effetti aveva sfortuna. Non solo aveva perso i genitori, presto avrebbe perso anche il suo patrimonio. Poi quasi tutto. | << | < | > | >> |Pagina 102Friedrich Ratzel (1844-1904) è un grande della storia della scienza. Diversi suoi libri si leggono ancora oggi e il suo nome è rispettato da tutti coloro che si occupano di geografia culturale. Proprio il fatto che avesse incominciato come biologo per poi interessarsi ad altro conferiva alle sue teorie una solidità e un carattere del tutto particolari, anche se pure questo aveva i suoi rischi.I titoli dei suoi primi tre libri ci dicono qualcosa sul suo percorso: Wandertage eines Naturforschers (I giorni di pellegrinaggio di un naturalista, 1873), Die Vorgeschichte des europäischen Menschen (La preistoria dell'uomo europeo, 1874) e Städte- und Kulturbilder aus Nordamerika (Immagini delle città e della cultura del Nordamerica, 1876). Cioè, più o meno: un giovane uomo si mette a girare il mondo per scavare vermi e scrivere sulla natura, viene così a interessarsi della preistoria dell'uomo europeo e poi, non ancora trentenne, attraversa l'Atlantico con l'intenzione di scrivere dei fenomeni culturali negli Stati Uniti, con particolare attenzione all'urbanistica. E poi continuò a farlo per tutta la vita. La sua produzione è enorme. Il libro sulle città americane che stava scrivendo al momento in cui la sua strada e quella di Eisen si incrociarono venne tradotto in inglese solo nel 1988 ed è una miniera d'oro per chi vuole capire gli americani e le loro metropoli ben funzionanti, ma spesso piuttosto noiose. Molti anni più tardi, quando Ratzel era professore a Lipsia, escogitò un concetto – niente più di una parola – che immeritatamente macchiò la sua reputazione: Lebensraum, «spazio vitale». Una sfortuna. Non era colpa sua se altri, molto dopo la sua morte, avrebbero sfruttato questo concetto che, inizialmente, si riferiva ai vegetali, agli animali e alla loro diffusione, non alla geopolitica. Se solo avesse potuto immaginare a cosa avrebbe portato, probabilmente avrebbe continuato a occuparsi di vermi. | << | < | > | >> |Pagina 104Il racconto però è sicuramente interessante. Per qualche mese dell'estate del 1874 attraversano la pianura arida, simile a una steppa, e salgono poi inoltrandosi nei boschi inaccessibili della Sierra Nevada. Viaggiano prima in diligenza, poi a piedi e infine noleggiano dei cavalli. Tutto viene descritto fin nei minimi dettagli, animali, vegetazione, l'ambiente naturale in generale, ma anche mille altre cose: aneddoti storici, ritratti di cercatori d'oro e riflessioni darwiniane. Ratzel attacca a Eisen anche il proprio interesse per le città, come dimostra la descrizione di Merced:In America le città non nascono per regio decreto come da noi, ma in modo molto più semplice. Un uomo intraprendente costruisce una pompa e, vicino alla pompa, un albergo. Una dozzina di osterie e dry goods store aprono rapidamente lì intorno ed ecco che la città è nata. Emigranti e cercatori d'oro sfortunati vi si trasferiscono, bevono, giocano a carte, litigano e cianciano di politica. La comunità fiorisce! Tutti cercano di guadagnare quanto più denaro possibile nel più breve tempo possibile per poi tornare a casa con le tasche piene di soldi e mettersi a fare i signori. La fortuna però non è benevola come si pensava, la cassa non aumenta alla velocità auspicata. Qualcuno dei cittadini comincia a stancarsi della vita da scapolo e, dato che casualmente c'è una donna lì nelle vicinanze, niente impedisce un matrimonio. La signora X è la regina della città e contribuisce al dirozzamento della società. Cinesi cominciano ad affluire da tutte le parti, vivono nelle baracche, lavano e stirano, blaterano e strillano, per farla breve: alla nuova comunità non manca niente e può ora definirsi con fierezza una località importante della grande Repubblica. Un posto del genere era Merced. Questo è solo uno dei molti passi del racconto in cui Eisen illustra il rapporto malsano che gli americani intrattengono con il denaro. Tutto il feuilleton è pervaso di conoscenze biologiche di alto livello e dell'amicizia tra due giovani uomini destinati a diventare famosi, ma è soprattutto nella sua descrizione dell'avidità di guadagno che lo scrittore appare a figura intera, come il figlio piuttosto benestante di un grossista con buone prospettive di successo nel mondo accademico. «La vita semicivilizzata dell'America, del resto, non mi piace. Niente arte, niente poesia, niente ricordi (e questi sono a volte la cosa migliore) e perfino niente libertà, solo la vuota realtà di conflitti, liti e dollari. Bisogna immergersi nella natura per sentirsi a casa.» | << | < | > | >> |Pagina 116Anche il collezionismo trovò nuove strade, come sempre. Eisen piantò un roseto che finì per contenere centoquaranta specie diverse, aveva inoltre un museo zoologico privato con lucertole, serpenti, rane, mammiferi e tutto il possibile. Nelle lettere a Stuxberg racconta come coltiva banane, olive, cotone, orchidee e narcisi. Importava vitigni da tutto il mondo, dichiarava di avere cento varietà di viti diverse.Sperimentava in continuazione, all'inizio soprattutto con il tabacco: sembrava un settore promettente. Insieme a un cognato ne piantò dieci ettari, il clima però era troppo secco e i profitti non arrivarono. Andò meglio con l'uva sultanina. L'idea gliela diede un amico di Fresno, un prete cattolico inglese di nome John Bleasdale. La sua storia, in sintesi, è questa: aveva passato molti anni in Australia dove aveva tranquillamente svolto le attività di sacerdote, membro corrispondente della Linnean Society e coltivatore di diversi tipi di viti, poi però le autorità ecclesiastiche del paese – il lungo braccio della curia, presumibilmente – fecero in modo che fosse deportato in California perché padre Bleasdale, nelle sue ore di libertà, aveva l'abitudine di sbevazzare abbondantemente con l'arcivescovo di Melbourne, che aveva qualche problema con l'alcol. Fu così che si ritrovò a Fresno, e su suo consiglio Eisen cominciò a importare dall'Australia vitigni adatti alla produzione di uva passa. La prima uva sultanina coltivata a scopi commerciali nella San Joaquin Valley proveniva dalle sue vigne. Sembra un colpo di fortuna, ma in realtà era piuttosto il risultato della curiosità e della formazione scientifica di Eisen. I rovesci all'inizio furono molti, come con il tabacco, ma lui non demorse e si risollevò con il duro lavoro. Dopo qualche anno si comprò del terreno a Fresno, costruì un vivaio – Fancer Creek Nursery – e nel corso degli anni Ottanta dell'Ottocento diventò una figura di riferimento nell'ambito dell'agricoltura californiana. Per molti anni tenne rubriche di giardinaggio su giornali e riviste e scrisse varie centinaia di articoli. Avrebbe potuto sparire a questo punto, come un qualsiasi emigrato, ma aveva progetti più ambiziosi di quelli di un semplice agricoltore. Forse voleva diventare famoso, non so, o forse era solo un'inquietudine del corpo che lo spingeva sempre più avanti. Già all'inizio degli anni Ottanta cominciò a intraprendere lunghi viaggi, la prima volta in Guatemala, e il coltivatore in lui si trasformò di anno in anno sempre più in un teorico. Nessuno ne sapeva più di lui sulla coltivazione dell'uva sultanina, nessuno in tutto il mondo, ma invece di fermarsi e diventare il ricco re dell'uva passa vendette il terreno e raccolse tutto il suo sapere in The Raisin Industry (1890), un libro che tratta veramente di tutto, dalla storia culturale dell'uva passa e dalle testimonianze letterarie (nell'Enrico IV di Shakespeare) fino alla ricetta della marmellata di uvetta. In seguito replicò l'impresa con un altro libro, questa volta sulla coltivazione dei fichi – The Fig (1901) – ma stiamo di nuovo precorrendo i tempi. O forse no. | << | < | > | >> |Pagina 152Ancora oggi, a tre decenni di distanza, le torri per il birdwatching del nostro paese sono popolate soprattutto da ragazzi, giovani e vecchi, ma nel frattempo la quantità di ornitologhe si è moltiplicata. Questo ambiente, in precedenza quasi cattolico nel suo esclusivismo maschile monosessuato, è diventato così molto più piacevole da frequentare. Potessi dire lo stesso del collezionismo di mosche! Non c'è niente che non vada nei pochi che le collezionano, assolutamente niente, solo che sono tutti maschi. In questo senso siamo ancora nell'Ottocento.C'è qualcosa nella combinazione di insetti e collezionismo che spaventa le donne. Non credo che sia colpa degli insetti, e in realtà nemmeno del collezionismo, della bottonologia in sé, ma proprio della loro combinazione. O forse, semplicemente, le donne hanno buon fiuto e percepiscono subito l'odore dei secoli passati e di uomini meritatamente soli, più interessati al punch che alla poesia. Non sono più la maggioranza, ma esistono ancora. Sarebbe stupido negarlo. C'è una storia, comica e tragica allo stesso tempo, che rappresenta questo tipo di maschi. O può rappresentarli. Non si deve per forza raccontarla così. Può anche essere intesa come pendant del nostro precedente discorso su come i nomi latini assegnati agli animali inferiori perpetuino la memoria di qualcuno. Può infatti accadere anche il contrario. Un nome umano può rendere un insetto così famoso e ricercato che la specie viene cacciata fino al limite dell'estinzione. Parliamo dunque un momento del raro coleottero Anophthalmus hitleri. Un nome è per sempre. Se tutto è stato fatto come si deve fin dall'inizio, poi non lo si può più cambiare. Da questo punto di vista le regole internazionali sono molto rigorose. A qualsiasi cosa si può dare il nome di chiunque. In realtà sono solo i nomi delle divinità o di figure equivalenti all'interno delle religioni organizzate a non venire accettati. Ed è comprensibile. Una piattola con il nome del profeta sbagliato potrebbe essere un incubo. I nomi dei politici invece vanno benissimo, e così accadde che a un entomologo tedesco, un bel giorno del 1933, in Slovenia, venne in mente di dare a un coleottero fino ad allora sconosciuto il nome di Adolf Hitler. Come omaggio. Il coleottero, a dire il vero, era cieco: un carabide color bruno chiaro, poco più grande di una formica, che si dimostrò vivere nelle tenebre perpetue, nel profondo delle intricate grotte calcaree delle montagne slovene. Comunque era un omaggio, e pare che il Führer ne sia stato molto lusingato. Bene, la storia potrebbe chiudersi qui. Una curiosità. Ma c'è il problema degli uomini soli che collezionano cose strane. L' Anophthalmus hitleri è attualmente a rischio di estinzione per la semplice ragione che bracconieri privi di scrupoli, che si trascinano in quel buio sistema di grotte armati di lampada frontale e pinzette, sono capaci di venderne ogni esemplare, morto e infilato su uno spillo, a prezzi che possono raggiungere i mille euro a quel genere di feticisti che dedicano tutta la loro vita a rimpiangere i tempi andati e a collezionare baionette delle SS e altre reliquie di un periodo in cui l'intero continente era avvolto nelle tenebre. Siamo arrivati al punto che le autorità slovene hanno cominciato a mettere guardie armate a sorvegliare l'imboccatura delle grotte. Ecco. | << | < | > | >> |Pagina 212[...] Per buffo che possa sembrare, íl risultato dell'incontro fu che mi chiesero di esporre le mie mosche a Venezia. Ora, mentre scrivo, si trovano lì, c'è tutta quanta la compagnia: la prova definitiva e ai miei occhi più bella che l'arte contemporanea internazionale è finita, è completamente allo sfascio.Tuttavia non esitai nemmeno un secondo. La mia collezione di mosche – custodita in 144 teche di plastica, a loro volta inserite in nove casse d'alluminio con coperchi di vetro – vale davvero la pena di essere vista. Forse non è arte, ma a differenza di tutte le mie altre opere (e intendo davvero tutte, a partire dal mio primo articolo, pubblicato a diciassette anni sul Västerviks-Tidningen, su una quercia pluricentenaria cava come una botte che uomini dell'azienda elettrica privi di qualsiasi cultura abbatterono nei pressi del Canale di Gränsö), a differenza dei libri e di tutto il resto, la collezione è nata senza altra intenzione che di divertirmi. Da questo punto di vista la collezione di mosche è un concentrato di felicità spensierata. Se ha qualcosa da dire, è che la libertà ha inizio quando si fa un passo di lato e, magari solo per un attimo, ci si occupa di qualcosa che è fine a se stesso, che non ha a che fare con una vana ricerca di rispetto, stima, potere, denaro, amore, fama... gloria. Sono andate lì anche le mie Callicera, anche se ormai colleziono solo queste mosche. Non mi sembrava giusto tenermele a casa, visto che tutte le altre sarebbero andate in gita a Venezia. O tutte o nessuna. Mi ritrovai perfino, inaspettatamente, a comprendere il linguaggio formale dei simbolisti quando, in una nuvolosa giornata di marzo, con la neve che si stendeva come fanghiglia bruna sulla strada, scesi la strada fin giù all'imbarcadero trasportando in carriola la mia collezione per spedirla sulla terraferma, al mio amico falegname, quello che una volta fece una ricognizione di tutti gli insetti che si trovavano sul ceppo di un albero isolato in una radura e si conquistò così anche un po' di fama. Ora doveva comporre le casse tre a tre, formando così un trittico lungo parecchi metri da appendere alla parete della Biennale. Mi sembrava di vedere me stesso dall'alto, sulla strada, nella fanghiglia. Le casse erano pesanti. Il battello aspettava. Assicurate per un valore superiore alla cifra che mi era costata la casa sull'isola, si mettevano in viaggio verso sud. Forse non le avrei mai più riviste. Non partecipai all'inaugurazione. Non sopporto troppa attenzione. E nemmeno lo champagne, del resto. I miei emissari mi hanno comunque raccontato come è andata quando la regina Sonja di Norvegia ha aperto la mostra tra un brulichio di giornalisti di tutto il mondo, mentre le mosche sembravano mettersi in posa e darsi un po' di arie lì nelle loro casse. Devono rimanere esposte per sei mesi. Quando la mostra chiuderà, a novembre, non ci sarà mosca al mondo – nessuna, credetemi – che sia stata più vicina di loro a così tante belle donne. Be', sì, anche agli uomini, si capisce. I curatori della mostra non fanno mistero che il padiglione nordico, quest'anno, è soprattutto roba per maschi, e apertamente omoerotico. Accanto alle mie mosche, per esempio, è appesa tutta una serie di opere dell'indecente artista Touko Laaksonen (1920-1991), alias Tom of Finland, che per tutta la sua carriera ha continuato a disegnare marinai e agenti di polizia con avambracci muscolosi e organi sessuali almeno altrettanto voluminosi. L'arte contemporanea deve provocare. Deve essere una sfida. O almeno dovrebbe esserlo. Anche questo passerà presto, si spera. Mi viene ora in mente che una volta, negli anni Ottanta, c'era un gruppo punk, a Göteborg, che si chiamava I cazzi di sbirro tatuati. La loro musica era più o meno quella che ci si può immaginare. Non un granché. Tutto quello che avevano di buono era il nome, un tesoro per chiunque fosse almeno un po' interessato alle possibilità del linguaggio. Presumibilmente era stato pensato come provocazione. Ma non funzionava, in primo luogo perché già allora la provocazione come mezzo artistico era stata istituzionalizzata e perfino imposta dall'accademia. Siamo ormai arrivati al punto che le provocazioni artistiche e le sfide obbligatorie ai tabù sono diventate una specie di consolazione per tutti quelli che non riescono a seguire una propria strada, o non osano. Non è difficile spingere alla riflessione. Ci riescono anche le anime semplici, e perfino i pubblicitari. Ma la bellezza, invece. Avvicinarsi a quella, oggi, se si è un artista con ambizioni che vadano oltre il ristretto ambito locale, richiede spesso un coraggio di cui gli arroganti, trasgressivi, sarcastici provocatori non hanno nemmeno idea.
Se si appendono mosche a Venezia la fine è vicina, molto vicina.
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