Copertina
Autore Peter Sloterdijk
Titolo Sfere I
Sottotitolovol I. Microsferologia - Bolle
EdizioneMeltemi, Roma, 2009, Biblioteca 41 , pag. 576, ill., cop.fle., dim. 14,5x21x4 cm , Isbn 978-88-8353-633-5
OriginaleSphδren I. Blasen
EdizioneSuhrkamp, Frankfurt am Main, 1998
CuratoreGianluca Bonaiuti
PrefazioneBruno Accarino
TraduttoreGianluca Bonaiuti
LettoreGiorgia Pezzali, 2009
Classe filosofia , psicologia
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Indice


  7 Introduzione all'edizione italiana
    Peter Sloterdijk filosofo dell'estasi
    Bruno Accarino


    Bolle

 69 Premessa

 73 Introduzione
    Gli alleati ovvero: La comune soffiata

127 Riflessione preliminare
    Pensare lo spazio interno


141 Capitolo primo
    Operazione cardiaca ovvero: Dell'eccesso eucaristico


173 Capitolo secondo
    Tra i volti.
    A proposito dell'apparizione della sfera intima interfacciale


227 Capitolo terzo
    Uomini nel cerchio magico.
    Per una storia delle idee di fascinazione della vicinanza

272 Excursus I
    Transfert di pensieri


277 Capitolo quarto
    La clausura nella madre.
    Per il fondamento di una ginecologia negativa

294 Excursus 2
    Noggetti e non-relazioni.
    Per una revisione della teoria psicoanalitica delle fasi

318 Excursus 3
    Il principio uovo.
    Interiorizzazione e involucro

325 Excursus 4
    "L'Esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza".
    La teoria heideggeriana del luogo esistenziale


333 Capitolo quinto
    L'accompagnatore originario.
    Requiem per un organo respinto

377 Excursus 5
    La piantagione nera.
    Nota sugli alberi della vita e le macchine di animazione


391 Capitolo sesto
    Il condivisore dello spazio dell'anima.
    Angelo — Gemello — Doppio

426 Excursus 6
    Il lutto delle sfere.
    Sulla perdita del noggetto e la difficoltà di dire ciò che manca

436 Excursus 7
    Sulla differenza tra un idiota e un angelo


443 Capitolo settimo
    Lo stadio delle sirene.
    Sulla prima alleanza sonosferica

478 Excursus 8
    Verità di analfabeti.
    Nota sul fondamentalismo orale

486 Excursus 9
    Da dove Lacan inizia a sbagliare


491 Capitolo ottavo
    Più vicino a me di me stesso.
    Scuola teologica preparatoria alla teoria dell'interno comune

553 Excursus 10
    Matris in gremio.
    Un capriccio mariologico


559 Passaggio
    Sull'immanenza estatica

565 Bibliografia


 

 

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Pagina 69

Premessa


Secondo la tradizione Platone avrebbe affisso all'ingresso della sua Accademia un cartello in cui si pregava chi non fosse stato esperto di geometria di non avvicinarsi al luogo. Segno di arroganza? Dichiarazione di guerra all'intelletto volgare? Certo, non è per un caso che l'Accademia ha inventato una nuova forma di elitismo. Per un istante sbalorditivo, scuola e avanguardia hanno coinciso. L'avanguardismo è la competenza che permette di obbligare tutti i membri di una società ad adottare una decisione su una proposta che non proviene da essa. Socrate è stato il primo a prendere sul serio questo gioco, e Platone, con la fondazione della sua scuola, ha portato avanti la provocazione filosofica elevando al rango di forza maggiore l'obbligo di scegliere tra sapere e non-sapere. Quando Platone escludeva la plebe ageometrica, ammettendo solo quei candidati che avessero competenze adeguate, provocava i mortali, nel loro insieme, a qualificarsi dando prova di disporre delle qualità necessarie per accedere alla sua comunità di ricerca. Viene da pensare: che cos'era un uomo all'epoca dell'Accademia se non un mammifero smemorato che di norma non sapeva nemmeno di essere un esperto di geometria sulla base della sua stessa anima? Cos'è, in effetti, un esperto di geometria? – Un'intelligenza che promana dal regno dei morti, portando nella vita vaghi ricordi di un soggiorno in una sfera perfetta. La filosofia con effetti esoterici parte scindendo la società tra quelli che si ricordano e quelli che non si ricordano e, di più ancora, tra chi ricorda una determinata cosa e chi ricorda altro. Queste sono le cose di cui si è occupata sino a oggi, anche se i criteri di divisione sono divenuti più complessi.

Come qualsiasi autore che abbia superato la magia di questo stadio iniziale, sono cosciente dell'impossibilità di fissare in anticipo, e in prospettiva, l'uso che la comunità alfabetizzata fa dei testi pubblicati. Non mi sembra meno rilevante, però, sottolineare il fatto che la migliore lettura dei testi che seguono – a grandi linee – sarà quella di una radicalizzazione dei testi di Platone. Io non affiggerei la frase di Platone semplicemente all'ingresso di un'Accademia, ma davanti alla porta della vita in generale – se non fosse illecito ornare con manifesti di avvertimento la via d'accesso, piuttosto stretta, alla luce del mondo... Siamo entrati nella vita senza frequentare preliminarmente una scuola preparatoria di geometria, e nessuna filosofia potrà sottometterci ex post a un esame di ammissione. Ma ciò non muta affatto il mandato esclusivo della filosofia: giacché non possiamo semplicemente scartare la supposizione secondo la quale il mondo ci è dato per le vie traverse di pregiudizi geometrici innati. Non potremmo considerare la vita come un costante interrogarsi, formulato ex post, sulle conoscenze che si hanno dello spazio da cui tutto discende? E la scissione della società tra coloro che sanno qualcosa e chi di quel qualcosa non sa nulla non è più profonda oggi che in qualsiasi altro tempo?

L'idea che la vita sia questione di forma: ecco la tesi che associamo alla vecchia e rispettabile espressione sfera, mutuata da filosofi e matematici. Essa suggerisce che la vita, la costituzione di sfere e il pensiero siano espressioni diverse per designare un'unica e identica cosa. In questa misura, il riferimento a una geometria sferica vitale non ha senso se non ammettendo l'esistenza di una sorta di teoria che sappia sulla vita più della vita stessa – e che ovunque la vita umana si trovi, sia essa nomade o sedentaria, nascano dei globi abitati, itineranti o fissi, che, da un certo punto di vista, sono più rotondi di tutto ciò che possa essere tracciato con cerchi. I libri che seguono saranno consacrati al tentativo di esplorare le possibilità e le frontiere del vitalismo geometrico.

Si tratta di una configurazione un po' eccentrica della teoria e della vita, ammettiamolo. L' hybris di questo approccio sarà probabilmente più sopportabile – o perlomeno più comprensibile – se ricordiamo che all'ingresso dell'Accademia si trovava anche una seconda iscrizione, occulta e umoristica: era escluso da questo luogo chiunque non fosse disposto a coinvolgersi in avventure amorose con altri visitatori del giardino dei teorici. Θ chiaro: questa massima, come l'altra, deve essere trasposta alla vita nel suo insieme. Chi non vuole sentir parlare di formazione della sfera deve stare lontano dai drammi amorosi — e colui che cambia lato del marciapiede quando incrocia Eros si esclude a priori dagli sforzi per penetrare la forma vitale. La hybris cambia così campo. L'esclusività della filosofia non esprime la propria arroganza; essa discende dall'autosoddisfazione di coloro i quali sono certi che le cose possano funzionare anche senza il pensiero filosofico. Nel momento in cui la filosofia è esclusiva, essa rispecchia l'autoesclusione dei più da ciò che è migliore — ma, esagerando la scissione che c'è nella società, essa fa prendere coscienza delle esclusioni sottomettendole ancora una volta al voto. L'esagerazione filosofica genera l'opportunità di riesaminare scelte già fatte e di pronunciarsi contro l'esclusione. Θ per questa ragione che la filosofia, quando si trova sul terreno che le compete, è sempre anche una forma di reclutamento per se stessa. Se altri dovessero scoprire un diverso polo di eccellenza — producendo, per tal via, qualcosa di convincente — ben venga.

Il presente saggio — è sotto gli occhi di tutti — ammette di risentire di una problematica platonica, ma non si riconosce nel platonismo — nella misura in cui con ciò si intenda la somma delle cattive letture che attraverso diverse epoche hanno tenuto vivo il dibattito sul fondatore dell'Accademia ateniese, incluso l'antiplatonismo da Kant a Heidegger e ai loro successori. Resterò sulle tracce di indicazioni platoniche solo nella misura in cui svilupperò in modo più ostinato di quanto non sia consueto la tesi secondo la quale le storie d'amore sono storie di forme, essendo ogni unione una costituzione di sfere, cioè creazione di spazio interno.

Le eccedenze del primo amore che si distacca dalla sua origine per prolungarsi altrove, in liberi reinizi, alimentano anche il pensiero filosofico, di cui bisogna innanzitutto sapere che si tratta di un caso di amore per transfert per il tutto. Nel dibattito intellettuale contemporaneo siamo purtroppo abituati all'idea di considerare il transfert amoroso un meccanismo nevrotico, responsabile del fatto che le passioni autentiche siano quelle che maggiormente risentono di un cattivo indirizzo. Niente ha causato tanti danni al pensiero filosofico quanto questa penosa riduzione dei motivi che, a torto o a ragione, si rifanno al modello psicoanalitico. Al contrario bisogna affermare che il transfert è la fonte formale di quei processi creativi che animano l'esodo dell'essere umano verso lo spazio aperto. Noi non trasferiamo tanto degli affetti incorreggibili su terzi, quanto esperienze precoci di spazio su nuovi luoghi, e movimenti primari su teatri lontani. Le frontiere della mia capacità di transfert sono le frontiere del mio universo.

Se dunque dovessi apporre la mia insegna all'ingresso di questa trilogia, vi si leggerebbe: "Possa tenersi lontano da questi luoghi colui che non abbia la volontà di lodare il transfert e di rifiutare la solitudine".

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Pagina 73

Introduzione

Gli alleati ovvero: La comune soffiata


Il bambino cui è stato fatto il regalo sta sul balcone, febbrile, e segue con lo sguardo le bolle di sapone che soffia nel cielo a partire dall'anello che tiene davanti alla bocca. Ecco che uno sciame di piccole bolle sprizza verso l'alto, la sua allegria caotica ricorda quella di un lanciatore di biglie madreperlate. In seguito, dopo un ulteriore tentativo, è una grossa bolla ovale che si stacca dal piccolo cerchio, tremula, piena di vita, ansiosa: la brezza la trasporta ed essa discende, planando, nella via. Il bambino incantato la segue. Egli stesso si eleva nello spazio con la sua bolla miracolosa, come se, in pochi attimi, il suo destino si fosse legato a quello di questa struttura nervosa. Quando, infine, la bolla scoppia, dopo un volo languido e tremolante, l'artista della bolla di sapone, dal suo balcone, emette un suono che è, al contempo, sospiro e grido di giubilo. Nel lasso di tempo in cui la bolla ha vissuto, colui che l'ha gonfiata [Blδser] è fuori di sé, come se l'esistenza della bolla fosse dipesa dal rimanere avvolta da un'attenzione che ne accompagnava il volo. Se si fosse mancato di accompagnarla, di tremare e sperare con essa, questa cosa scintillante sarebbe stata condannata a un fallimento prematuro. Anche se, immersa nell'entusiastica attenzione del suo creatore, essa fosse autorizzata ad attraversare lo spazio, planando per un istante meraviglioso, essa sarebbe comunque condannata, in fin dei conti, a dissolversi nel nulla. Nel luogo in cui è scoppiata, l'anima del creatore, dopo essere uscita dal corpo della bolla, è rimasta sola per un breve istante, come se bolla e anima fossero partite per una spedizione comune — la seconda perdendo la sua compagna a metà strada. Ma alla malinconia è concesso appena un attimo; in seguito, la gioia del gioco riaffiora, con la crudele progressione che il bambino conosce ormai bene. Che cosa sono le speranze che esplodono, se non inviti a nuovi tentativi? Il gioco si prolunga, instancabilmente: nuovamente i globi discendono dall'alto e, di nuovo, il loro creatore [Blδser] assiste con gioia attenta le sue opere d'arte nel loro volo attraverso il tenero spazio. Al culmine dell'azione, quando il creatore di bolle [Blδser] è infatuato dei suoi globi come se si trattasse di miracoli da lui compiuti, le bolle di sapone, che si gonfiano e si allontanano, non corrono alcun rischio di sparire, perché nessuno le accompagna incantato. L'attenzione del piccolo mago vola lontano sulle loro tracce e sostiene le pareti sottili del corpo insufflato con la sua entusiastica cura. Tra la bolla di sapone e il suo creatore regna una solidarietà che esclude il resto del mondo. E non appena le strutture scintillanti si allontanano, il piccolo artista si stacca sempre, e nuovamente, dal suo corpo sul balcone, per seguire la totalità degli oggetti che pone in essere. Nell'estasi dell'attenzione, la coscienza infantile è praticamente uscita dalla sua originaria corporeità. Quando l'aria espirata si perde senza lasciare traccia, il soffio inglobato nelle bolle acquisisce una momentanea vita ulteriore. Mentre le bolle si dispongono nello spazio, colui che le ha create è autenticamente fuori di sé – vicino a esse e in esse. Nei globi, il suo soffio si è staccato da lui, è conservato e condotto lontano dalla brezza; allo stesso tempo, il bambino è incantato da se stesso, nella misura in cui si perde nel volo affannato della sua attenzione nello spazio animato. Così, la bolla di sapone diviene per il suo creatore il medium di una sorprendente espansione dell'anima. La bolla e il suo creatore esistono insieme in un campo dispiegato grazie a un'attenta partecipazione. Il bambino che segue le bolle di sapone nel campo aperto non è un soggetto cartesiano che rimane fermo al suo pensiero puntuale privo di estensione mentre segue un oggetto esteso nella sua traiettoria attraverso lo spazio. Condotto da un entusiasmo solidale con i suoi globi scintillanti, il giocatore che vive l'esperienza si precipita nello spazio aperto e trasforma in una sfera animata la zona situata tra occhio e oggetto. Tutto vista e attenzione, il viso infantile si apre allo spazio di fronte a lui. Impercettibilmente, il giocatore si apre a sua volta, nel suo felice divertimento, a una consapevolezza che più tardi, nelle pene della scuola, dimenticherà: il fatto che lo spirito, a suo modo, è esso stesso nello spazio. O, per meglio dire: ciò che un tempo si chiamava spirito designava immediatamente comunità di spazio elevato? Una volta fatte le prime concessioni a questo tipo di confessioni, si è tentati di continuare a porre interrogativi nella stessa direzione: se il bambino imprime il suo respiro alle bolle di sapone e rimane loro fedele seguendole con sguardo estasiato chi, per primo, ha impresso il suo soffio nel bambino che gioca? Chi rimane fedele a questa giovane vita nel suo esodo fuori dalla camera di bambino? In quali attenzioni, in quali spazi di animazione si trovano i bambini quando la loro vita riesce a produrre sentieri ascensionali? Chi accompagna i ragazzi nel loro cammino verso le cose e la loro quintessenza, nel mondo condiviso? Esiste, dunque, in ogni circostanza, qualcuno di cui i bambini costituiscono l'estasi quando escono planando nello spazio del possibile e continuano la loro opera? E cosa accade a coloro i quali non siano il soffio di nessuno? Tutta la vita che esce dall'ordine e si individualizza rimane generalmente contenuta in un soffio che la accompagna? L'idea che tutto ciò che è là e diviene un soggetto sarà la preoccupazione di qualcuno è legittima? Si conosce, effettivamente, il bisogno — da Schopenhauer qualificato come metafisico — che tutto ciò che appartiene al mondo e allo Stato nel suo complesso sia contenuto in un soffio, come in un senso indelebile. Si può soddisfare questo bisogno? Esso è giustificabile? Chi, per primo, ha concepito l'idea che il mondo non sia, in senso stretto, nient'altro che la bolla di sapone di un soffio globalizzante? Quale essere-fuori-da-sé sarà, allora, tutto ciò che effettivamente è?


Il pensiero della modernità, a lungo presentato con il nome ingenuo di "Illuminismo", e con quello ancora più ingenuo di "progresso", utilizzato come un programma, si distingue per una mobilità essenziale: ogni volta che rispetta il suo modo tipico di avanzare apre un varco dell'intelletto fuori dalle caverne dell'illusione umana, verso un esterno non umano. Non è a caso che la rivoluzione cosmologica, qualificata come copernicana, si situa agli esordi della recente storia della conoscenza e del disinganno. Θ questa rivoluzione che ha fatto perdere agli esseri umani del mondo occidentale il proprio centro cosmologico e, in seguito a tale perdita, ha dato inizio a un'era di decentramenti progressivi. Ormai, gli abitanti della Terra – questi vecchi mortali – hanno perso qualsiasi illusione sulla loro posizione centrale nel girone cosmico – anche se idee di tal fatta si possono appiccicare alla pelle come illusioni innate. Con la tesi eliocentrica di Copernico, l'uomo dà avvio a una serie di uscite esplorative verso l'esterno privo di esseri umani, verso galassie situate a distanze inumane, e verso le componenti più fantomatiche della materia.

Il soffio dell'esterno, con la sua nuova freddezza, è stato avvertito immediatamente, e anche alcuni pionieri della conoscenza sulla Terra nel Cosmo — conoscenza che ha subìto una trasformazione rivoluzionaria — non hanno taciuto il malessere provocato da questa infinità che si chiedeva loro scandalosamente di ammettere; Keplero stesso ha sollevato un'obiezione contro la dottrina dell'universo infinito formulata da Giordano Bruno, argomentando che "questa riflessione, porta in sé non so quale terrore segreto e occulto; in realtà, vaghiamo in questo spazio senza limiti di cui disconosciamo le frontiere, i punti centrali, e, conseguentemente, tutte le specie di luoghi fissi". Alle evasioni più estreme, seguono, nelle sfere interne umane, delle irruzioni del freddo provenienti dai mondi gelati del Cosmo e della tecnica. Dall'inizio della modernità, il mondo umano deve apprendere ogni secolo, ogni decennio, ogni anno, ogni giorno, ad accettare e integrare nuove verità su un esterno che non si rapporta all'essere umano. A partire dal XVII secolo, si propaga — prima tra gli strati europei colti, poi, sempre più, tra le masse bene informate del mondo occidentale — una sensazionale notizia, arrivata dalla psicocosmologia: gli uomini non sono coinvolti nell'evoluzione, questa dea indifferente al divenire.

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Pagina 109

Parlare di sfere non è, dunque, solo sviluppare una teoria dell'intimità simbiotica e del surrealismo delle coppie: per la natura stessa del suo oggetto, la teoria delle sfere nasce certamente come una teoria della costituzione dello spazio a partire da corrispondenze bi-unitarie, ma il suo prolungamento necessario sfocia in una teoria generale dei contenitori autogeni. Questa fornisce la forma astratta di ogni immunologia. Sotto il segno delle sfere si pone, infine, anche la questione della forma delle creazioni politiche dello spazio mondano.

Nel quadro che abbozzeremo qui, la psicologia delle sfere precederà, quindi, la politica delle sfere; la filosofia dell'intimità deve giustificare la morfologia politica, aprirla, accompagnarla, fluttuare sulle sue onde. Una tale successione di termini ha evidentemente carattere illustrativo; ma non è solo questo, essa ha anche un fondamento nella cosa stessa. Ogni vita percorre, al suo inizio, una fase in seno alla quale una dolce follia a due ingloba il mondo. Estasi di cura tessono attorno alle madri e ai bambini una campana d'amore i cui echi continueranno in tutte le circostanze a costituire le condizioni per una vita felice. Molto presto, tuttavia, tutti e due si rapportano a un terzo, un quarto, un quinto; nella misura in cui la vita individualizzante esce dall'involucro iniziale, appaiono poli supplementari e proporzioni geografiche più estese che, ogni volta, definiscono l'ampiezza di relazioni, preoccupazioni, partecipazioni crescenti e adulte. Nelle sfere divenute grandi entrano in gioco forze che attirano l'individuo in una follia condivisa da milioni di persone. Sembra impossibile vivere in grandi società senza condividere, almeno per un attimo, il delirio della propria tribù. La sferologia vede dunque sin da principio i rischi dei processi di trasposizione delle micropsicosi in macropsicosi. Ma ciò che essa soprattutto esprime è l'uscita del vivente fuori dai gironi materni reali e virtuali, il suo ingresso nel cosmo denso delle civilizzazioni regionali altamente sviluppate e, al di là di ciò, nei mondi di schiuma né tondi né densi della cultura moderna globale. La nostra presentazione segue qui l'idea romanzesca di descrivere il mondo come un gioco di perle di vetro, anche se esso, per forza di cose, toglierà al tema la sua levità. Le sfere sono forme considerate come potenze fatidiche – a iniziare dal sussurro fetale nelle loro acque buie e private, e fino alla sfera cosmica e imperiale che si presenta ai nostri occhi con la pretesa sovrana di contenerci e sommergerci.

Una volta che le sfere vengono tematizzate quali forme efficaci del reale, il punto di vista sulla forma del mondo svela la chiave delle sue organizzazioni simboliche e pragmatiche. Possiamo spiegare perché, ovunque si pensi per grandi rotondità, il pensiero del sacrificio di sé sia stato necessariamente potente. Perché le maestose sfere del mondo che brandiscono agli occhi dei mortali la loro forma rotonda consolatrice hanno da sempre la pretesa che sia loro sottomesso tutto ciò che non si adatta alla curvatura liscia del tutto: in primo piano c'è l'Io singolare, ingombrante, privato, che si è sempre scagliato contro l'idea di lasciarsi integralmente assorbire nella grande rotondità del Sé. In questo cerchio, le potenze del regno e della salvezza scoprono la loro estetica obbligata. E la ragione per la quale la nostra fenomenologia delle sfere, seguendo il carattere ostinato del tema, non può fare altro che scombussolare l'altare morfologico su cui, dal tempo degli imperi, già si sacrificava ciò che non era rotondo a ciò che lo era.


Il primo volume di questa trilogia di sfere parla di entità microsferiche che avranno in questa sede il nome di bolle. Esse costituiscono le forme intime dell'essere-in-forma e la molecola di base della relazione forte. La nostra analisi si lega al progetto, finora mai intrapreso, di raccontare per degli intelletti adulti l'epopea delle bi-unità, sempre perdute e perciò mai totalmente cancellate. Ci immergiamo in una storia scomparsa che testimonia la fioritura e il naufragio dell'Atlantide intima; esploriamo un continente insufflato nel mare materno che abbiamo abitato in un'epoca soggettivamente preistorica e abbandonato con l'inizio di ciò che aveva l'apparenza di storia personale. In questo mondo a parte, le divergenti dimensioni balenano sul margine della logica convenzionale. Comprendendo che la nostra inevitabile perplessità concettuale è l'unica accompagnatrice sicura, percorriamo i paesaggi dell'esistenza pre-oggettiva e delle relazioni anteriori. Se il termine penetrazione fosse quello giusto, potremmo dire che penetriamo nel regno dei fantasmi intimi. Ma, si vedrà, le cose stesse non tollerano che invasioni non invasive; in questo ambito bisogna lasciarci andare a una deriva in avanti sui flutti linfatici dell'esperienza pre-soggettiva e primitiva del sé in modo più condiscendente di quanto non sia costume negli approcci metodologici e nel disbrigo di questioni intellettuali finalizzate a uno scopo. Attraversando il sub-mondo sinuoso del mondo interno, si vedrà dispiegarsi, come una carta geografica sonora, l'immagine fantomatica di un universo liquido e auratico – interamente tessuto a partire da risonanze e sostanze in sospensione; è in questo universo che bisogna continuare a cercare la storia primitiva dello psichico. Questa ricerca ha, per sua natura, la forma di una missione impossibile, che non può essere né assolta né abbandonata.

In queste passeggiate marginali verso le zone originali dell'anima, della sensazione di sé e della sutura reciproca, si percepisce in quale misura la storia primitiva dell'intimo proceda sempre anche come storia psichica della catastrofe. Non si può parlare di sfere intime senza spiegare il modo in cui si producono il loro scoppio e la loro ricomposizione allargata. Tutte le sacche amniotiche, modelli organici di contenitori autogeni, vivono muovendosi verso la loro esplosione. L'ondata della nascita, nel momento in cui irrompe, proietta la vita sulla costa dei fatti bruti. Chi la raggiunge è in grado di chiarire, a partire da essa, che cosa porti al naufragio delle bolle troppo intime e che cosa spinga i loro abitanti alla metamorfosi.


Con il secondo volume delle Sfere si apre la pagina di un universo storico-politico situato entro i modelli morfologici della sfera costituita con esattezza geometrica e del globo. Ci troviamo in questa sede nella dimensione parmenidea: in un universo la cui frontiera è tracciata col cerchio e il cui centro è occupato da una giovialità specificamente filosofica, prudente e sfrenata. Nell'era della metafisica e degli imperi – un'era meno sorpassata che dimenticata –, Dio e il mondo sembrano aver concluso un patto consistente nel presentare come sfera inclusiva tutto quello che era essenzialmente l'Essente. Per quanto possiamo vedere, la teologia e l'ontologia sono sempre già state delle teorie della forma contenente rotonda; è solo a partire da questa forma che le figure del regno e del cosmo sono pensabili in modo coerente. Non è un caso che Nicola Cusano potesse ancora dire: "Si dice così che tutta la teologia è posizionata in cerchi". I teologi possono continuare a immaginare che il loro Dio sia più profondo di quello dei filosofi; più profondo di quello dei teologi è il dio dei morfologi. Con queste spedizioni in quei mondi oggi pressoché scomparsi in cui regnava l'idea di una rotondità necessaria del tutto, acquisiamo elementi di comprensione della funzione e del modo di costruzione di ontologie politiche negli imperi premoderni. Non esiste un regno tradizionale che non abbia anche assicurato le frontiere attraverso mezzi cosmologici, alcun regno che non abbia tratto a proprio profitto gli strumenti dell'immunologia politica. Cos'è la storia del mondo, se non anche e sempre storia della guerra dei sistemi immunitari? E i sistemi immunitari primitivi non erano anche e sempre geometrie militanti?


Ricordando le antiche e venerabili teorie dell'Essere di forma sferica si svelano le origini filosofiche di quel processo che oggi sta sulla bocca di tutti con il nome di globalizzazione. Θ la storia vera che bisogna raccontare — dalla geometrizzazione del mondo da parte di Platone e Aristotele fino ai percorsi fatti da navi, capitali, segnali circolari attorno all'ultima sfera, la Terra. Vedremo come la globalizzazione uranica della fisica antica sia stata obbligata, nel corso del suo fallimento moderno, a trasformarsi in globalizzazione terrestre. Questa dimostrazione si fonda sulla decisione di rendere al globus, in quanto icona venerabile del cielo e della terra, il significato che gli è stato attribuito solo nominalmente, ma mai con serietà concettuale, nei correnti discorsi sulla globalizzazione. Una volta che ci si sia fatti un'idea della globalizzazione terrestre in quanto avvenimento fondamentale dei tempi moderni, diventa comprensibile perché, nello stesso momento, una terza globalizzazione, scatenata dalla circolazione di rapide immagini nelle reti, porta a una generale crisi dello spazio. Questa crisi è designata col concetto di virtualità, tanto in voga quanto oscuro. Lo spazio virtuale dei media cibernetici è l'esterno modernizzato che non può più in alcun modo essere presentato sotto la forma dell'interno divino; è reso praticabile in quanto esteriorità tecnologica – e, conseguentemente, come un esterno cui non corrisponde affatto alcun interno. La virtualità cibernetica è stata tuttavia preceduta da una virtualità filosofica, fondata dall'esposizione platonica del mondo delle Idee; la metafisica classica aveva già messo in crisi il pensiero volgare dello spazio, poiché Platone aveva fatto sorgere sul mondo sensibile quel sole virtuale che prende il nome di bene e dal quale tutto ciò che è "reale" nella sfera sensibile tridimensionale riceve il suo Essere. I testi sul virtual space attualmente pubblicati arrivano giusto in tempo per partecipare alle cerimonie dei duemilaquattrocento anni della scoperta del virtuale.

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Il terzo volume verte sulla catastrofe moderna del mondo rotondo. Esso descrive in termini morfologici l'avvento di un'era in cui la forma del tutto non può più essere rappresentata sotto forma di sguardi imperiali circolari e di panottici a forma di cerchio. Dal punto di vista morfologico, la modernità appare anzitutto quale processo di rivoluzione della forma. Non è un caso che i suoi critici conservatori abbiano denunciato ciò come una perdita del centro e lo abbiano rifiutato in quanto insurrezione contro il cerchio di Dio – e continuano a farlo ai nostri giorni. Per i cattolici della vecchia Europa, l'essenza dei tempi moderni può sempre essere espressa in un solo concetto: il sacrilegio della sfera. Decisamente meno nostalgico, pur attingendo in modo inattuale a percorsi non cattolici, il nostro approccio sferologico fornisce i mezzi per caratterizzare le catastrofi della forma del mondo nella modernità – la globalizzazione terrestre e virtuale – attraverso espressioni che descrivono costruzioni di sfere senza rotondità.

Una tale contradictio in adiecto riflette il dilemma formale dell'attuale situazione del mondo, nella quale, attraverso i mercati e i media globali, infuria una virulenta guerra mondiale delle forme di vita e delle merci dell'informazione. Nel luogo in cui ogni cosa è divenuta un centro, non esiste più un centro valido; nel luogo in cui tutto viene emesso, il supposto emittente centrale si perde nei flussi degli intrecci di messaggi. Possiamo constatare come e per quale ragione l'era del cerchio dell'intimità – l'unico, il più grande, quello che ingloba ogni cosa – e quella dei suoi umiliati esegeti siano irrevocabilmente passate. L'immagine morfologica fondamentale del mondo polisferico che abitiamo non è più la sfera, ma la schiuma. L'attuale messa in rete che circonda la Terra nella sua interezza – con tutte le sue escrescenze nel virtuale – dal punto di vista strutturale non rappresenta tanto, quindi, una globalizzazione ma piuttosto una schiumizzazione. Negli universi della schiuma, le bolle isolate non sono, come nei pensieri metafisici sul mondo, ammesse in un'unica ipersfera integrante, ma riunite per formare montagne irregolari. Avventurandoci in una fenomenologia della schiuma, tentiamo, attraverso il concetto e l'immagine, di avanzare verso una amorfologia politica che esplori, fino ad arrivare al loro abisso, le metamorfosi e i paradossi dello spazio solidale nell'epoca dei media multipli e dei mercati mondiali mobili. Solo una teoria dell'amorfo e della non-rotondità potrà, esaminando l'attuale gioco di distruzioni e ricostruzioni delle sfere, restituire la teoria più intima e universale dell'epoca attuale. Schiuma, mucchio, spugne, nuvole e vortici saranno le prime metafore amorfologiche che ci aiuteranno nello studio delle questioni relative alla formazione di mondi interni, alla creazione di contesti e architetture dell'immunità nell'epoca dello scatenamento tecnico della complessità. Ciò che oggi si celebra in modo confuso in tutti i media come la globalizzazione costituisce, da un punto di vista morfologico, la guerra universalizzata delle schiume.

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Quando si parla in questa sede di sfere come di forme che si realizzano da sé, lo si fa con la convinzione di non utilizzare concetti riportati – e se anche lo fossero da un certo punto di vista, lo sarebbero secondo una modalità che incoraggia il movimento delle cose nella stessa direzione. Teoria delle sfere: ciò significa aprirsi un varco verso un qualcosa che senza dubbio è più reale di tutto e, tuttavia, anche più sfuggente e oggettivamente meno tangibile. L'espressione "aprirsi un varco" è già fuorviante, perché la scoperta dello sferico non è tanto un affare di accessibilità quanto un problema di circospezione rallentata nell'ambito di ciò che è più evidente. Siamo sempre invischiati in modo estatico in relazioni sferiche, anche se abbiamo appreso, per motivi profondi e specifici della nostra cultura, a ignorarle, a lasciarcele sfuggire e a prescinderne nella discussione. In quanto imperniata sull'oggettività, la cultura scientifica europea è, nell'approccio quanto nel risultato, un'impresa volta a de-tematizzare l'estasi sferica. L'interiorità animata di cui tenteremo di provare l'esistenza in tutte le situazioni fondamentali della cultura e dell'esistenza umane è di fatto un realissimum che si sottrae in un primo tempo a qualsiasi rappresentazione linguistica e geometrica – e a tutte le rappresentazioni in generale – e che tuttavia impone a ogni punto dell'esistenza la costituzione di cerchi e sfere originari grazie a un potenziale di arrotondamento che è in vigore prima di qualsiasi costruzione formale e tecnica di cerchi.

I mondi separati di coloro che coesistono nella realtà possiedono da soli la dinamica formale di arrotondamento che si costituisce caparbiamente senza il contributo dei geometri. Dall'auto-organizzazione degli spazi psicocosmici e politici scaturiscono queste metamorfosi del cerchio, all'interno delle quali l'esistenza pone la sua costituzione sferica e atmosferica. La parola "auto-organizzazione" – utilizzata qui senza l'isteria scientifica abituale – vuole attirare l'attenzione sul fatto che il cerchio che protegge l'essere umano non è né fabbricato né semplicemente trovato, ma si crea spontaneamente su quella soglia che separa la costruzione e il compimento del sé o, per meglio dire: si compie negli avvenimenti dell'arrotondamento – così come coloro che si raggruppano attorno a un fuoco di campo, liberi e determinati, traggono immediato vantaggio dal calore.

Ecco perché l'analisi sferologica intrapresa in questo primo volume a partire da microforme non è né una proiezione costruttivista di spazi rotondi all'interno dei quali gli uomini immaginano un'esistenza comune, né solo una meditazione ontologica sul cerchio in cui i mortali sarebbero chiusi dalla forza di un'organizzazione trascendente e di cui non potrebbero disporre.

In quanto introduzione a una poetica mediale dell'esistenza, la sferologia, in un primo tempo, non studierà che le costituzioni formali delle immanenze semplici che appaiono nelle organizzazioni umane (e extra umane) – sia sotto forma di organizzazioni dell'intimità arcaica, sia sotto forma di design spaziale di popoli primitivi, o di auto-interpretazioni teologiche e cosmologiche degli imperi tradizionali. A un primo sguardo la presente opera, soprattutto nella seconda parte, potrà anche apparire come una storia della cultura volta all'aiuto di concetti rilevanti della morfologia, dell'immunologia e della teoria del transfert – concezione che, anche se non porta all'essenziale, non sarebbe né totalmente falsa né totalmente senza diritto nel supporre che si sia pronti ad ammettere che solo la filosofia può rivelare all'intelligenza in che modo le sue passioni pervengono al rango di concetti.

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Per tutta la storia antica della viseità umana è possibile affermare che gli uomini non possiedono un volto per loro stessi, ma per gli altri. La parola greca per designare il volto umano, prosopon, è quella che esprime nella maniera più chiara questo stato di fatto: essa designa ciò che si dà alla visione degli altri; un volto si presenta prima di tutto allo sguardo dell'altro; ma in quanto volto umano, ha simultaneamente la capacità di reincontrare ciò che è visto dalla propria visione di ritorno — e costui, certo, in un primo tempo non vede se stesso, ma solo, da parte sua, il volto di chi gli sta davanti. L'intreccio reciproco tra sguardo e contro-sguardo è dunque totalmente ancorato al volto, ma non si trova niente che indichi una direzione autoriflessiva. Se astraiamo dai precari riflessi sulla superficie dell'acqua immobile, sempre possibili, l'incontro dei volti umani con loro stessi attraverso le immagini nello specchio, costituisce una tardiva aggiunta alla realtà interfacciale primaria. Sarebbe tuttavia esigere l'inconcepibile per gli uomini del XX secolo, che hanno tappezzato i loro appartamenti di specchi, chiedere loro di prendere coscienza di cosa possa significare il fatto che, fino a poco tempo fa, la quasi totalità della specie umana era composta da individui che in tutta la loro vita non hanno mai potuto vedere il loro volto, tranne in situazioni eccezionali estremamente rare. I primi specchi sono degli utensili tipici dell'inizio dell'età assiale; fino ai tempi moderni, rimangono oggetti attorniati di mistero tra le mani di un piccolo numero di privilegiati; entrano ben presto anche nell'inventario di coloro i quali parlavano del bene raro che costituisce la conoscenza di sé. Il famoso specchio con elfi in bronzo di Heimburg, in Hesse, data quasi all'anno 500 a.C. Se la geografia non andasse contro questa idea, lo si potrebbe qualificare quale strumento presocratico. Gli specchi in vetro che si utilizzano correntemente non esistono che dal 1500 circa – furono dapprima fabbricati sotto il monopolio veneziano. Sostanzialmente, c'è stato bisogno di attendere il XIX secolo – e nel mondo industrializzato non ha preso piede prima della metà del XX secolo – perché parti consistenti della popolazione disponessero di specchi. Solo una cultura satura di specchi ha permesso che si imponesse l'apparenza secondo la quale lo sguardo nel proprio riflesso realizza, per tutti gli individui, la situazione originaria di rapporto col sé. Ed è solo nell'ambito di una popolazione che si definisce, in tutte le sue classificazioni, popolazione di detentori di specchi che Freud e i suoi successori hanno potuto rendere popolare la loro pseudo-evidenza su quello che hanno chiamato narcisismo, e su un auto-erotismo primario dell'essere umano che si suppone venga trasmesso sotto forma ottica. Il teorema tragicamente ibrido di Lacan sullo stadio dello specchio quale formatore della funzione dell'Io non può più coprire la sua dipendenza dall'equipaggiamento cosmetico o egotecnico della casa nel XX secolo – con grande danno per quelli che si sono lasciati accecare da questo miraggio psicologico. Il mito di Narciso non deve essere letto come indice di una relazione naturale dell'essere umano con il proprio volto riflesso attraverso lo specchio, ma come allusione all'inquietante e inabituale carattere dell'esordiente riflessione facciale. Non è un caso che la versione della storia trasmessa da Ovidio – per quanto vi siano fonti anteriori – risalga all'epoca in cui l'occhio e il volto o, si potrebbe dire, in questo caso, il soggetto-volto e l'oggetto-volto sono stati messi in relazione l'uno con l'altro in modo nuovo e fatidico. Se Narciso ha voluto abbracciare il suo volto riflesso sull'acqua, e anche, in ogni caso, perché non era ancora per lui il proprio volto; la sua stupida caduta nell'immagine dimostra che fino ad allora qualunque volto gli fosse dato di vedere non era che il volto di un altro. La sfortuna narcisistica costituisce un incidente degli esordi della riflessione sul sé. Prima degli antichi albori della riflessione, l'idea che un volto che si possa vedere, soprattutto un volto incantevole, possa essere il proprio è inconcepibile. Alcibiade sembra essere la prima figura storicamente identificabile della tradizione europea la cui caratterizzazione comporta indicazioni su una coscienza estetica del proprio volto: Socrate si riferisce a questo stato di fatto descrivendo intenzionalmente un arco attorno alla vanità del suo allievo e parlando del bel volto di Alcibiade per indirizzarsi direttamente alla sua anima. Quanto alla faccia femminile del crepuscolo del volto, Euripide mostra Clitennestra che, dopo la partenza di Agamennone, si guarda con vanità nello specchio e aggancia gioielli ai capelli intrecciati, come a preparare il suo adulterio e il crimine che ne segue. Per i greci, l'immagine dello specchio rimane in ogni caso riservata esclusivamente alle donne. Normalmente, l'uomo greco può scoprire il suo aspetto solo attraverso la visione che ne hanno gli altri. E Socrate è il primo a lanciare l'idea elegante che i ragazzi carini di cui è attorniato dovrebbero contemplarsi il più sovente possibile negli specchi, per incitare le loro ambizioni e rivelarsi degni dei loro vantaggi fisici nella dimensione spirituale. L'idea del "proprio volto", concretizzata a livello visivo, si forma – come dimostrano queste allusioni – nel corso di una lunga evoluzione individualizzante – seguendo tappe che potremmo distinguere più o meno chiaramente come contributi antichi e medievali al soggettivismo facciale.

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Excursus 1

Transfert di pensieri

                            Parlare significa giocare col corpo dell'altro.

                                                            Alfred Tomatis


L'idea che i miei pensieri siano invisibili agli altri; che la mia testa sia un tesoro pieno di rappresentazioni e sogni che riposano racchiusi in me; che le mie riflessioni producano un libro che nessuno può leggere con me dall'esterno; che le mie idee e conoscenze non appartengano che a me, che siano trasparenti solo a me, impenetrabili ad altri – e a un grado tale che forse nemmeno sotto tortura, mi potrebbero forzare a comunicare, contro la mia volontà, quanto so ad altri –, questa sindrome composta da idee dal carattere dissimulato di pensieri nel soggetto che riflette ha acquisito nella storia recente dell'apparenza privata [privates Schein] un'importanza che non bisogna sottostimare. Θ anche possibile considerare come provocaroria l'esigenza di pensare al fatto che sono proprio queste rappresentazioni ad aver contribuito a produrre l'apparenza privata. Nel nostro ambiente culturale, esse non hanno che poco più di due millenni e mezzo – per la macro-storia, esse appaiono come una giovane peluria che cade sui massicci strati di realtà psicologiche più antiche. Se non fossero le idee che, oggi, dominano tutto, non avrebbero praticamente peso di fronte alla pesantezza della storia umana. Poiché durante la maggior parte dell'evoluzione la quasi totalità di ciò che gli individui pensava e sentiva era per la loro cerchia così trasparente da essere vissuta in maniera condivisa, l'idea che esistessero idee private non aveva appoggio nell'esperienza spirituale o nel concetto sociale di spazio: non erano state ancora edificate delle cellule per gli individui – né nell'immaginario, né nelle architetture fisiche delle società. Nei piccoli gruppi, in cui regna la legge della reciprocità, l'atto dell'uno è l'atto dell'altro; allo stesso modo i pensieri dell'uno sono, in regola generale, quelli dell'altro. Ciò vale anche per le arcaiche "culture del pudore", nelle quali gli individui renderebbero volentieri la loro interiorità invisibile poiché soffrono del fatto che i loro affetti siano smisuratamente esposti all'intuizione degli altri. Dal punto di vista paleopsicologico, l'ipotesi dei pensieri nascosti appare una perfetta assurdità. L'idea che esista un interno privato nel quale il soggetto possa chiudere la porta dietro di sé, riflettersi ed esprimersi egli stesso non appare prima della svolta del primo individualismo durante l'Antichità; i suoi propagandisti erano gli uomini ai quali si dava il nome di saggi o di filosofi – precursori dell'intellettuale della modernità e dei single postmoderni. Essi hanno prima di tutto dato un taglio rivoluzionario all'idea che il pensiero vero sia possibile solo sotto forma di pensiero proprio e di pensiero-rispetto-a-tutti-gli-altri-stupidi. Dai loro impulsi deriva il modello tanto diffuso della clausura nella testa: i pensieri sono liberi, nulla può essere indovinato – intanto, ciò significa solo che coloro che pensano pensieri nuovi diventano opachi allo sguardo dei custodi di pensieri convenzionali. Nel mondo dei pensieri nuovi, l'assioma secondo il quale i pensieri dell'uno sono anche quelli dell'altro perde la sua validità: ciò che non penso da me è impossibile che lo indovini in altri. Nelle società totalmente differenziate, altre persone hanno regolarmente altre idee in testa. In tali società tocca agli psicoterapeuti il compito di fare in modo che gli individui non vadano troppo lontano nell'alterità e nella specificità patogena delle loro riflessioni e dei loro sentimenti. Il fatto che, nell'antica sociosfera, i pensieri fossero stati entità pubbliche deriva in prima istanza dalla psicologia dei media: come le parti genitali, i cervelli umani sono fondamentalmente sistemi funzionanti in coppia, forse anche sistemi socievoli. Se la frase "il mio ventre mi appartiene" può avere un senso utilizzabile in contesti polemici (l'idea che sia la madre ad avere l'ultima parola sulla questione dell'interruzione della gravidanza), allo stesso modo la frase "il mio cervello mi appartiene" sarebbe moralmente inaccettabile e fuori luogo. Essa non potrebbe significare, in conformità coi principi di verità, né che sono l'autore e il proprietario dei miei pensieri, né che sarei totalmente dispensato dal condividerli con altri. La tesi secondo la quale mi sarebbe possibile pensare ciò che voglio è anch'essa insostenibile da un punto di vista immanente. L'individualismo cerebrale disconoscerebbe il fatto che un cervello raggiunge una certa capacità funzionale solo nell'interazione con un secondo e, al di là di esso, con un insieme più vasto di cervelli – nessuno osa parlare di capacità funzionale completa. I cervelli sono i media di ciò che fanno o hanno fatto altri cervelli. Solo un'altra intelligenza fornisce all'intelligenza gli stimoli alla propria specifica attività. Come il linguaggio e l'emozione, l'intelligenza non è un soggetto, ma un centro o un cerchio di risonanza. Contrariamente all'intelligenza alfabetica, capace di distanziazione, l'intelligenza pre-alfabetica dipende da un clima di densa partecipazione poiché, totalmente annidata nelle comunicazioni di vicinanza, ha bisogno per esprimersi dell'esperienza di un comunismo di pensieri e nervi legati al proprio tempo attuale. Nell'epoca della lettura, ciò si trasformerà in una repubblica quasi telepatica di eruditi che ha, e non è più un caso, i propri "spiriti del tempo"; grazie alla forma scritta, gli spiriti del periodo anteriore possono inoltre ritornare in esseri viventi attuali. Al di là di ciò, lo scritto permette agli individui di ritirarsi dalla società per completarsi da sé con le voci degli autori: chi può leggere può anche essere solo. Solo l'alfabetizzazione permette l'anacoresi; libro e deserto viaggiano di pari passo. Ma anche nella cellula più solitaria non esistono, in ultima istanza, pensieri propri. Θ proprio la piega nello spazio sociale vuoto che ha reso onnipotente l'idea di un dio che sarebbe il primo lettore dei pensieri; ritirandomi nel deserto, forzo Dio a prestarmi attenzione. Θ precisamente al dio degli eremiti che sono stati trasmessi i resti dell'intima funzione partecipativa nei gruppi primitivi: questo dio garantisce che l'asceta, nel deserto, non sarà mai senza il suo secondo che lo avvolge, lo osserva, lo spia, lo svela.

Solo la scrittura ha provocato l'apertura dei cerchi incantati dell'oralità e ha emancipato i lettori dal totalitarismo della parola attuale, pronunciata nel settore della vicinanza; lo scritto e la lettura, soprattutto nel loro uso greco, democratico, autodidatta, portano al loro avanzamento nel non-percepibile. Di fatto, l'epoca orale del mondo aveva la stessa estensione della preistoria magica e manipolatrice dell'anima, poiché il possesso, legato al presente dalle voci e dalle suggestioni dei membri della tribù, rappresentava la normalità. Per natura, íl possesso tramite il normale, il mezzo, l'attuale, non si nota in quanto tale. Nelle famiglie, nei villaggi e nei vicinati, si considera finora quale moda semplice, diretta, naturale, della comunicazione. Si maschera così il fatto che nel mondo orale tutti gli uomini sono degli incantatori che si pongono reciprocamente sotto un fascino di normalizzazione più o meno potente (fascino da cui, nella maggior parte dei casi, solo un contro-incantamento può liberare – i viaggi o le conversazioni con estranei, ad esempio).

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Capitolo quinto

L'accompagnatore originario. Requiem per un organo respinto


                                        Che farò senza Euridice?
                                        Dove andrò senza il mio ben?
                                        Christoph W. Gluck, Orfeo ed Euridice

                                        Non possiamo lasciar partire i nostri
                                        angeli.
                                        Non vediamo che se partono, è solo
                                        perché possano divenire arcangeli.
                                        Ralph W. Emerson, Compensazioni



La pupilla deve dilatarsi se vuole continuare a vedere nella penombra. Se la penombra è profonda come nella notte squisita, sarà utile che la pupilla possa essere grande quanto l'occhio stesso. Un tale occhio-sfera sarebbe, forse, preparato a quanto ci attende – il viaggio attraverso un monocromo nero. Se nella penombra il soggetto fosse diventato interamente pupilla, e la pupilla interamente organo del tatto e quest'ultimo interamente corpo sonoro, la macchia omogenea del globo di oscurità potrebbe trasformarsi in paesaggi insospettabili. In un colpo solo, un mondo comincerebbe a tratteggiarsi davanti al mondo; un vago e oscillante universo davanti a noi assumerebbe dei contorni come un soffio al di là di ogni differenza. La notte rimarrebbe protetta dalla propria indicibile densità, il suo cerchio rimarrebbe chiuso, senza uscita; e tuttavia, nella penombra, qualcosa di organico inizierebbe a distaccarsi, come una scultura di mercurio nero su fondo nero. Nell'indistinto le tracce si dissocierebbero dalle contrade, e nell'intima vicinanza si polarizzerebbe un primo là attraverso il quale un qui incoativo tornerebbe a sé.

Come accordarsi per le spedizioni silenziose nella notte monocromatica? Su quali punti di visione – o punti ciechi – dovrebbe esercitarsi l'occhio per intraprendere il viaggio nel territorio oscuro? Sarebbe utile assumere la posizione del loto e dissociarsi provvisoriamente, gli occhi chiusi, dal visibile e da quanto ci è presentato? Ma quanti si sono imbarcati nella navigazione della meditazione e non hanno fatto, in fin dei conti, che andare alla deriva verso il non-oggettivo, laddove la ricerca sfocia nell'indifferenza? Bisognerebbe provare esperienze con le droghe e viaggiare attraverso mondi alternativi, come uno psiconauta spinto dalla curiosità? Ma nella maggior parte dei casi questo tipo di viaggi interiori suscita, al posto delle immagini quotidiane, immagini eccentriche che scintillano attraverso la caverna come dei film d'azione endogeni; questa chimera si limita a sovraesporre lo spazio scuro in quanto tale, e l'arte di leggere le figure all'interno del monocromo nero non decolla. Se si dà uno sguardo alle sedute all'LSD redatte dai pazienti dello psicoterapeuta delle droghe Stanislav Grof nel corso di quelle che chiama regressioni amniotiche, si ha necessariamente l'impressione che queste persone vivano per quanto hanno letto e che riproducano le immagini eloquenti dell' hortus conclusus sotto forma di fantasma uterino; esse restituiscono i viaggi della formazione all'interno dell'atlante ginecologico in quanto esperienza personale; piccole immagini del paradiso che provengono dalla santa messa per i bambini, si mescolano ad arcaici ricordi dello spazio; in rappresentazioni potentemente visive, esse vedono le distese del cielo e i cori luminosi attorno al trono divino, come nessun abitante dell'utero, senza dubbio, ha mai potuto udirli. Bisogna concludere che anche l'LSD, la miracolosa droga psico-gnostica, nella migliore delle ipotesi non suscita altro che sintetici conglomerati empirici nei quali ciò che è precedente dal punto di vista scenico si fonde a tal punto con ciò che viene dopo dal punto di vista del linguaggio e dell'immagine che difficilmente è possibile parlare di un ritorno all'autentico stadio primario. Che fare, allora, se le stesse droghe di verità forniscono disinformazione? Sarebbe meglio accompagnare i minatori nella loro discesa nel fondo del pozzo e andare sulle loro tracce nelle gallerie, senza luce né cartina, per fermarsi da qualche parte nelle profondità e per misurare quanto la montagna estenda dappertutto il suo spessore attorno a chi respira nel tunnel oscuro? Ma un simile esercizio non sarebbe altro che una prova sportiva di sé, e finirebbe quando il candidato in stato di pre-panico, nel silenzioso spazio di pietra, sarà consegnato ai propri battiti del cuore e dovrà mettere le briglie alla propria immaginazione eccitata. Nemmeno questa impresa conduce più alla scena che precede tutte le altre. Non avremmo guadagnato nulla per lo studio dell'unica caverna notturna che ci riguarda. Nel fondo monocromo incomparabilmente nero davanti al quale la tua vita ha da tempo iniziato a staccarsi sotto forma di figura vibrante, quelli che discendono verso pozzi estranei non tornano indietro. Non si può, utilizzando un'altra penombra, esercitarsi alla visione nell'unica penombra che ci riguardi. Non esiste altro cammino che quello consistente nell'iniziare dal proprio monocromo nero. Quando si ha a che fare con quest'ultimo, si capisce subito che la vita è più profonda dell'autobiografia. La scrittura non affonda mai troppo nel nostro nero. Non possiamo mettere per iscritto ciò che siamo all'inizio.


Il primo dove è ancora sprovvisto del benché minimo accenno alla struttura e al contenuto. Anche se sapessi che questa è la mia caverna, ciò significherebbe solo, in un primo tempo: sono steso qui nella mia notte, come una vacca hegeliana dal profondo grigio, e non mi distinguo da niente e nessuno. Il mio essere è ancora un peso senza piega. Bolla di basalto nero, riposo in me, covo nel mio luogo come in una notte di pietra. E tuttavia, per quanto ciò dipenda da me, bisogna che nello scuro massiccio in cui vivo e mi agito sia già apparsa un'intuizione della distinzione. Se non fossi che un nero di basalto, com'è possibile che si sia generato in me il vago sentimento di essere all'interno di qualcosa? Dove può sfociare una tale sensazione, questo rigonfiamento fluttuante? Se il mio nero corrispondesse senza fughe all'interno della montagna egualmente nero e morto da sempre, com'è possibile che questo battito rapido si risvegli in me e, al di sopra di lui, questo timpano lontano dal ritmo più lento? Se fossi fuso, senza distinzione, con la sostanza nera, come potrei essere già qualcosa che presagisce uno spazio e che si pone nelle prime estensioni? Può esistere una sostanza che è simultaneamente una sensazione? Esiste un massiccio montagnoso che sia gravido di qualcosa di diverso dalla roccia? Pensieri estranei, esalazioni di volte scure — che paiono far parte del genere di problemi sui quali meditano da millenni, senza progressi, i faraoni morti, nelle loro camere. Meditazioni di mummie, riflessi nei minerali, rimuginare senza soggetto. Θ possibile concepire un incidente che permetterebbe di fare di tutto ciò una questione del vivente?

Per ora, bisogna cercare il sostegno dell'esterno — ma non quello dei ginecologi; questi, con le loro descrizioni degli organi e le loro scarpe eleganti, corrono attraverso l'interno delle donne come fossero dei turisti venuti da lontano a visitare costruzioni orientali, accecati dai centri di interesse che li hanno inghiottiti. No, l'osservatore situato all'ingresso, e di cui bisognerà reclamare l'assistenza, può essere chiunque, eccetto quello che utilizza espressioni anatomiche. Dovrebbe piuttosto somigliare a un vecchio psicoanalista o a un eremita, visitato da clienti con preoccupazioni che non si esprimono a parole; potrebbe essere, forse, una persona che si sia consacrata a ciò cui abbiamo dato il nome di pratiche di prossimità magnetopatiche; un essere umano, comunque, che voglia essere presente senza intraprgndere nell'esistenza di ciò che gli sta di fronte altre incursioni rispetto a quelle che derivano dalla sua stessa presenza discreta e attenta. Come detto, per progredire nell'osservazione interna dobbiamo far entrare in gioco una visione supplementare, dall'esterno, che starebbe in rapporto con ciò che avviene non in forza della sua intromissione ma grazie al suo semplice valore di testimonianza. Prendiamo dunque appuntamento con l'assistente, davanti alla caverna, e confidiamogli la missione di far avanzare la spiegazione esitante della notte sferica.

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