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| << | < | > | >> |IndiceChe cosa è successo nel XX secolo? 9 L'antropocene: uno stato processuale ai margini della storia della Terra? 1. Umanità senza peso, 9 2. Dottrine delle età del mondo, 13 3. I moderni circoli vincenti, 15 4. Crisi della forte esternalizzazione, 19 5. Il management dell'ignoranza, 21 6. «Abbiamo una missione», 26 7. «Che cosa può il corpo?», 30 8. Una politica a favore della Terra, 35 38 Dalla domesticazione dell'uomo alla creazione di culture civilizzate. Per rispondere alla domanda se l'umanità sia capace di autoaddomesticarsi 1. Metafisica pastorale: la scoperta del problema della domesticazione, 38 2. Al di là dell'addomesticamento: dalla pedagogia alla rivelazione della neotenia e ritorno, 40 3. Il pacifismo ingenuo come rifiuto di collaborare in situazioni-limite della cultura, 43 4. Maximal Stress Cooperation (MSC) nei gruppi culturali, 45 5. L'addomesticamento di quell'animale selvatico che è la cultura, 47 6. Disinnescare la bomba della popolazione in crescita, 49 55 L'esperimento oceano. Dalla globalizzazione nautica a un'ecologia generale 1. La globalizzazione come esperimento marittimo, 51 2. Lo spirito sperimentale e l'esternalizzazione degli effetti collaterali, 55 3. Limiti dell'esternalizzazione, ovvero una nuova impresa argonautica, 58 64 Il mondo sincronizzato. Aspetti filosofici della globalizzazione 76 Che cosa è successo nel XX secolo? Verso una critica della ragione estremistica 1. L'apocalisse del reale: in merito alla logica dell'estremismo, 82 2. La trasvalutazione di tutti i valori: il principio opulenza, 93 3. Al di là del «costoso» e del «gratuito»: per una nuova alleanza con il lavoratore della natura, 105 110 Il filosofo nel castello degli spettri. Sull'interpretazione dei sogni in Derrida 143 Chi ci osserva da lassù? Per una filosofia della stazione spaziale 149 Il Rinascimento permanente. La novella italiana e le notizie della modernità 168 La politica di Heidegger: rinviare la fine della storia 1. La noia e il collettivo autentico, 170 2. Dostoevskij, Heidegger e Kojève: proiezioni sulla fine della storia, 184 3. Affermazione del pericolo: tornare alla storia!, 193 204 Odisseo il sofista. Sulla nascita della filosofia dallo spirito dello stress da viaggio 1. Polytropos: l'uomo com-mosso, 204 2. Polymetis: colui che non si trova mai in imbarazzo, 211 3. Polytlas dios Odysseus: il riconoscimento di colui che tanto sopporta, 217 4. Polymechanos: l'ingegnoso maestro del non essere impacciati, 225 233 Quasi una Sacra Scrittura. Saggio sulla Costituzione 1. Listante della Costituzione, 233 2. La creazione del sublime in democrazia, 237 243 L'altro logos, ovvero la ragione dell'astuzia. Riflessioni storico-filosofiche sulle vie indirette 1. La normalizzazione del logos, 243 2. Astuzia degli dèi, astuzia dei filosofi, 247 3. La ragione umana beffata, 252 4. La beffa che si risolve a vantaggio del beffato, 257 5. Hegel: l'astuzia della ragione, 260 6. Schopenhauer: l'astuzia della volontà, 263 7. La natura beffata: l'ingegneria meccanica, 265 8. Raggirare i propri simili, 267 275 Nota ai testi 277 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 9L'antropocene: uno stato processuale ai margini della storia della Terra?
1. Umanità senza peso
Nel 2000 l'olandese Paul Jozef Crutzen, studioso di chimica dell'atmosfera, per definire l'epoca attuale dal punto di vista delle scienze naturali, propose il termine «antropocene», riprendendo un concetto analogo formulato nel 1873 dal geologo italiano Paolo Stoppani (1824-1891); si suppose allora che quel termine sarebbe rimasto circoscritto nell'ambito di un discorso specialistico, racchiuso entro le mura di un istituto di analisi dei gas o di geofisica. Invece, per un'ignota serie di casi fortuiti, il sintetico virus semantico dev'essere riuscito a oltrepassare le porte ben isolate dei laboratori e a diffondersi nel mondo, dando l'impressione di riprodursi con particolare facilità nel contesto delle pagine culturali dei giornali, degli enti museali, della macrosociologia, dei nuovi movimenti religiosi e della pubblicistica di allarme ecologico. La proliferazione di tale termine potrebbe essere imputata soprattutto al fatto che, nella sua veste di neutralità scientifica, trasmette un messaggio di urgenza politico-morale senza eguali, un messaggio che in senso esplicito equivale a dire: l'uomo è diventato in tutto e per tutto responsabile dell'insediamento e della gestione della Terra da quando la sua presenza sul globo non è più un'integrazione quasi irrilevante. Il concetto di antropocene, dalla rilevanza in apparenza solo geologica, comporta un atto che, in contesti giuridici, sarebbe connotato come la definizione di un'agenzia responsabile. Con l'attribuzione di responsabilità si istituisce un indirizzo cui rivolgere possibili atti d'accusa. Appunto con questo abbiamo a che fare oggigiorno, quando attribuiamo all'«uomo» — senza ulteriori specificazioni — la capacità di operare in modo criminale in dimensioni geostoriche. Quando parliamo di «antropocene», ci troviamo solo in apparenza nell'aula di un seminario di studio sulle scienze della Terra. In realtà stiamo prendendo parte a un'udienza processuale — più precisamente a un'udienza preliminare in preparazione del dibattimento, in cui va anzitutto chiarita l'imputabilità dell'accusato. In questa fase preliminare è opportuno domandarsi se, considerata la minore età del reo in questione, sarebbe cosa sensata avviare un processo contro di lui. Nelle audizioni verrebbe ascoltata, tra le altre, la deposizione dello scrittore Stanislaw Lem , che pare assolvere «l'uomo», attribuendogli nel contesto tellurico lo status di una quantité négligeable, secondo le sue stesse parole: Se l'umanità intera si riunisse e si pigiasse interamente in un unico punto, occuperebbe uno spazio di trecento miliardi di litri, dunque neppure un terzo di chilometro cubo. Sembra molto, ma i mari della Terra contengono un miliardo e duecentottantacinque milioni di chilometri cubi di acqua. Se dunque si gettasse nell'oceano l'intera umanità, questi cinque miliardi di corpi umani, il livello del mare non si alzerebbe neppure di un centesimo di millimetro. Con quell'unico tuffo la Terra si svuoterebbe di uomini una volta per tutte. In rapporti quantitativi come questi sarebbe irrilevante se inserissimo nel quadro, al posto dei cinque miliardi di persone ipotizzati da Lem, la cifra di sette miliardi raggiunta oggi, oppure quella di otto o nove miliardi cui si perverrà dopo il 2050. Sotto l'aspetto della biomassa, anche un'umanità che si accresca con qualunque rapidità rimarrà una grandezza insignificante, nel caso in cui si riuscisse davvero a far sprofondare toto genere l'umanità nell'oceano. A che pro dunque intentare un processo contro una specie che, in rapporto alla gran massa di materia del sistema Gaia, ossia alle acque del mondo, rappresenta un'inezia? La posizione di Lem è del resto molto vicina a quella dei classici che avevano scarsa stima dell'uomo: pensiamo a Schopenhauer e alla sua sprezzante considerazione sulla razza umana come una muffa fuggevole sulla superficie del pianeta Terra. A queste obiezioni l'accusa controbietterà che l'umanità radunata tutta insieme, nel suo stadio evolutivo attuale, non si ridurrebbe affatto a una semplice biomassa. Se dev'essere portata sul banco degli imputati, lo è soprattutto perché incarna un agente metabiologico che, in virtù del suo potere d'azione, può esercitare sull'ambiente un influsso ben più ampio di quello che farebbe supporre la sua relativa mancanza di peso fisico. | << | < | > | >> |Pagina 215. Il «management» dell'ignoranzaNel suo celebre Operating Manual for Spaceship Earth (1968) Buckminster Fuller avanzò l'ardita e perfino utopica ipotesi che, nei sistemi sociali, i tempi fossero maturi per il passaggio delle competenze manageriali dai politici e dai finanzieri ai designer, agli ingegneri e agli artisti. Questa ipotesi si fondava sulla diagnosi secondo cui gli appartenenti al primo gruppo — come tutti gli «specialisti» — osserverebbero la realtà sempre e soltanto attraverso un pertugio che consentirebbe loro di scorgerne soltanto un frammento. I secondi, invece, per ragioni professionali, svilupperebbero una visione olistica e si riferirebbero al panorama della realtà tutta intera. Era come se il motto romantico: «La fantasia al potere!» avesse attraversato l'Atlantico e sull'altra sponda fosse stato recepito come lo slogan: «Il design al potere!». L'arditezza del saggio di Buckminster Fuller, che ben presto divenne una Bibbia della «controcultura», e poi degli «alternativi», non si rivelò nel suo disprezzo per coloro che in apparenza erano i grandi e potenti del mondo, e che egli credeva ormai ridotti a «un'apparizione di spettri». Il testo ridefiniva in modo davvero inaudito il nostro pianeta: da questo momento critico in poi la buona e vecchia Terra non poteva più essere rappresentata come una grandezza naturale, ma andava concepita come un colossale artificium. Non era più un fondamento, bensì un costrutto, non più una base, ma un veicolo. La grandiosità e insieme l'inoppugnabilità della metafora di Buckminster Fuller sono dimostrate dal fatto che, in meno di mezzo secolo, sia ormai penetrata nella coscienza collettiva. Al tempo stesso la situazione estremamente allarmante che si è creata a bordo dell'astronave Terra indica che tale situazione non ammette elusioni di poetica vaghezza in mancanza di concetti più precisi, come attestano i numerosi «vertici sul clima», riconosciuti come fallimentari. In questo caso la metafora costituisce la forma più elevata di concetto. La sua verità si rivela nell'adeguatezza delle sue implicazioni per la situazione reale. Se la Terra è una navicella spaziale, allora il suo equipaggio deve mostrarsi effettivamente interessato soprattutto al mantenimento di condizioni vivibili all'interno del veicolo - al riguardo i tecnici spaziali parlano di Life Support System (LSS), che a bordo delle stazioni spaziali controlla le costanti mimetiche della biosfera. Il management dell'atmosfera diventa perciò il primo criterio di pilotaggio, e deve riguardare l'intera astronave. Da tener presente al proposito: in questo viaggio, le maschere a ossigeno non scendono automaticamente dall'alto della cabina nel «caso improbabile» che debba verificarsi scarsità d'aria. Sarebbe anche assurdo pensare che per terra ci siano tracce luminose che conducano alle uscite d'emergenza: l'astronave Terra non ha uscite né per l'emergenza né per la normalità. E per ciò che riguarda le tracce luminose per terra, che cos'altro sono se non una leggera ipnosi per passeggeri afflitti da aerofobia? L'angoscia degli ospiti a bordo dev'essere alleviata con strumenti più concreti. Per trattarla, si richiedono procedure tecniche e cognitive rivoluzionarie. Buckminster Fuller ha indicato con precisione la condizione finora più rilevante per la permanenza di esseri umani a bordo dell'astronave Terra: ai passeggeri non sono state date istruzioni per l'uso, probabilmente perché avrebbero dovuto arrivare da soli a scoprire il segreto della propria situazione. In effetti la Terra, per quanto ne sappiamo, è stata abitata da circa due milioni di anni dagli uomini e dai loro predecessori, i quali «non sapevano neanche di essere a bordo di un'astronave». In altre parole: nelle loro navigazioni, agli uomini del passato è stato concesso un alto grado di ignoranza, perché il sistema era congegnato in modo da tollerare un livello elevato di disorientamento umano. Tuttavia, mano a mano che i passeggeri iniziano a svelare il mistero della situazione e, mediante la tecnica, ad acquisire potere sull'ambiente circostante, viene meno l'iniziale accettazione dell'ignoranza da parte del sistema, finché si raggiunge un punto in cui determinate forme di comportamento inconsapevole non sono più conciliabili con la permanenza dei passeggeri a bordo. In tal modo quell'essere-nel-mondo da parte dell'uomo di cui ha parlato la filosofia del XX secolo si rivela come un essere-a-bordo di un veicolo cosmico esposto a fenomeni perturbativi. Per l'adeguato rapporto cognitivo dell'uomo con questo costrutto ho proposto, qualche tempo fa, il concetto di monogeismo [Monogeismus], termine che al contempo designa il livello minimo di una relazione attuale consapevole con la priorità rappresentata dalla Terra. Esso costituisce anche l'assioma per un'ontologia politica della natura. Considerata da un'ottica attuale, la storia del pensiero sul pianeta si rivela come un esperimento finalizzato e pragmatico nel corso del quale si è dovuta portare alla luce la verità sulla situazione globale. Chi a bordo dell'astronave ha il coraggio di servirsi del proprio intelletto, si renderà conto, prima o poi, del fatto che noi siamo autodidatti del viaggio nello spazio. Il vero concetto per la conditio humana è dunque: autodidatti per la vita e per la morte! Autodidatta è chi deve imparare senza maestri le lezioni cruciali. Aggiungo che un semplice ricorso alle tradizioni religiose in queste cose non è di alcun aiuto, perché le cosiddette «religioni universali» sono legate senza eccezione a una comprensione del mondo preastronautica; persino Gesù con la sua ascesa al cielo non ha potuto dare un contributo degno di nota al manuale d'istruzioni per l'uso dell'astronave Terra. A tali riflessioni è legata una considerazione sul rapporto tra essere e sapere: il sapere tradizionale è essenzialmente arretrato rispetto alla realtà, anzi si potrebbe dire che arriva perlopiù in ritardo. Considerato ciò, occorre domandarsi se dall'abituale ritardo del sapere se ne debba dedurre che esso arriverà necessariamente troppo tardi anche rispetto ai nostri problemi futuri. Per fortuna siamo in grado di rispondere di no a questa domanda. Esiste un'intelligenza prognostica che si attiva proprio nello spazio minuscolo tra «tardi» e «troppo tardi». È questa l'intelligenza che dovrebbe attivarsi energicamente nel qui e ora. Mentre, finora, per gran parte dell'apprendimento umano vigeva la legge secondo cui «solo sbagliando s'impara», l'intelligenza prognostica deve invece imparare prima di sbagliare: una novità, questa, nella storia della didattica. Per addentrarsi nella logica di simili processi di apprendimento è necessaria una critica della ragion profetica. Quest'ultima non può farsi scoraggiare dal paradosso di base del profetismo di sventura, cioè dal fatto che, se ha centrato il segno, a posteriori viene visto come un allarme superfluo, dato che proprio grazie al suo intervento non si è verificato l'evento da cui esso metteva in guardia. Abbozzi di una critica del genere sono stati presentati da Jean-Pierre Dupuy in Pour un catastrophisme éclairé (2004). Secondo questo studioso, soltanto apocalittici esperti possono praticare una ragionevole politica del futuro, poiché hanno sufficiente coraggio per considerare come possibilità reali anche gli esiti peggiori. | << | < | > | >> |Pagina 358. Una politica a favore della TerraNel titolo di questo saggio, il concetto di antropocene è stato definito come uno «stato» [Zustand] ai margini della storia della Terra. Ora si fa evidente quanto il termine «stato» venga minato da un'ironia di fondo: la condizione antropocenica, in quanto determinata da una logica apocalittica (secondo cui il precorrere la propria fine rimane legato al ritorno all'istante vissuto), è il contrario di tutto ciò che gli esseri umani hanno collegato nel tempo storico con concetti di «stato»: lo Stato, ciò che sostiene, lo «stanziale e stante», l'istituzione oppure il sup-porto. In un passo significativo della sua quinta Gifford Lecture del febbraio 2013, Bruno Latour richiama la nostra attenzione sul fatto che la leggendaria coppia di concetti di Thomas Hobbes, quello dello «stato di natura» (state of nature) e quello del suo superamento mediante lo Stato statuale, attualmente venga colta da un'inatteso spostamento di senso: ha preso avvio un nuovo stato di natura, che nessun Leviatano può più tenere a bada. Si è scatenata una nuova guerra di tutti contro tutti, in cui non si schierano più gli uni contro gli altri semplicemente lupi e pecore, ossia popoli armati e ideologi pronti a uccidere. Quello che in fronti assai nebulosi partecipa allo scontro è l'insieme, estremamente variegato e momentaneamente non regolato da una Costituzione, di attori che con le «società» umane popolano il campo di eventi e battaglie chiamato «Terra»: la CO2, il livello dei mari, le alghe, i computer, i microbi, i tonni, le meteoriti, gli antibiotici, gli algoritmi, il metano, i diritti umani, le pale eoliche, il mais transgenico, il trapianto di reni. Lo «stato di natura» ironicamente rinnovato non è identico al caos della creazione, e neppure può offrire ciò che finora era collegato al moderno concetto di stato o condizione. Ne consegue che la situazione [Situation] antropocenica esige che si promuova un nuovo dibattito costituzionale che, nel caso migliore, sfocerà in un processo di ordinamento non leviatanico, o meglio in un intreccio di tali processi. In tale dibattito non vanno soltanto definiti gli organi costituzionali e i titolari di diritti nell'ambito di un rapporto politico da rifondare, con il nome di «Cittadinanza della Terra», ma è anche da rinnovare in varie forme l'appello al collettivo dei cittadini della Terra, al di qua e al di là della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. È prevedibile che questi processi saranno equiparabili a una titanomachia. In essa i cittadini della Terra potrebbero riunirsi al grido di battaglia lanciato nel 1836 dal poeta Friedrich Grabbe: «Soltanto la disperazione ci può ancora salvare». Quanto disperata sia effettivamente la situazione del grande clima [Großwetterlage] antropocenico, è rivelato dal fatto che alcuni dei più importanti commentatori fanno leva sul ricordo di movimenti di riforma religiosi per motivare, attraverso paradigmi di storia della mentalità, il necessario cambio di atteggiamento nei protagonisti della civiltà attuale. Su questa linea ragionavano già, a partire dagli anni settanta e ottanta del XX secolo, autori quali Ivan Illich, Rudolf Bahro, Hans Jonas, Carl Friedrich von Weizsäcker, René Girard, Cari Amery; in tempi più recenti si sono aggiunte anche le voci di Robert N. Bellah, Bruno Latour, papa Francesco e di altri ancora. Il tono di disperazione apocalittica è percepibile con la massima chiarezza soprattutto nel pubblicista e romanziere cattolico di sinistra Carl Amery, tra gli intellettuali fondatori dei Verdi tedeschi, prima che si distaccasse dal partito, deluso dalla linea di adattamento pragmatico adottata. A fronte della gara di stermini e della guerra per le risorse da lui previste per il XXI secolo, Amery postulava una mobilitazione di forze fondatrici in senso lato, in un ordine di grandezza che superasse tutte le pratiche religiose nate fino a quel momento. Dal suo punto di vista, così come viene elaborato nel saggio Die Botschaft des Jahrtausends. Von Leben, Tod und Würde (1994), sarebbe soprattutto la frazione dell'umanità a elevata dotazione tecnologica che dovrebbe superare il panico della sopravvivenza, determinato biologicamente e terreno, troppo terreno. Essa si trova posta di fronte al compito di creare una nuova ars moriendi fondata in senso religioso, vale a dire, secondo l'autore, in senso metabiologico, che al tempo stesso si prenda a cuore l'idea di spartire le possibilità di esistenza con maggiore equità tra i popoli e le specie. Per quanto disperate possano risuonare simili riflessioni, dall'intervento di Amery risulta quanto segue: l'ontologia politica della cittadinanza terrestre comporta la richiesta di un'antropologia politica, in cui gli uomini tornino a considerarsi sostanzialmente esseri mortali, proprio come ai tempi dell' epos ellenico e della tragedia attica. Il loro punto di riferimento comune non sarebbe più l'Olimpo popolato di dèi al di sopra del mondo. Comune ai mortali sarebbe invece la Terra stessa nelle sue più diverse regioni, troppo reale per svolgere il ruolo di una tradizionale trascendenza, ma anche troppo trascendente per diventare possesso di una singola potenza imperiale. In questa prospettiva restiamo legati alla visione di Hölderlin secondo cui l'uomo dimora poeticamente sulla Terra. Il concetto di antropocene contiene i minima moralia spontanei dell'epoca attuale: implica il prendersi cura della coabitazione dei cittadini della Terra dalle fattezze umane e non umane. Invita a collaborare alla rete dei cicli di vita più semplici e di quelli più evoluti, nei quali gli attori del mondo attuale portino avanti il loro esser-ci [Dasein] nella co-immunità. | << | < | > | >> |Pagina 51L'esperimento oceano.
Dalla globalizzazione nautica a un'ecologia generale
1. La globalizzazione come esperimento marittimo
Se esistesse un copyright per le singole parole, allora gli eredi dell'economista di Harvard e teorico del marketing Theodore Levitt (1925-2006) dovrebbero annoverarsi tra le famiglie più ricche del mondo. A partire dal 1983, anno in cui Levitt, in un articolo apparso sulla «Harvard Business Review», parlò per la prima volta di «globalizzazione dei mercati» (o meglio riuscì a provocare, usando quell'espressione già ricorrente qua e là, un'immensa ondata di imitazioni), la parola «globalizzazione» è assurta a una delle espressioni di maggior successo nel lessico del mondo moderno. Senza dubbio essa rappresenta la parola dotata della maggiore contagiosità che sia mai apparsa nei vocabolari degli ultimi trent'anni. Questo vorrà ben dire qualcosa, in un'epoca in cui molti concetti si sono diffusi, nel mondo dei parlanti, come altrettante epidemie: espressioni quali «terrorismo», «sostenibilità», «effetto serra», «precariato», «celebrità», «prodotti strutturati» e simili. Per giunta si tratta di un termine di carattere quasi magico, che ha avuto la forza di produrre per la propria causa ciò che esso definisce: ha globalizzato se stesso. Esso ha coniato un nome per l'evento più rilevante della nostra epoca: la trasformazione del mondo in un contesto dinamico in cui quasi tutto entra — quasi dappertutto — in interazione con quasi tutto. La completa mondializzazione dei mercati, presa in considerazione da Levitt, ovvero il farsi mercato da parte del mondo, non si sarebbe potuta compiere se non fosse stata sorretta da un'innovazione tecnica che, a partire dagli anni settanta e ottanta del XX secolo, muta radicalmente l'esistenza della maggior parte dell'umanità: sto parlando dell'irruzione delle procedure digitali nelle attività comunicative dei Paesi civilizzati. Si è perciò pienamente giustificati a descrivere la globalizzazione come rivoluzione digitale. Il suo tratto caratterizzante è l'incredibile accelerazione delle comunicazioni derivante dall'alleanza tra digitalità ed elettronizzazione. Soltanto perché le relazioni mondiali per via elettronica hanno elevato la massima velocità a standard delle transazioni simboliche, il mondo in cui si era vissuti fino ad allora, che era sempre stato un mondo di movimenti piuttosto lenti, di distanze rilevanti e di non-contemporaneità culturale, ha potuto trasformarsi in un mondo sincronico i cui protagonisti si raggiungono a vicenda in tempo reale superando le più ampie distanze. Nel mondo sincronico le distanze spaziali paiono perdere importanza. Si ha l'impressione che gli spostamenti ultrarapidi abbiano soppiantato un modo di viaggiare più lento. A dire il vero, se ci lasciamo abbagliare dalla sfavillante superficie della rivoluzione digitale, non comprendiamo la vera natura della globalizzazione. Infatti, per quanto drammatiche possano essere le trasformazioni del nostro modus vivendi per via delle tecnologie veloci, e per quanto in profondità possano aver influenzato i mercati finanziari volatili dell'ultimo decennio e improntato la nostra comprensione delle transazioni monetarie, esse comunque costituiscono soltanto il segmento superficiale di un sistema di relazioni a più livelli basato sull'incrocio di flussi di persone relativamente lente e sulla trasmissione rapida di segnali. Nell'attuale fase della globalizzazione entrambi i poli sono già inseparabili: quello massiccio e quello sottile, il traffico pesante e il volo di scintille, la navigazione lenta sulle superfici del globo e la trasmissione di notizie mediante i collegamenti radio che azzerano le distanze. In un'ottica sistemica i movimenti lenti continuano a esseri prioritari, perché in ultima analisi sono loro soltanto a riempire di contenuti materiali le informazioni veloci. Questo vale in primis dal punto di vista storico: la globalizzazione non è soltanto il frutto dell'ultimo incontro tra mercati e tecnica digitale, ma il risultato di una lunga storia iniziata nell'istante in cui i navigatori della Penisola Iberica alla metà del XV secolo furono colti dall'idea avventurosa che l'Oceano Atlantico dovesse avere un'altra riva che poteva essere raggiunta. Se la si considera alle sue origini, la vera e propria globalizzazione è stata perciò anzitutto un fatto nautico. In origine, globalizzazione non significa altro che l'atlantizzazione del viaggio per mare. Essa implica il passaggio da una navigazione di costa, di stile portoghese, alla traversata in alto mare, sul modello dei viaggi di Colombo; presuppone la convinzione che la Terra abbia una forma sferica. Perciò è giusto far derivare il termine «globalizzazione» non tanto dall'aggettivo «globale», come solitamente avviene, ma dal sostantivo «globo», quel fondamentale strumento cartografico, caratteristico del mondo moderno, che ha rivelato agli abitanti della Terra la verità sulla forma del loro pianeta, svelando la schiacciante preponderanza dei mari. Si fonda sulla fede che sia possibile raggiungere altre sponde, anzi, più ancora si nutre della convinzione che sull'altra sponda si possano trovare le maggiori ricchezze. I profondi rischi del viaggio per mare vanno affrontati solo perché i mondi lontani vengono rappresentati come un gigantesco scrigno di tesori, da cui i fortunati imprenditori dei mari ritornano carichi di ricchezze. In breve, si può comprendere l'avventura della globalizzazione nautica soltanto se si torna agli inizi del moderno sistema del mondo, quando i naviganti d'Europa passarono dalla teoria cartografica alla pratica nautica assumendosi il rischio di dimostrare l'unità della Terra come uno spazio di rotte che permettevano di circumnavigarla. [...] Questi accenni sommari possono essere sufficienti per illustrare la tesi che, a partire dai suoi inizi nautici, mercantili e coloniali, «globalizzazione» significa includere tutta quanta la Terra nella psicodinamica della ricerca di fortuna oppure nella fuga dalla miseria locale. Con ciò diventa evidente che la globalizzazione non è solo un fenomeno tecnico o politico, non significa soltanto l'ampliarsi delle relazioni internazionali o l'infittirsi della rete economica, e non è neppure solo il completamento della base nautica grazie a una sovrastruttura informatica ed elettronica. In verità, la si può comprendere soltanto se vi si riconosce l'espansionismo della ricerca di fortuna. Fermamente rivolta verso l'esterno, dichiara l'intero globo come suo campo operativo. Così la modernità si fonda completamente su un fatto psico-politico: la planetarizzazione della ricerca di fortuna. Poiché «planetarizzazione» significa, in un'ottica operativa, viaggio per mare - e dalla seconda metà del XX secolo anche viaggio aereo - troviamo, oggi come cinque secoli fa, l'industria nautica al centro dell'evento. Non ci si faccia fuorviare dal rumore, di sicuro effetto mediatico, dell'industria dell'informazione: la realtà della realtà non si trova nei cyber-cafè e non si definisce nei motori di ricerca. Mantiene sempre il suo punto centrale [Momentum] nei sistemi di trasporto relativamente lenti, che rendono accessibile il mondo spaziale, sulle strade, sui binari e soprattutto sulle rotte marittime, lungo le quali si muovono le attività volte alla ricerca di fortuna degli individui dotati di spirito imprenditoriale. Fino a oggi la globalizzazione resta legata alle abitudini sviluppate dai primi navigatori per tenere sotto controllo l'esperimento oceano. | << | < | > | >> |Pagina 583. Limiti dell'esternalizzazione, ovvero una nuova impresa argonauticaLà dove si dia esteriorizzazione, dovrà esserci interiorizzazione. È questo l'assioma per ogni futuro realismo nel mondo globalizzato. Questo assioma ha conseguenze immediatamente sorprendenti, addirittura sconvolgenti, riguardo all'elemento primordiale oceano. In tutte le concezioni del mondo, finora i grandi mari, importanti per le culture terranee, erano l'incarnazione di un'esteriorità insormontabile. Anche il fatto che da alcuni secoli gli oceani siano diventati navigabili non ha modificato granché questa opinione, anzi proprio la navigazione estesa a livello mondiale parve anzitutto dimostrare lo scarso peso delle attività umane rispetto alla superiorità degli elementi. Per cui non sorprende se, in ultima analisi, nel mondo moderno tutte le trascuratezze sfociano in mare, come una volta si diceva dei fiumi. Da alcuni decenni le osservazioni dei naviganti e degli scienziati che operano negli istituti oceanografici e in quelli di biologia marina di tutto il mondo convergono nel delineare uno scenario inquietante. Ricorderò solo i fenomeni più noti: i vortici di rifiuti di plastica presenti nell'Atlantico settentrionale e nell'Oceano Pacifico, alcuni dei quali hanno già raggiunto la grandezza dell'Europa Centrale, e sui cui effetti sull'ambiente marino non si hanno ancora dati affidabili; la crescente acidificazione degli oceani che, nell'ipotesi di un invariato comportamento business-as-usual da parte dell'uomo sino alla fine del XXI secolo, non sarà più compatibile con molte forme di vita marina; la drammatica riduzione della fauna marina sotto la pressione della pesca industriale intensiva che si protrae ormai da decenni; il crescente rischio di episodi di «peste petrolifera» a livello sottomarino, causato dalle trivellazioni off shore che si espandono sempre più; l'inquinamento dell'atmosfera sovrastante i mari, provocato dalle emissioni dei motori navali alimentati a olio combustibile pesante; l'avvelenamento di enormi superfici equoree dovuto all'acquacoltura estensiva; l'inquinamento cronico dei mari provocato dagli scarichi di innumerevoli città costiere e dai rifiuti buttati in mare da più di centomila navi che solcano ininterrottamente i mari di tutto il globo e che solo in piccola parte - di fatto le navi da crociera più moderne - dispongono di sistemi di gestione dei rifiuti a circuito chiuso. E l'elenco potrebbe continuare. La gravità della globalizzazione si può toccare con mano in ogni singolo aspetto. Il mare non riesce più ad assolvere il compito assegnatogli di assorbire i fattori trascurati degli esperimenti umani. L'imperativo categorico del futuro esige la civilizzazione delle transazioni sui mari e sulle coste. «Civilizzare» significa integrare un mondo esterno in un mondo interno, inquadrare una prassi sregolata in una sfera regolata e sottoporre un insieme di atti, finora irresponsabili, all'autorità di un'istanza preposta che ne sia responsabile. Sarebbe illusorio attendersi che l'imperativo della civilizzazione si possa realizzare soltanto sulla base della volontarietà. Per realizzarsi esso richiede due meccanismi o trends oggettivi, senza il cui ausilio la buona volontà resterebbe impotente. Da un lato gli attori, di fronte alle calamità presenti e future, si sottoporranno reciprocamente a una tale pressione che alla fine dovranno piegarsi a una regolamentazione vincolante per tutti; per introdurli e monitorarli è indispensabile la creazione di un organo di global governance; dall'altro lato sono gli sviluppi tecnici a far sì che la civilizzazione delle pratiche marittime si possa attuare a costi ragionevoli. La civilizzazione della globalizzazione si basa, nel caso proceda con successo, sulla sinergia tra diritto, scienza e tecnologia. | << | < | > | >> |Pagina 76Che cosa è successo nel XX secolo?
Verso una critica della ragione estremistica
Le civiltà umane sono state descritte, a volte, come il risultato di una lotta permanente tra il ricordo e l'oblio. Se ci basiamo su una simile immagine, le caratteristiche e i contenuti positivi delle diverse culture si direbbero simili a scogliere che — grazie al lavoro di sedimentazione dovuto al ripetere, tramandare e archiviare — emergono dal mare dell'oblio. Con il mutare delle correnti marine, può accadere che vengano sommersi frammenti piuttosto ampi delle masse emerse, e che scompaiano sott'acqua oggetti della tradizione, considerati ancora attuali e moderni fino a poco prima. Nelle riflessioni che seguono partirò dall'ipotesi, o meglio dall'osservazione, che nella cultura odierna, riguardo all'emisfero occidentale, sia avvenuta un'inversione delle correnti e che, di conseguenza, nel giro di pochi anni sia mutata drammaticamente la situazione mnestica nei riguardi del passato più recente. Vorrei, da un lato, ricordare in proposito le sinergie tra il consumismo vincente e i mondi immaginali della bella vita e la relativa sovrastruttura creati dalle dottrine del neoliberalismo, con il conseguente rigetto della maggior parte delle nostre memorie oscure e cariche di pathos; d'altro lato, però, abbiamo più di una ragione per registrare il crollo delle tradizioni di sinistra, il che ci fa temere che queste ultime possano per sempre affondare nel Lete del capitalismo, prima che ci sia data l'opportunità di cartografare le scogliere che stanno sprofondando e che in massima parte sono già scomparse. Timore, questo, che considero non come l'adesione a una posizione politica, ma come il sintomo di una preoccupazione conservativa. Quanto queste considerazioni siano giustificate o meno, lo potrete dedurre partendo da un'osservazione di Alain Badiou , uno degli ultimi custodi, all'inizio del XXI secolo, del radicalismo perduto. Nell'introduzione al suo pregevole saggio Le Siècle (2005), che ovviamente non parla del secolo a venire, bensì di quello appena trascorso, Badiou si è visto costretto a citare una massima di Natacha Michel che recita: Le XXème siècle a eu lieu. Ora, questa frase sarebbe sciocca o banale, se non rappresentasse l'antitesi di un'altra frase non pronunciata, e facilmente immaginabile: che il XX secolo in fondo non ha mai avuto luogo. Con tutti i suoi conflitti e le sue atrocità, è diventato un mero fantasma che non si può più ricostruire in base ai sentimenti delle generazioni attuali a cui, secondo ogni apparenza, non si prospetta altro futuro che quello di un arsenale di miti e di una desolata discarica di scene di violenza. Se qualcosa dei suoi grandi temi dovesse rivestire importanza per i tempi futuri, sarebbe soltanto perché servirà ancora a lungo come fonte inesauribile di materiale per film d'intrattenimento a sfondo tragico. La trasformazione del XX secolo in un fantasma è avvenuta alle spalle delle generazioni odierne, senza che potessimo indicare un unico evento capace di spegnere in noi la serietà e la passione del passato: né il disastro di Cernobyl, né la caduta del Muro di Berlino, né il rientro distruttivo programmato della stazione spaziale Mir, né il sequenziamento del genoma umano, né l'introduzione dell'euro, né l'attacco al World Trade Center o qualche altro evento della storia recente.
Il modo migliore per apprezzare l'affermazione oltremodo banale:
Le XXème siècle a eu lieu
è quello di riferirla al detto di
Hegel
, secondo cui la vita dello Spirito non è quella «che si riempie d'orrore
dinanzi
alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla
devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa».
Portata a queste vette, la tesi citata sfocia per noi subito
in una pretesa logica e umana un po' eccessiva: essa chiede al filosofo di
restare imperterrito di fronte allo sguardo della Medusa che
ci impietrisce e di meditare su di essa come su un'icona dell'Essere
attuale, una richiesta che corrisponde allo spirito di un secolo in
cui l'affetto di fondo della filosofia si è trasformato da stupore in
orrore. Di certo neppure l'antico stupore è mai stato del tutto
scevro da affetti oscuri: già agli antichi dev'essere costato abbastanza
attenersi al dogma ontologico secondo cui ogni cosa esistente è buona; solo in
eccessi tragici un'espressione come quella
di Filottete che afferma di aver «scoperto che gli dèi sono malvagi»
ha potuto infrangere il comandamento universale di essere positivi.
Ma solo nella modernità più recente - e più precisamente nella
cucina filosofica delle streghe del periodo tra le due guerre mondiali, e
definitivamente dopo il 1945 - si poté affermare esplicitamente che l'Essere di
per sé non è per nulla il Bene, ma che, anzi,
il Bene dev'essere estratto a fatica dall'Essere, nel momento in cui
si afferma qualcosa di radicalmente «altro-dall'-Essere», per ricordare
l'immagine di pensiero postontologica o metaontologica di
Emmanuel Lévinas
, le cui rivendicazioni hanno una portata più
ampia di quanto possiamo spiegare in questa sede, e le cui implicazioni superano
forse i mezzi discorsivi della filosofia contemporanea. All'inizio del XIX
secolo c'era voluto il sangue freddo di Hegel
per concepire uno Spirito che possedesse la virtù di guardare in
faccia il Sole e la morte, imparando a non abbassare lo sguardo. Il
pensiero dei primi anni del XXI secolo ha perso la forza di quella
sovrana indifferenza. Siamo costretti a ritornare a
La Rochefoucauld
e alla sua constatazione:
Le Soleil ni la mort ni le XXème siècle ne se peuvent regarder fixement.
Sullo sfondo di simili considerazioni dobbiamo ora chiarire con maggior precisione la domanda che ci siamo posti nel titolo di questa lezione. Se ci chiediamo: «Che cosa è successo nel XX secolo?» di certo non ci aspettiamo in risposta una relazione storica. Sappiamo bene fin dall'inizio che non basterebbe enumerare i cambiamenti in bene o in male per informare su ciò che ha dato senso al XX secolo, considerandone la sostanza drammatica ed evolutiva. Le difficoltà a comprendere appieno questo periodo non si esauriscono nel fatto che, a uno sguardo retrospettivo, esso si presenti come un secolo meduseo ed estremistico, in particolare per le violenze scatenatesi nella sua prima metà. Le difficoltà più rilevanti che si frappongono a una ricostruzione del XX secolo sono legate al fatto che l'«epoca degli estremi» (secondo una definizione discutibile), in verità è stata ben più che un'epoca di complessità. Dal punto di vista odierno, in apparenza tale definizione è evidente di per sé e resterebbe la più vacua di tutte le possibili formulazioni su questo oggetto, se non ricevesse uno specifico contenuto storico dal fatto che i discorsi e le azioni dominanti dell'epoca si sono trovati anch'essi a dover ingaggiare una lotta furiosa contro l'emergere della complessità. | << | < | > | >> |Pagina 821. L'apocalisse del reale: in merito alla logica dell'estremismoLe riflessioni precedenti inducono a concludere che non è possibile indagare il processo centrale del XX secolo mediante gli strumenti della storia dei fatti e neppure mediante quelli della semantica storica o della storia delle idee. L'essenza dell'epoca non può rivelarsi in un singolo evento o in una serie di eventi; né può essere condensata in un testo privilegiato tout court, per quanto il secolo possa aver prodotto articolazioni filosofiche e poetiche eccellenti. Nel volgerci indietro, si ha piuttosto la sensazione che in quasi tutte le autoasserzioni storiche di quell'epoca si esprima una certa parzialità. Si avverte dappertutto lo stato ipnotico dei protagonisti, dovuto ai programmi, e l'accecamento dei testimoni, dovuto ai drammi. Perciò bisogna dar ragione ad Alain Badiou quando in Le Siècle, citato sopra, sostiene che si cercherebbe invano la passione dominante del XX secolo supponendola presente sul fronte delle ideologie, dei messianismi oppure dei fantasmi: a suo giudizio il motivo prevalente del XX secolo sarebbe stato, invece, la spaventosa passion du réel che è emersa nell'agire dei protagonisti come volontà di attivare il vero direttamente nel Qui e Ora. Sono convinto che questo modo di vedere il complesso del XX secolo consenta effettivamente un approccio fecondo. Con esso non solo si difende la dignità della filosofia, che insiste nel sostenere che, nel tumulto delle battaglie, ci si batte sempre anche per la verità dei concetti; con esso si conferisce anche validità all'idea che il reale ci è dato sempre soltanto attraverso il filtro di formulazioni mutevoli, e che il nostro modo di cogliere la realtà si fonde in un unico amalgama con quest'ultima. In fondo, si tratta di una ripresa, adeguata ai tempi, della dottrina platonica secondo cui solo nel pensiero stesso e da nessun'altra parte si affronterebbe l'incessante gigantomachia per l'Essere, e che solo in esso si potrebbe dimostrare dove abbia fondamento la realtà della realtà. | << | < | > | >> |Pagina 92Ci sono buoni argomenti per dimostrare che, nella modernità, la questione dell'antigravità non ha il piede zoppo (ammettendo che sia adeguata un'immagine con un così chiaro riferimento al terreno). Dalle riflessioni seguenti emergerà che, nel corso dell'evoluzione sociale più recente, le forze ascensionali attive hanno acquistato un forte slancio e assunto ampie proporzioni, spingendosi ben oltre le «ascensioni» dell'illusione religiosa. Penso di poterlo dimostrare interrogandomi sulla dinamica antigravitazionale del reale nel corso della riorganizzazione tecnica del mondo. A tale riguardo assumo la formula nietzscheana della trasvalutazione di tutti i valori per trasporla - al di fuori del dibattito sui valori stessi - su un evento che considero la vera novità del XX secolo: la costruzione del sistema occidentale di sgravio delle condizioni di vita [Lebens-entlastung] sulla base dello Steuerstaat, ossia dello Stato fondato sulla tassazione estensiva, e della civiltà del comfort di massa, basata sulle energie fossili. D'altra parte è possibile avere uno sguardo libero su questi fenomeni soltanto prendendo sufficiente distanza dai dogmi rachitici del radicalismo di sinistra. Occorre prepararsi a un'inversione del radicalismo, a volgersi verso ciò che è aereo, senza radici, atmosferico. Chi oggi desideri calarsi nelle fondamenta più profonde deve ascendere in alto, nell'aria. Per ciò che riguarda gli oggetti leggeri, quasi immateriali, si dovrà mostrare che, sebbene contrapposti a qualsiasi «terreno» [Boden], essi sono più elementari delle finzioni della pesantezza, dalle quali erano ammaliate le passions du réel del XX secolo. Dato che queste riflessioni richiedono di essere consolidate da una teoria generale dell'antigravità, voglio presentare ora, a grandi linee, un'interpretazione della tecnica quale agenzia di sgravio. Dopodiché si tratterà di integrare la teoria antropologica dello sgravio con una teoria postmarxista dell'arricchimento.
2. La trasvalutazione di tutti i valori: il principio opulenza
Chi volesse informarsi sulle premesse ideologiche dello sgravio nell'epoca della sua ascesa tecnica scoprirebbe una miniera di informazioni soprattutto nei protosocialisti francesi, e cioè in Saint-Simon e nella sua scuola, nei cui scritti - non per nulla la loro rivista si chiamava «Le Globe» - si possono rintracciare i primi tratti di un'esplicita politica viziante nella prospettiva di una teoria delle specie. Proprio al sansimonismo risale la formula dell'era dello sgravio, valida ancor oggi sul piano teorico e pratico, secondo la quale, con l'avvento della grande industria nel XVIII secolo, era arrivato il momento di finirla con lo «sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo», per avviare invece il metodico sfruttamento della Terra da parte dell'uomo. In quel dato contesto è apprezzabile il contenuto epocale di tale svolta: con essa la specie umana - rappresentata dalla sua avanguardia, i vari livelli degli industriels - viene identificata come la beneficiaria di un ampio movimento di sgravio, oppure, nella terminologia dell'epoca, come il soggetto di un'emancipazione il cui obiettivo veniva indicato con l'espressione evangelica, in versione secolare, della risurrezione della carne già durante la vita terrena. Qualcosa del genere era concepibile soltanto presupponendo che la tipica distribuzione dei carichi nelle società di classe agro-imperiali, lo sgravio [Entlastung] e la liberazione [Freisetzung] dei pochi dominanti grazie allo sfruttamento dei molti costretti a servire, potesse essere rivedibile sulla base di uno sgravio di tutte le classi attraverso un nuovo comun servitore, la Terra, considerata come una risorsa posta sotto il controllo della grande tecnica. Il significato della parola-chiave sansimonista, exploitation, ossia «sfruttamento», da una prospettiva di logica processuale ha potuto essere articolato esplicitamente solo quando l'antropologia filosofica del XX secolo, soprattutto in seguito alle analisi di Arnold Gehlen, ha sviluppato un concetto sufficientemente astratto dello sgravio. Da quando questo concetto è divenuto accessibile ai cultural studies, è possibile formulare considerazioni generali sulla direzione dell'evoluzione dei complessi sociali legati alla tecnologia più avanzata che, dal punto di vista sistemico e psicologico, sono un po' più calzanti delle tesi visibilmente ingenue del XIX secolo sull'emancipazione e sul progresso. Se si mettono a confronto il fenomeno e il concetto dello sgravio e l' exploitation di Saint-Simon, diviene evidente che l'effetto descritto, se deve valere anche per le moltitudini, non può essere raggiunto senza che lo sfruttamento venga spostato verso un nuovo strato più in basso. Su questo sfondo, possiamo enunciare la tesi che tutte le narrazioni delle trasformazioni della conditio humana sono narrazioni dei mutamenti del modo di sfruttare le fonti energetiche, oppure descrizioni di regimi metabolici. Questo principio è non solo più generale del dogma di Marx ed Engels, secondo cui ogni storia è storia di lotte di classe, ma è anche molto più aderente ai dati empirici. La sua generalità si estende ancor più in quanto comprende sia energie naturali sia energie umane («forza-lavoro»); quanto ad aderenza ai fatti, è migliore perché rigetta il cattivo storicismo della dottrina secondo cui tutte le condizioni della civiltà umana sono collegate in un'unica sequenza evolutiva di conflitti (creativi oppure dinamici); inoltre, nonostante il suo alto livello di astrazione, non comporta una deformazione dei dati che ci sono stati tramandati. Ciò accadeva invece nel polemogeno e didascalico Manifest der Kommunistischen Partei, che taceva la realtà dei compromessi di classe, per generalizzare normativamente il fenomeno - piuttosto raro, al confronto - delle lotte di classe aperte, con il rischio di attribuire un significato esemplare alle lotte ridistributive dei salariati nelle società industriali, alle rivolte degli schiavi e dei contadini nella storia antica, con le loro tendenze disperate, confuse e spesso vandaliche. Il racconto dello sfruttamento delle fonti energetiche raggiunge il suo hot spot attuale non appena si avvicina al complesso di eventi che la storia sociale più antica e quella più recente definiscono all'unisono come «rivoluzione industriale», una definizione errata, come ora sappiamo, perché qui non si tratta affatto di un processo di «rovesciamento» [Umwälzung], in cui l'Alto e il Basso si scambino di posto, ma dell'esplicitazione della produzione mediante macchine che sostituiscono i movimenti umani. La chiave della transizione dal lavoro umano al lavoro delle macchine (e alla nuova collaborazione tra uomo e macchina) sta nell'accoppiamento tra sistemi di forza e sistemi di esecuzione. Nell'epoca del lavoro fisico, simili abbinamenti erano rimasti piuttosto latenti, perché l'operaio stesso, in quanto convertitore biologico di energia, costituiva lui stesso un'unità di sistemi di forza e di esecuzione. Tuttavia, dopo che nei sistemi meccanici di forza ebbe luogo un salto innovativo gravido di conseguenze, essi poterono passare allo stadio della realizzazione più esplicita. Questo segna l'inizio dell'epica dei motori: con la loro costruzione, fa il suo ingresso sulla scena della civiltà una nuova generazione di agenti eroici, che mutano radicalmente le regole del gioco energetico, caratteristiche delle culture tradizionali. Da quando i motori sono tra noi, persino concetti della fisica e della filosofia quali forza, energia, espressione, azione e libertà assumono significati nuovi. Sebbene in essi si tratti normalmente di forze addomesticate, la mitologia della borghesia non ha mai perso completamente di vista il loro lato sfrenato, potenzialmente catastrofico, descrivendolo con scene che attingevano a reminiscenze della stirpe preolimpica delle possenti divinità titaniche. Di qui il profondo fascino esercitato dalle macchine esplosive e addirittura dalle esplosioni in generale. | << | < | > | >> |Pagina 98In una situazione mondiale come quella attuale, caratterizzata dall'esperienza fondamentale della sovrabbondanza di energia, non ha più corso il dogma antico e medievale della rassegnazione: esistono ormai nuovi gradi di libertà che si spingono fino al livello delle tonalità esistenziali più profonde. Nessuna meraviglia, perciò, che la teologia cattolica, la quale essenzialmente sviluppa pensieri premoderni e miserabilistici, abbia perduto il contatto con i fatti del presente, ancor più della dottrina calvinista e di quella luterana, che si pongono su una linea pur sempre semimoderna. Di conseguenza, nel corso degli ultimi cento anni anche il concetto di libertà ha dovuto liberarsi dei suoi significati tradizionali. Nella sua attuale gamma di armoniche esso fa risuonare nuove dimensioni di senso, in particolare la definizione della libertà come diritto a una mobilità illimitata e a un allegro spreco di energia. In tal modo vengono democraticamente generalizzati due antichi diritti signorili, la temeraria libertà di movimento e il dispendio capriccioso a danno di una natura asservita, ovviamente soltanto là dove sono già presenti le condizioni climatiche della Grande Serra. Dato che la modernità in generale rappresenta una figura che si staglia sullo sfondo del colore primario dell'opulenza, i suoi figli sono messi di fronte alla sfida posta dal senso di permanente venir meno dei limiti [Entgrenzung]. Essi possono e devono rendersi conto che la loro vita è approdata a un tempo privo di normalità. Essere gettati nel mondo dell'Eccesso [Zuviel] viene pagato con la sensazione che l'orizzonte scivoli via.Nella modernità, la zona sensibile della riprogrammazione delle tonalità emotive dell'esistenza riguarda la fine dell'esperienza della scarsità, con cui gli abitanti del Palazzo di Cristallo vengono ben presto in contatto, e che essi difficilmente apprezzano in maniera adeguata. Nell'età agro-imperiale la percezione della realtà degli esseri umani era calibrata sulla scarsità di beni e di risorse, perché si basava sull'esperienza che il lavoro, costituito dalla faticosa coltivazione dei campi, fosse appena sufficiente a creare in seno alla natura precarie isole di artificialità umana. Di questo parlano già le antiche teorie sulle età del mondo, le quali ci ricordano, in tono rassegnato, che persino i più grandi Imperi si sfaldano, e che le torri più pretenziose vengono spianate dalla natura invincibile nell'arco di poche generazioni. Il conservatorismo agrario ne espresse le conseguenze ecologico-morali nel divieto categorico di non fare sprechi. Dato che il prodotto del lavoro non si poteva accrescere normalmente, ma si poteva integrare mediante razzie, agli uomini del mondo antico è sempre stato chiaro che il valore prodotto costituiva una grandezza limitata, relativamente costante, che andava assolutamente protetta. In tali condizioni, chi sprecava passava per un dissennato. Perciò le spese narcisistiche dei potenti andavano considerate soltanto come atti di hybris, senza che si potesse ancora prevedere la loro successiva reinterpretazione come «fatti culturali». Questi modi di vedere le cose non hanno più corso da quando, con l'emergere dello stile culturale basato sulle energie fossili, poco più di duecento anni fa, fece la sua comparsa sulla scena un sinistro liberalismo, che iniziò a rovesciare decisamente le carte. Mentre, per la tradizione, lo spreco rappresentava il peccato par excellence contro lo spirito della sussistenza, in quanto metteva a rischio la sempre magra riserva di mezzi di sopravvivenza, nell'epoca dell'energia fossile si verificò un radicale cambiamento di senso, e ormai si può tranquillamente considerare lo spreco come il primo dovere del cittadino. Non che ora le riserve di beni e di energie siano divenute pressoché illimitate; piuttosto sono i confini del possibile a venire costantemente spostati in avanti; questo dà una colorazione sostanzialmente diversa al «senso dell'esistenza». Solo gli stoici fanno ancora affidamento sulle «scorte». Per i comuni epicurei della grande e confortevole Serra, le riserve sono invece qualcosa suscettibile di accrescersi costantemente. Nel giro di poche generazioni, la disponibilità collettiva a consumare sempre di più ha potuto elevarsi al rango di presupposto del sistema: la frivolezza delle masse è l'agente psico-semantico del consumismo. Dalla sua fioritura si può dedurre sino a che punto la leggerezza abbia assunto la posizione di elemento fondamentale. Al posto del divieto di sprecare è subentrato il divieto di essere frugali, che si esprime nei costanti appelli a stimolare la domanda interna. La civiltà moderna si fonda non tanto sull'«uscita dell'umanità da quell'improduttività di cui è essa stessa responsabile», quanto piuttosto sul flusso costante di un'immeritata abbondanza di energia negli spazi delle imprese e dell'esperienza privata. [...] Nel XIX secolo, sia i liberali sia i marxisti avevano tentato seriamente di interpretare la società industriale; tuttavia il grande evento dell'energia fossile non fu percepito in nessuno dei due sistemi, e ancor meno compreso sul piano concettuale. Le ideologie dominanti del XIX secolo e dell'inizio del XX, ponendo al vertice di ogni spiegazione della ricchezza il valore del lavoro, ed esagerandone l'importanza sul piano dottrinale, rimasero cronicamente incapaci di comprendere che il carbone, estratto e utilizzato a livello industriale, non è una «materia prima» come le altre, bensì il primo agente generale di sgravio. Grazie a questo universale «lavoratore della natura» [Naturarbeiter] (che gli alchimisti avevano invano cercato per secoli) fece il suo ingresso nella Serra della civiltà il «principio opulenza» [Prinzip Überfluß]. | << | < | > | >> |Pagina 149Il Rinascimento permanente.
La novella italiana e le notizie della modernità
A Hubert con amore
Il nostro viaggio alle origini della coscienza moderna riguardo a fortuna e sfortuna degli Europei deve iniziare da quel fatale e fatidico XIV secolo in cui si annunciarono i primi segni di un cambiamento, proseguito sino a oggi, del nostro modo di essere-nel-mondo. A partire da questo periodo si moltiplicano infatti gli indizi sul fatto che gli uomini non appartengono più soltanto a una storia naturale nella quale si presume che si ripetano eventi sempre-uguali. Essi sono però altrettanto poco in grado di esistere soltanto come partecipanti a quella storia di Dio con gli uomini che ha improntato il calendario cristiano. Ciò che si sta ora delineando è un terzo modo di vivere la storia, che si potrebbe definire «storia umanizzata della natura» e in cui si tratta nientemeno che di includere la storia della natura nella storia umana. Soltanto verso la fine del XX secolo si è chiaramente arrivati al massimo punto di espansione - che ancora non si sa come potrebbe finire - di questo terzo modo di configurarsi della storia. Infatti da quando gli uomini dei Paesi industrializzati si sono resi conto in quale misura, a causa delle forme di vita improntate alla tecnica, intervengano nella conduzione del pianeta e delle sue realtà biosferiche e atmosferiche, tutti parlano di responsabilità climatiche, anzi di responsabilità ecologica globale. Quasi nessuno però realizza che la scoperta dell'uomo come soggetto attivo nei confronti del clima, nel senso più ampio del termine, risale perlomeno al XIV secolo. Non si può comprendere pienamente il processo che chiamiamo «Rinascimento» finché non si prende atto di quanto la tanto citata «scoperta del mondo e dell'uomo» fosse legata a misure volte a configurare esplicitamente non soltanto l'ambiente simbolico, ma anche quello naturale. A partire da questo periodo, esistono effettivamente nella cultura europea segnali di consapevolezza rispetto alla storia comune della morale e dell'atmosfera, e proprio di questa nascente consapevolezza, e delle tracce che essa ha lasciato nei documenti dell'epoca, intendo ora parlare. Come testimone-chiave del processo che definisco la «scoperta dell'ambiente a partire dallo spirito dell'epidemia», vorrei citare nientemeno che Giovanni Boccaccio (1313-1375), che nel Decameron, cioè il «libro dei dieci giorni», terminato nel 1353, ha illustrato tali aspetti con tutta la chiarezza possibile. In quest' opus che, per un travisamento puritano, si è voluto considerare come un frivolo libro aneddotico, Boccaccio si rivolge a un pubblico di donne, con l'intento dichiarato di aiutarle a guarire dalla malattia femminile più grave, la malinconia, che nell'opinione dell'autore ha origine dalla fissazione dei pensieri su un oggetto irraggiungibile, e contro la quale non esiste altro rimedio se non lo spostamento graduale delle idee verso oggetti di diletto che siano a portata di mano. Soprattutto a queste donne sono destinati i racconti che Boccaccio chiama le «cento novelle» o «novellette», definibili anche, se vogliamo, come «favole», «parabole» oppure «racconti». La cornice narrativa del Decameron ci fa capire che Boccaccio aveva in mente ben più che una mera ginecologia poetica. Egli si propone addirittura di operare la rigenerazione di una società decaduta attraverso una cura esemplare, durante la quale va riappresa l'arte del buon vivere; stando alle parole di Pampinea, la bella e intelligente «iniziatrice» del gruppo di protagonisti del libro, non dobbiamo esitare, anche in presenza delle peggiori sventure, a impiegare in maniera sensata i «rimedii» che sono adatti alla «conservazione della nostra vita», secondo le leggi del diritto naturale («natural ragione»), che vigilano sul «ben vivere d'ogni mortale». Al primo posto troviamo qui il diritto naturale al rasserenamento, in cui confluiscono direttamente morale e igiene. In nessun'altra situazione una simile etica immunologica poteva essere più opportuna che di fronte all'immane catastrofe del XIV secolo, la cosiddetta «morte nera», un'ondata di sciagure proveniente dall'Asia che passò sull'Europa, e che non si sapeva se fosse da spiegare in base all'influenza dei corpi celesti oppure da attribuire alla giusta ira di Dio per le scelleratezze umane. Boccaccio mette in chiaro che, di fronte a una catastrofe di tale portata, falliscono miseramente non solo le arti umane come la medicina, ma anche le consolazioni religiose. Da cronista che osa recarsi in prima linea, egli riassume così quel che accadde in quei giorni terribili:
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del
Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella
egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la
mortifera pestilenza.
[Si noti la rima tra gli aggettivi «fruttifera» e «mortifera», come se l'autore
volesse alludere con discrezione al fatto che il secondo evento potesse essere
idoneo a mettere in dubbio il primo]
... non valendo ... molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora
umili supplicazioni non una volta ma molte ... a Dio fatte dalle divote persone
... E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di
quella per lo comunicare insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia
il fuoco alle cose secche o unte quando molto vi sono avvicinate ... essendo gli
stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e
avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col
grifo e poi co' denti presigli ... in piccola ora appresso, dopo alcuno
avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra gli mal tirati
stracci morti caddero in terra .... E infinite volte avvenne che, andando due
preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, da' portatori
portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a
sepellire, n'aveano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da
alcuna lagrima o lume o compagnia onorati ... tanta e tal fu la crudeltà del
cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo e il
prossimo luglio vegnente ... oltre a centomilia creature umane si crede per
certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti.
Le osservazioni raccolte dal cronista riproducono il quadro di una società urbana in piena disgregazione. Le botteghe erano chiuse, il lavoro dei campi trascurato, i palazzi si svuotavano e cadevano nelle mani di saccheggiatori e beoni apocalittici, gli animali domestici scacciati, perfino i cani più fedeli venivano abbandonati dai loro padroni e, ancor peggio, i genitori abbandonavano i figli malati; il panico e la spudoratezza regnavano nelle case e nelle piazze. Che la gioia di vivere della gente si trovasse in caduta libera lo dimostra il motto arguto di Boccaccio secondo cui le persone più sane facevano colazione con i loro sodali a Firenze, per cenare poi nell'aldilà con i parenti deceduti. A tutte queste sventure Boccaccio contrappone la sua società novellatrice parallela. A due miglia dalla città appestata, su una collina con vista sul paesaggio toscano, ci imbattiamo nella prima Repubblica estetica della modernità, anzi perfino nel primo caso di una counter culture, formata da sette giovani donne e da tre giovani uomini, tutti beneducati e di buona famiglia. Si riuniscono nella chiesa di Santa Maria Novella, in una cospirazione dell'allegria e della cortesia, e si prefiggono l'obiettivo di dedicarsi alla rigenerazione della vita degenerata, utilizzando un alimento il cui vero significato viene scoperto solo in questa scena: questo singolare alimento è il «raccontare», più precisamente il raccontar novelle, ossia «novellare». Le storie possono venire dall'antichità, purché le si narri con un effetto finale nuovo; oppure possono esser prese dal presente, purché in esse avvenga qualcosa di particolarmente stimolante. Quest'attività novellatrice merita di essere esaminata più attentamente, perché da essa deriverà (tema che qui posso soltanto accennare) la maggior parte di ciò che nei secoli successivi chiameremo «l'informazione». Boccaccio presenta nientemeno che la nascita dell'informazione moderna dal principio della ri-animazione. Si potrebbe parlare addirittura della scoperta dei sistemi mentali immunitari. Quando essi funzionano a dovere, gli impulsi morali che nascono da certe storie portano a elevare immediatamente il fitness sociale ed erotico di un gruppo. Che cosa significano queste storie chiamate «novelle»? Se ne narrano dieci al giorno, per cui dopo dieci giornate narrative si raggiunge la cifra di cento. È vero che Boccaccio, come talvolta si è ipotizzato, voleva contrapporre cento episodi di una «commedia umana» ai cento canti della Divina Commedia? Oppure voleva addirittura impegolarsi in un'avventura intellettuale che, vari secoli dopo, si sarebbe chiamata «secolarizzazione», e avvertiva il rischio di quell'impresa con tanta chiarezza da interrompere il flusso della narrazione il venerdì e il sabato, giorni della Passione, per attenuare il contrasto tra lo spirito della storia sacra e i principi della sua terapia terrena? (Motivo per cui la cornice narrativa del Decameron comprende solo dieci giornate narrative, a fronte di quattordici giorni trascorsi in campagna, al termine dei quali i giovani sciolgono il loro gruppo terapeutico, fanno ritorno a Firenze e si rituffano nella vita di una società in via di guarigione). Lo sguardo spassionato di Boccaccio sulla peste fiorentina aveva ben compreso le implicazioni sia sociali sia metafisiche della catastrofe. L'epidemia aveva lacerato il tessuto con cui fino ad allora era imbastita la vita dei cristiani. Il mondo delle leggende devozionali, raccolte sul finire del XIII secolo da Jacopo da Varagine nella Legenda aurea, d'un tratto si era allontanato come una fantasticheria che avesse perso ogni potere e carattere vincolante. Evidentemente il sapere biblico e la fabulazione cristiana non erano in grado di reggere all'impatto con la realtà. Si era constatato che neppure le preghiere o le imprecazioni potevano essere di giovamento, e che il dilagare del contagio non veniva fermato né raccogliendosi in se stessi né lasciandosi andare. L'ordine simbolico nel suo insieme aveva subito uno scossone; i pilastri della speranza razionale erano crollati; di colpo ci si trovava di fronte a un Dio che si era eclissato, un Dio che non si poteva più pregare in modo sensato, visto che nella sua ira imperscrutabile aveva deciso di annientare quasi la metà della popolazione europea in un solo anno. La «Corrente del Golfo» dell'illusione religiosa, che fino ad allora aveva regolato il clima dalle nostre parti, si era interrotta e chiunque avesse interesse alla prosecuzione della vita in forme sopportabili doveva cercare fonti di ispirazione alternative per dare slancio alla volontà di vivere. | << | < | > | >> |Pagina 158Con queste indicazioni vorrei corroborare la tesi secondo cui, all'inizio dell'età moderna europea, che al tempo stesso annuncia l'era della globalizzazione, avvenne un mutamento strutturale nella fede, grazie al quale l'attivismo moderno sostituì l'atteggiamento di passività caratteristico del Medioevo, a dispetto di tutte le manovre del partito del passivismo, meglio noto con il nome confessionale di «cattolicesimo». Gli uomini del Rinascimento non conoscono ancora l'eresia della successiva modernità, secondo cui l'uomo vuol descrivere se stesso come soggetto autonomo. Per loro l'uomo è e rimane una creatura soggetta a influssi, per non dire una palla da gioco nelle mani di potenze sovrumane, uno strumento mediante il quale operano le più svariate grandezze transpersonali. E tuttavia essi iniziano a comprendere che chi permette che si giochi con lui entra in gioco lui stesso. E, come ha insegnato la filosofia della libertà del XX secolo, è importante che noi stessi facciamo qualcosa a partire da ciò che è stato fatto di noi. Si sviluppa così tra i primi attori dell'età moderna la massima implicita secondo cui è in nostro potere giocare con ciò che gioca con noi. Su questa linea, Shakespeare potrà dire in As You Like che il mondo è un palcoscenico e che gli uomini e le donne altro non sono che attori. Affinché però i contemporanei possano farsi un'idea corretta di tale palcoscenico, ecco mettersi all'opera i globografi, Waldseemüller, Apiano, Mercatore e tanti altri. Imitare la natura significava in quel periodo creare una raffigurazione della Terra come una sfera su cui fosse facile orientarsi. È un caso altamente simbolico che il principe dei drammaturghi abbia voluto mostrare proprio su un palcoscenico, detto Globe-Theatre, che cosa succede quando gli uomini giocano con ciò che gioca con loro.
Tocchiamo qui la ragione profonda della formula oggi ricorrente dei
global players.
A partire dalla spedizione di Colombo del 1492,
esiste in Europa un'avanguardia intellettuale la quale si rende
conto che ciò che vuol giocare con noi è la Terra stessa. Da quando
ne è stata dimostrata definitivamente la forma sferica, essa è diventata una
palla che gli uomini devono allo stesso tempo afferrare e
abitare. Questo compito paradossale non è chiaro a tutti, e ancora
oggi ci sono persone che non vogliono comprendere con quali regole si giochi a
partire da Colombo: non vedono arrivare la palla, e
si rifiutano di afferrarla o di lanciarla. Se però è il globo stesso a
giocare con noi, volenti o nolenti noi dobbiamo giocare con il
globo. Nell'autunno del fatidico 1492, il giovane Martin Behaim,
di ritorno da un viaggio d'affari a Lisbona, costruisce a Norimberga
il primo globo terrestre conosciuto in Europa, per mostrare ai suoi
compatrioti quali sarebbero state le assi del palcoscenico del mondo
futuro, ossia le plance delle flotte d'alto mare. Il viaggio per mare
diventa ora frutto del destino. Solo lo spirito che si adatta all'alto
mare può tenere il passo con le esigenze dei tempi nuovi. Ormai si
dice: «Salite a bordo, o filosofi! Salpate in mare, o credenti!».
L'oceano è il primo Internet, e l'ingegneria navale è la sua epoca
espressa in pensieri.
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