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| << | < | > | >> |IndiceChi è il mio prossimo? 9 - Il pianerottolo - Case chiuse - Chi è mio fratello? - La parabola dei Trentasette - Le opposte farfalle - Il prossimo non si sceglie. Note 46 Va tutto storto. Sull'eterogenesi dei fini 53 - Lo sguardo innamorato - La riluttanza di Einstein - «Tutto è relativo» - Libertà e determinazione - Giambattista Vico e l'eterogenesi dei fini - Machiavelli e il 50 per cento di determinazione - Fisica e ordine pubblico - La farina del diavolo, e quella degli angeli buoni - L'eclisse della realtà esterna - L'ideologia e l'addestramento ai gerghi - Come cambia il mondo - Al diavolo il corpo - Se il mondo stia finendo - L'ultima volta delle cose - La professione del politico - La favole delle api - Gli infortuni della virtù - Il bambino buono e il bambino cattivo - Il contesto e la complessità - Le rivoluzioni non si giudicano dalle loro conseguenze? - Gli uomini riescono meglio nel male - La doppia partita: football ou barbarie - Piove sul bagnato - Tsunami - I danni collaterali Note 128 Dell'ottimismo 147 - Suipacha, Esmeralda - A castello - L'isola del Diavolo - Il codice genetico, e i ragni - Prima l'ottimismo - La sola volta del pessimismo leopardiano - La gobba, e la lontananza - La Cina si avvicina - Parigi è lontana - La piccolezza come disvalore - Pascal e la virtù di mezzo - La zanzara e il dinosauro - Uccidere da lontano - Il comandamento e la sovranità nazionale - Il mio prossimo - Vedere da lontano - Il terremoto di Lisbona e del Gujarat - Soffrire da lontano - La memoria presbite - Darwin, Marx, e il malinteso - La superstizione «scientifica» e la mania bolscevica della vittoria - Scritture Sacre e guerre per un paragrafo - Il rancore contro l'illuminismo - Il buon eclettismo e le cose da smettere - Ecessi di zelo - La Borsa, e la vita - La Statistica, e la vita - «Des malheurs de chaque étre un bonheur général» - Come passò alla storia Vilhjalmar Hàkonarsson - I grandi numeri, e il mio personale biglietto della lotteria - Il management della percezione - Il mondo preso per la coda - L'ubriaco scampato alla media Note 210 Le generazioni future non votano 215 - Obesi e macilenti - Solidarietà contro carità? - Don Milani e Alex - Parigi e Costantinopoli - L'adozione a distanza (di sicurezza) - L'adozione a distanza di tempo - Il mondo invecchia peggiorando? - Il trovarobe di Amleto - Cassandra - Giacomo De Benedetti. «16 ottobre 1943» - Brontoteologia - L'Antropocene e gli esami di riparazione - Se sapessimo almeno calcolare il tempo di dimezzamento delle nostre idee sbagliate - Quante divisioni hanno le generazioni future? - Israele e il buon uso dell'atomica - L'ultima generazione - Jonas che ha una certa età - Persone cui importa quello che succederà fra mille anni, o mille anni fa - Si fa l'amore - Senza umani? - La signora Jin Yani - La demografia coercitiva e l'habeas corpus - Guang gun-er, i rami spogli - Badanti - Dopo Cristo - Short-termism - Milioni di anni, milioni di morti. Uomini e cavalli - La sregolatezza della storia - Lettera sul comunismo - Torniamo al futuro - L'egoismo è l'altruismo - L'ossigeno in barile - Se scopriamo di essere mortali - Gli obblighi morali sono destinati a diventare giuridici? - Bonjour - «Nel dubbio, stiamo coi posteri» - Fucking without love - Il dispotismo si addice al futuro? - Donne al volante - Una «tirannia della penitenza?» - Più Note 326 Il figlio prodigo, il prediletto 341 Nota 345 Indice dei nomi 347 |
| << | < | > | >> |Pagina 19Bisogna tornare alla portata dell'universalità. Ma prima voglio fare una digressione, per risuscitare un'altra parabola di cronaca. Non da una strada israeliana o palestinese questa volta, da una del centro di Roma. La tiro fuori dai giornali, quelli del dicembre 2003, e quelli del maggio 2006. La prima puntata è una tipica storia di Natale, avviene a Roma quasi alla vigilia, e il protagonista si chiama Natalino - Morea, di cognome - perché è nato proprio il 24 dicembre, nel 1946, a Massafra, Taranto, ultimo di nove figli. Dunque ha 57 anni, mangia alla Caritas, dorme dalle suore o sotto i ponti, negli ultimi tempi trova a volte ospitalità da una signora di Ostia. Una sera, sul viale Ostiense, vede delle ragazze — riconosce il loro accento pugliese — molestate da due bulli, che forse vogliono rapinarle. Natalino si mette in mezzo, le ragazze riescono ad allontanarsi e a chiamare la polizia. Quando arrivano gli agenti, Natalino è a terra con la testa rotta e il corpo massacrato a sprangate pugni e calci. Starà in coma per parecchi giorni, perderà un occhio, si salverà. Il 31 dicembre il presidente Ciampi gli assegna motu proprio la medaglia d'oro al valor civile.I giornali vanno a cercare i suoi famigliari, che da anni, dicono, avevano perso le sue tracce. In realtà Natalino è scappato dal paese perché non voleva più essere deriso e insultato per la sua omosessualità. Anche alla Caritas di Ostia, dice la sua amica, lo sfottevano, soprattutto certi polacchi quando erano ubriachi. Si è sempre il barbone di qualche barbone. (Anni fa, quando i polacchi erano nuovi, a Roma degli zingari lavavetri si ossigenavano i capelli per assomigliare ai benvisti polacchi). A un suo nipote, il più benvoluto, Natalino raccontò una volta che secondo la leggenda i nati nella notte di Natale sono destinati a trasformarsi in lupi mannari. «Guarda qua invece come riesco a trasformarmi io», e mostrò al nipote le foto in cui era vestito da donna. «Era bravissimo a cucire». Passa qualche mese e Natalino, ancora male in forze, torna al suo paese. La prossima volta che se ne parla, e anche l'ultima, è perché è morto, il 17 maggio 2006, giorno della lotta contro l'omofobia. Pressoché nessuno se ne accorgerebbe, se un passante non ne riconoscesse il nome su un manifesto funebre dell'ospedale. Così il comune di Massafra può mandare in extremis un gonfalone nella chiesa in cui si celebra il funerale, e il presidente Napolitano può salutarlo: «Ricordo con gratitudine ed emozione Natale Morea. La figura di un eroe senza casa è scolpita nella memoria collettiva».
Ho letto una interpretazione del buon samaritano
che teneva a sottolineare come all'amore per il prossimo convenissero anche le
risorse efficaci: il vino e
l'olio da versare nelle ferite per il primo soccorso, il
giumento su cui caricare il ferito, il denaro per la locanda. Natalino avrà
avuto tutt'al più un cartone di vino. Va bene: Natalino ha capito subito chi
fosse il suo prossimo, fra i due bulli e le ragazze, per giunta
pugliesi come lui. Quanto alle risorse, era barbone, gay,
in esilio, zimbello dei polacchi della Caritas, quando
avevano troppo bevuto.
Dunque ciascuno può essere il prossimo che aiuta e il prossimo che viene aiutato. Nel caso di Cheikh Sarr, 27 anni, senegalese, che annegò il 14 agosto 2004 a Donoratico per salvare «uno di noi», uno di noi, spogliato ma perché bagnante, salvato, si allontanò alla chetichella nel trambusto senza dire una parola — senza dare una parola. L'episodio si ripeté tal quale nel mare di Jesolo, il 23 luglio 2007, furono soccorsi due bambini italiani, il soccorritore bosniaco, Dragan Cigan, muratore, 32 anni, padre di due figli, annegò, i genitori dei bambini salvati si sbrigarono ad andar via. Benché aggiunga molto - l'amore - al precetto, già biblico e confuciano, di non fare agli altri quello che non si vorrebbe fatto a sé, e anche alla versione positiva, fa' quello che desideri per te, non è dunque un'innovazione del vangelo l'esortazione ad amare il prossimo come se stessi. Era tuttavia limitata da quelle accezioni parziali, i «miei», famigliari, connazionali, magari anche gli stranieri in memoria del tempo in cui Israele era vissuto straniero ed esule: ed era tanto più forte quanto più parziale e ravvicinata. Vicinanza - fisica, dal vincolo di consanguineità fino alla condivisione di una terra - e amore erano direttamente proporzionali. Nemmeno questo comandamento era scontato: si sa come sia speciale e furioso, quando divampa, l'odio fra vicini e perfino fra fratelli. La parabola del samaritano travolge quel concetto immediato, fisico di vicinanza. Oltre a tuo fratello, a quello che ti abita accanto, può darsi che il prossimo sia, secondo il criterio «naturale», «il più lontano». Il samaritano, appunto, cioè il diverso confinante e malvisto. Queste idee ci arrivano più confusamente, perché il mondo si è fatto piccolo e ravvicinato, e a volte capovolge bellamente l'impressione della vicinanza e della distanza. Per esempio nella confidenza singolare che si stabilisce lontano da casa, in una vacanza o in un viaggio d'affari, o in un'opera buona, mentre si tiene un riserbo chiuso e diffidente sul proprio pianerottolo. Ovvero nell'avvicinare il prossimo più remoto fino ad afferrarlo, ad arraffarlo, come nel turismo sessuale, o nel nuovo schiavismo. | << | < | > | >> |Pagina 23Il pianerottolo
Esiodo, che ricorda il precetto di invitare a banchetto i vicini di casa,
dice che se ti succede qualcosa i parenti corrono dopo aver indossato la
cintura, i vicini corrono discinti.
Erba, dicembre 2006. Una coppia riservata, Rosa e Olindo. Un coltello da cucina, un martello. Accoltellati, pestati, sgozzati un bambino, sua madre, sua nonna, due anziani dirimpettai. La lezione è semplice, benché siamo riluttanti a riconoscerla: non c'è grandezza nel male. Ho trascorso anni accanto a un assassino di vicini di casa - si tratta infatti di una piccola ma robusta categoria penitenziaria. Aveva sempre gli occhi rossi, piagnucolava, compiangeva «la sua disgrazia» - così la chiamava. Non c'è grandezza nemmeno quando il campo di battaglia si allarga dal pianerottolo a un continente. Bisogna riconoscere l'ovvietà, senza perdere il raccapriccio. I proverbi si sbrigano: Dio mi guardi dal cattivo vicino, e dal principiante di violino. Nel villaggio di Jedwabne, Polonia, il 10 luglio 1941 gli occupanti nazisti permettono alle autorità locali e alla cittadinanza non ebraica di dar la caccia ai concittadini ebrei. Gli abitanti sono circa 2.500, fra loro gli ebrei sono 1.600. Alla fine della giornata sono stati sterminati, ad eccezione di sette scampati. Sono stati trucidati a colpi di randelli, asce, attrezzi da lavoro, bastoni: come nel condominio di Erba. Come nel condominio di Erba, c'è stato un gran rogo finale: centinaia di ebrei sono stati ammucchiati in un granaio e bruciati vivi, nel tripudio della brava gente. Il libro di Jan Gross che ha ricostruito quel giorno si chiama Sasiedzi in polacco, Neighbors in inglese, cioè Vicini di casa (neighbor è anche il prossimo). L'edizione italiana (Mondadori, 2002) si intitola I carnefici della porta accanto. Non è una metafora: sono proprio i vicini di casa. Nel pogrom, questa prossimità spinta fino all'intimità è spesso essenziale. A volte non ha bisogno di esaltarsi bestialmente dell'odore del sangue - gli uomini infatti si fanno prendere dall'odore del sangue più dei lupi. A volte resta affabile. Il bravo cattolico chiede al vicino di casa ebreo, col quale è così in confidenza: «Dalli a me i tuoi stivali, piuttosto che li prenda un estraneo, a che cosa vuoi che ti servano ormai». Sono vicini di casa quelli che da un giorno all'altro si dimenticano dello scambio di una cipolla o di una teglia nei giorni feriali, e dei dolciumi caratteristici nei giorni festivi, e si avventano al collo di vecchi donne e bambini, e bambini nel grembo di donne, a Vukovar o a Gorazde, o a Kigali. Poiché non vuole rassegnarsi alla propria ignobiltà, l'animale umano si attarda a figurarsi una magnanimità, una grandiosità, magari torva, degli assassini privati, e almeno di quelli pubblici, sulla larga scala. Banalità del male va bene, ma la coppia di Erba è troppo: maniaci dell'ordine e dell'orario, addirittura netturbino lui, donna delle pulizie lei, troppa grazia. Qualcosa che avesse a che fare con gli extracomunitari, o almeno con il carcere, o almeno con l'indulto, si poteva starci, a malincuore, o perfino con un certo compiacimento. Ma così! Troppo ordinario, troppo volgare. Eppure, per questioni di ballatoio, il mondo si scanna. L'odio morde e lecca la vicinanza. Grattate bene sotto la crosta indurita del conflitto israelo-palestinese, e ci troverete questa irredimibile intimità di vicini di casa. («Un litigio condominiale tra due proprietari ugualmente legittimi», dice Amos Oz). Quando su una frontiera si costruisce un muro, è quella intimità che si cerca di spezzare, e insieme senza volere la si confessa. Le cittadine toscane sono così belle di case-torri perché una famiglia doveva arroccarsi e difendersi dalla vicina. Nel centro di Siena vi mostreranno due palazzetti attigui, ma separati da una fessura di un dito, come due bellimbusti che si fronteggino sfidandosi a morte: «Prova a toccarmi». Le liti di condominio servono a spiegare le guerre mondiali. Oggi la proliferazione nucleare, sul punto di tracimare irreparabilmente, prende a ragione, e a pretesto, il cattivo vicino. Punzecchiato dai missili nordcoreani, il Giappone rinfocola il suo retaggio patriottico, promuove simbolicamente la sua Agenzia per la difesa al rango di Ministero, prepara la revisione della Costituzione e liquida l'interdetto sull'atomica. Infilzata da Ah-madinejàd e Khamenei, la dinastia saudita rivendica la sua atomica, e poi l'Egitto e via via gli altri. Quando Gross studiava Jedwabne, e poi la sequela di pogrom che insanguinò i villaggi polacchi anche all'indomani della guerra e di Auschwitz e del cambio di regime, non si capacitava che si possa sgozzare, «in un giorno normale», il proprio compagno di banco, la propria compagna di gita, il proprio barbiere, la propria sarta. Succede, non «nonostante» sia lui o lei, ma «perché» è lui o lei. Si è cercato di spiegare il meccanismo totalitario della docilità all'assassinio attraverso la distanza frapposta fra il carnefice e la vittima designata: lontano dagli occhi. Eppure succede anche il contrario: succede che gli occhi che hanno sempre visto mettano a fuoco e scelgano il proprio prossimo come bersaglio sanguinoso. Del resto la tortura non è affare di robot. La strage di condominio sta al capo opposto dello spiegamento di potenza tecnologica delle bombe intelligenti e delle macchine teleguidate, capaci di distruggere senza sporcarsi le mani, senza dover vedere la vittima né udirne il pianto e la maledizione, senza dover vomitare un momento dopo. Non si può ridurre il conflitto fra gli Stati e le potenze a quello fra le persone, le colossali questioni politiche ed economiche alle private tensioni e le esasperazioni psicologiche: ma un fondo comune, un oscuro schifoso fondo comune vuole farsi sentire. Le famiglie felici si assomigliano, le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo - è un pensiero bellissimo, non so se sia vero. C'è nel male, e forse anche nell'infelicità, una forza che abbassa e degrada e rende turpemente somiglianti. La famiglia guarisce e uccide. Negli anni '60 un'idea libertaria denunciava «la famiglia che uccide»: che uccide i suoi membri, cioè. Oggi, nonostante il rumore di fondo ininterrotto sui valori della famiglia, abbiamo una nozione assai lucida e certificata della famiglia che uccide, che fa la guardia ai panni sporchi delle violenze sui bambini e sulle donne, della stessa finora indicibile violenza angosciata delle madri. E tuttavia possiamo guardarci dalla doppia ideologia, della sacra famiglia e dell'anti-famiglia, e misurarci con l'esperienza, le sofferenze, le felicità. I due sciagurati di Erba sono una famiglia, hanno pagato la solidità del loro naufragio comune diventando una famiglia che uccide fuori di sé, contro il resto del mondo. La piazza pulita, l'ordine del mondo dipendevano da loro. Le circostanze sono state all'altezza dei tempi. Hanno dato loro il nemico, il vicino di casa, con le fattezze appropriate alla rivolta contro lo stato d'assedio universale: lo straniero, la donna passata allo straniero, il bambino mezzo straniero che li avrebbe espropriati del futuro in casa loro. Hanno scatenato una sortita disperata all'arma bianca, coltelli e mazza. Era la loro questione privata, è diventata la loro guerra mondiale. Uno degli aggrediti, se non ho frainteso questo inconcepibile dettaglio, è scampato alla sgozzatura per un'anomalia della sua trachea. Incidente a parte, quella dei due giustizieri di Erba era, come vogliono i regolamenti, una guerra di sterminio che non prevedeva superstiti. | << | < | > | >> |Pagina 53Il 26 aprile 1953 Albert Einstein scrisse da Princeton al professor Antonio Russi, a Pisa: «La ringrazio molto per la bella acquaforte. La Torre di Pisa è un bel simbolo dell'impossibilità degli esseri umani di prevedere le implicazioni sociali delle loro opere. L'artista, naturalmente, non previde che la debolezza delle fondamenta avrebbe prodotto l'inclinazione della torre e che questo avrebbe attirato l'attenzione di tutta l'umanità. Ciò non è forse vero anche per creazioni più astratte dell'uomo nel senso che le loro effettive conseguenze sociali corrispondono solo in minima parte alle intenzioni del creatore? Guardandola con attenzione nella splendida riproduzione che lei mi ha inviato mi è sorto un curioso pensiero. Forse anch'io, come l'autore di quel monumento, passerò alla storia per un difetto della mia opera. Con gratitudine e con i miei migliori saluti. A. E.».
Una letterina di circostanza, dunque. Ma assai notevole, a
pensarci bene: benché Dio, secondo Einstein, non giochi a dadi, dev'essere
andato storto anche a lui qualcosa.
Lo sguardo innamorato La mia insegnante di fisica al liceo amava in realtà il greco e le poesie. Fui il suo beniamino ma uscii, a differenza di Scalfari e Calvino, senza aver sentito nominare il principio di indeterminazione. Alla Scuola Normale però Heisenberg e il suo principio erano citati dai miei colleghi fisici altrettanto spesso che il nichilismo in una Conferenza episcopale. Non chiesi subito di che cosa si trattasse: una domanda così poteva costare, a una matricola, duecento flessioni. Quando la feci, un mio amico fisico, che doveva avere una gran voglia di sbrigarsi di me, mi disse: «Il principio di indeterminazione significa che lo sguardo dell'osservatore modifica il fenomeno osservato». Ricordo bene la frase, per il suo senso misterioso, oltre il quale allora non andai. Mi parve che si potesse applicare all'amore, cioè all'evento, statisticamente inspiegabile, per il quale due persone si incontrano e desiderano perdersi l'una nell'altra, come anime gemelle. Due, su 6 miliardi e mezzo - allora eravamo solo 3 miliardi. E saranno ancora due, quando saremo - sarete - 20 miliardi. (Questioni di sguardi, e della loro reciproca influenza. Il Dolce stil novo la sapeva lunga su questa branca dell'ottica). Comincio da qui perché, zoppo come sono sul versante dell'eleganza matematica e della mentalità scientifica, sono attratto dai modi in cui i termini scientifici vengono accolti e adattati dall'immaginazione profana. Sugli abusi linguistici e metaforici delle formule scientifiche da parte degli intellettuali «umanisti» infieriva il discusso libro di Alan Sokal e Jean Bricmont, Imposture intellettuali (in italiano da Garzzanti, 1999). I maestri del pensiero «postmoderni» lì accusati accusarono a loro volta i due di «scientismo»: punto sul quale non so pronunciarmi, sebbene simpatizzi per chi ammonisce che la realtà esiste, e non è una costruzione, e tanto meno una decostruzione degli animali umani. (La burla di Sokal, il quale aveva scritto un articolo pieno di sofisticate baggianate scientifiche per trarre in inganno gli intellettuali di grido, che abboccarono come pesci di scoglio, era stata bella e crudele, nel suo genere, come quella delle false teste di Modigliani. Che non a caso seminò il panico nei ranghi di una disciplina fra le più cedevoli agli illusionismi della ciarlataneria verbale, come la critica d'arte). Nella stessa direzione avevo letto con gran piacere il libro di un professore goriziano-triestino, Paolo Bozzi: autobiografia di uno psicologo della percezione, violinista e «inguaribilmente realista», e insieme trattato di Fisica ingenua (Garzanti 1990), cioè della percezione comune, «aristotelica», dei fenomeni fisici sui quali si regolano i nostri atti quotidiani. Abbiamo tutti esperienza delle mode temporalesche che trascinano un'espressione scientifica fuori dal suo campo, nel linguaggio comune o in quello dotto, e delle usurpazioni e distorsioni che ne derivano. Spesso il successo è dovuto al fascino dei termini: «buchi neri», per esempio. Qualche anno fa non si era ammessi a una riunione di verdi senza pronunciare la parola d'ordine: «Entropia». Scaricata la valigia, pesante, delle leggi dell'economia, si metteva in spalla il Secondo principio della termodinamica, più leggero - solo in apparenza.
Delle nozioni che hanno fatto fortuna fuori dal seminato, la più importante
è senz'altro «evoluzione».
Intanto perché evoluzione era un'antitesi di rivoluzione, oppure un suo più
vasto orizzonte: la rivoluzione (che pure in politica entrò tardi, ed era una
nozione astronomica, e il più grande rivoluzionista fu Copernico) appartiene
alla storia fatta dagli umani, mentre l'evoluzione alla storia naturale, da cui
gli umani sono fatti. Anche per Marx: l'uomo fa la rivoluzione, ed è fatto
dall'evoluzione. Benché Darwin sia fieramente assaltato dal neovitalismo
«creativo» della biogenetica, o dall'espediente del Disegno intelligente,
il successo dell'evoluzione presso il grande pubblico
è per fortuna quotidianamente rinfocolato dai documentari televisivi, peraltro
mirabili, su animali e piante. Un coccodrillo spalanca le fauci, ed ecco che
l'oca selvatica che gli sta davanti sviluppa, per la legge
dell'evoluzione della specie, un paio di ali, e se la squaglia. Senza selezione
naturale, evoluzione e adattamento, il coccodrillo se la sarebbe mangiata.
Davanti ai nostri occhi.
La riluttanza di Einstein Torniamo al principio di indeterminazione. Secondo il quale, coppie di quantità (posizione e velocità, energia e tempo) non possono essere misurate contemporaneamente con precisione infinita. La precisione ottenibile è il risultato di due precisioni distinti, e ha un limite che non potrà mai oltrepassare. (Per la meccanica quantistica la predizione si riduce alla probabilità degli esiti eventuali). Dunque il principio - caso poco meno che unico, accanto a quello all'incirca contemporaneo del cosiddetto teorema di incompletezza di Gödel (1930) - stabilisce una limitazione irreversibile alla capacità predittiva della scienza. Il determinismo positivista immaginava teoricamente possibile - a parte la limitazione pratica degli strumenti tecnici - una conoscenza completa: a partire dalla quale, misurate tutte le particelle, sarebbe diventato prevedibile il futuro dell'universo (e, dettaglio altrettanto ghiotto, il passato. Come in Laplace 1825: «A un'intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono... nulla sarebbe incerto e l'avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi»). Alla mia comprensione di profano, certe denominazioni scientifiche suonano insoddisfacenti, o contraddittorie con il loro significato: è così per il principio di indeterminazione, o, negli stessi paraggi, per la usatissima formula psicologica della «eterogenesi dei fini». Al profano la parola «indeterminazione» non rende facilmente l'idea, che è piuttosto quella di un'approssimazione, una probabilità, un'imprecisione ineliminabile della conoscenza. Idea cui non era facile rassegnarsi, neanche per chi, come Einstein, aveva, all'inizio del secolo, gettato le basi della fisica quantistica con gli studi sull'effetto fotoelettrico (per questo, e non per la relatività, ottenne il Nobel nel 1921) e con la conferma termodinamica alla teoria di radiazione del corpo nero (ecco un'altra denominazione allettante) di Max Planck. Fu per manifestare la sua strenua riluttanza che Einstein pronunciò la famosa frase su Dio che non gioca a dadi. Werner Heisenberg lo racconta puntigliosamente nelle sue memorie: «Einstein non volle accettare il principio di indeterminazione. Non era disposto ad ammettere, nemmeno in linea di principio, l'impossibilità di scoprire tutti i fatti parziali necessari per descrivere un processo fisico» (Fisica e oltre, Bollati Boringhieri 1999). Einstein si sentì portar via la terra sotto i piedi, e fu offeso quasi quanto lo erano stati i suoi colleghi costretti da lui ad abbandonare la terraferma del concetto di simultaneità.
Le vicende di questi grandi sono spesso una spettacolosa sconfessione delle
tesi epistemologiche sulla dipendenza delle ricerche scientifiche dalle teorie
prevenute dei loro autori. Nel 1905, pubblicando sugli «Annalen der Physik»
l'articolo sul cosiddetto effetto fotoelettrico, che segnava appunto una
rivoluzione nella fisica corrente, Einstein aveva intitolato timidamente «Su un
punto di vista
euristico
circa la produzione e trasformazione della luce». E, a proposito di
timidezze, dovendo raccomandare il genio di Einstein
ancora nel 1913 per un posto all'Accademia Prussiana
e un dottorato di ricerca, Planck si sentì tenuto a scrivere: «Che egli abbia
talora perduto di vista l'obiettivo delle sue speculazioni, come per esempio
nelle ipotesi sui quanti di luce, non può essergli mosso a rimprovero»...
L'esempio più bello lo offre lo stesso Planck,
rievocando a distanza di trent'anni in una lettera privata la propria scoperta
epocale: «un atto di disperazione», intrapreso a dispetto della sua indole
pacifica e aliena dalle avventure. «Ma mi ero misurato già da
sei anni (dal 1894) col problema dell'equilibrio della materia e della
radiazione, invano; sapevo che il problema ha un rilievo fondamentale per la
fisica; conoscevo la formula che riproduce la distribuzione dell'energia nello
spettro normale; un'interpretazione teorica
doveva
essere trovata a qualsiasi costo». Raccontava di essere stato disposto a
sacrificare ogni convinzione precedente, con la sola eccezione delle due leggi
della termodinamica. Quando trovò che l'ipotesi dei quanti di
energia le avrebbe salvate, la accolse come «una assunzione puramente formale,
cui non riservai molta attenzione, se non per questo: che dovevo ottenere un
risultato positivo, in qualunque circostanza e a qualsiasi costo» (cit. in M. J.
Klein,
The beginnings of the quantum theory,
1972).
«Tutto è relativo» Non so esattamente da dove Werner Heisenberg ricavasse la predilezione per il nome «indeterminazione», e se venisse da lui, o dal suo maestro e collega, padre della meccanica quantistica, il danese Niels Bohr. Nelle sue memorie, Heisenberg racconta di aver formulato l'ipotesi, nel 1927, di quello «che in seguito venne chiamato principio di indeterminazione». Nella corrispondenza del 1927 prima di «unbestimmtheit» venne «unschärfe», che sembrerebbe piuttosto «indeterminatezza», vaghezza — imprecisione. Del resto è così che si chiama di preferenza in alcune lingue, «principio d'incertezza». Jean-Marc Lévy-Leblond e Françoise Balibar scrivono: «Il principio d'incertezza è spesso chiamato principio d'indeterminazione. L'impiego dei due termini per designare la stessa nozione deriva da una difficoltà al momento della traduzione in inglese dell'articolo di Heisenberg. In effetti, nella prima redazione dell'articolo, Heisenberg impiega i termini Unsicherheit (incertezza) e Ungenauigkeit (imprecisione). Più tardi, rendendosi conto che quei termini possono prestarsi a confusioni, egli decide di utilizzare il termine Unbestimmtheit (indeterminazione). Ma l'articolo era già tradotto». Gli scienziati, come i farmacisti, si possono sbizzarrire nell'invenzione dei nomi: quando Gell-Mann (1964) battezzò le particelle subatomiche «quark», e «anti-quark», prese a prestito un nonsense onomatopeico di Joyce. (Del Finnegan's Wake, per l'esattezza: opera che ricalcava dichiaratamente nella struttura i Principi della Scienza Nuova del Vico. Il mondo è piccolo, come vedremo fra poco). Secondo Bohr, «quando si arriva agli atomi, il linguaggio va utilizzato come avviene in poesia». La scelta delle denominazioni è a suo modo rivelatrice delle inclinazioni dei suoi autori. Heisenberg riferisce a proposito del «soggettivismo» del fisico e filosofo Ernst Mach una battutaccia di Einstein (il quale peraltro lo ammirava): «Non mi meraviglia che il principio da lui avanzato abbia preso un nome che puzza di commerciale: economia del pensiero». Ma perfino alla denominazione della «relatività» si poteva immaginare qualche alternativa. Alla «relatività» di Einstein è toccata una delle più vaste e ingovernabili tracimazioni dal campo scientifico a quello filosofico e al linguaggio comune. Dopo Einstein, la gente al bar dice: «Tutto è relativo» con ben altro piglio. Ogni genere di pensieri deboli ed esausti se ne sentì autorizzato. Tuttavia Einstein aveva avuto l'intenzione opposta. In un'altra temperie culturale e linguistica la sua si sarebbe chiamata magari teoria della «assolutezza» speciale (o dell'«assolutezza ristretta»...) e della «assolutezza» generale. Einstein teneva a che le leggi fondamentali della fisica dovessero valere rispetto a qualunque sistema di riferimento. Per salvare questo principio cambiò le regole di trasformazione da un sistema all'altro, così che spazio e tempo non furono più assoluti ma relativi. Non cambiavano più solo le velocità, ma anche le lunghezze; spazio e tempo cessavano di essere oggettivi, ma le leggi fondamentali restavano immutate per tutti i sistemi, compresi, con l'introduzione della gravità, anche i sistemi accelerati, ruotanti ecc. Un fisico lo chiamerebbe desiderio di «salvare la simmetria». (Anche l'ambientazione delle scoperte scientifiche è relativa. Del nostro Einstein liceale ci restano in un taschino del cervello orologi e marciapiedi ferroviari, capistazione e treni. La relatività galileiana andava a sua volta per nave: un oggetto su una nave si muoveva o stava fermo a seconda che lo si guardasse da terra o da bordo. Oggi sarebbero almeno astronavi).
Così dunque una corrente «forte» della fisica diventa
«debole» in filosofia e nel senso comune. Oggi lo zelo etico antirelativista se
ne rivale con gli interessi. La riluttanza einsteiniana all'indeterminatezza
probabilistica era rimasta, anche una volta rivoluzionati spazio
e tempo. Quella di altri scontenti, compresi i marxisti
fatalisti in politica, o i materialisti dialettici in fisica,
procedeva più rozzamente, o più fideisticamente: escogitando per esempio la
teoria delle variabili nascoste,
le quali ci sono, benché non le conosciamo e non possiamo aver loro accesso, ma
se le conoscessimo saremmo a posto col determinismo filosofico. Oppure la teoria
degli universi paralleli, per cui a ogni biforcazione
c'è un universo che va di qua, e l'altro universo di là.
Il vecchio dilemma dell'Ercole al bivio si supera così,
andando da tutte e due le parti.
Libertà e determinazione Il vecchio dilemma, che riempiva i temi del liceo, era e resta quello della libertà. Se ho davanti a me due strade e posso scegliere, sono libero. Tuttavia una volta che abbia scelto, non sono più libero, e questo vuol dire forse che non lo sono stato neanche prima. Ma se esistessero due mondi paralleli, e due io paralleli... A posteriori, la libertà non c'è più: posso concludere che non ci sia mai stata, o che c'era e l'ho consumata, ma il risultato resta quello. Per una scienza convinta della conoscibilità (e osservabilità e misurabilità) infinita, salvi i difetti quantitativi degli strumenti tecnici, ogni passo avanti della conoscenza riduce la libertà e accresce di altrettanto il determinismo. Oggi, in un modo più o meno irriflesso, le scienze da prima pagina - l'ingegneria genetica, la neurofisiologia - promettono una conoscibilità perfetta della vita umana e, una volta risolti i due o tre miliardi di problemi pratici, una sua prevedibilità e plasmabilità totale: una determinazione senza residui (o, nella versione più «postmoderna», una ri-creazione). Prospettiva entusiasmante per alcuni, seccantissima per altri (per me, fra gli altri): i quali ultimi però non vorrebbero finire per opporsi a ogni progresso della conoscenza in nome della nostalgia della libertà. Ora, così come lo capisco, il principio di indeterminazione può metter d'accordo le due cose, perché accerta che la conoscenza non sia limitata solo da un «non ancora» - ciò che ancora non abbiamo scoperto e saputo - ma da una dose insuperabile di approssimazione e imprevedibilità. Una dose, oltretutto, rilevante. Credo che anche il più appassionato scienziato partecipi di questo avviso, e non gli dispiaccia, benché la cronaca sia così spettacolare da renderci disposti a qualunque ultima notizia, dopo che la clonazione dalla cellula è sembrata assicurare una specie di mondi paralleli, sia pure per ora con uno scarto di tempo: un altro io, fuori sincrono.
Non mi sembra che questa differenza «teorica»
fosse presa in conto da Sokal e Bricmont. I quali, dopo aver ribadito che
determinismo e predicibilità non
sono la stessa cosa, ricordano che Laplace introdusse
il determinismo universale con la riserva che saremmo rimasti sempre
«infinitamente lontani» da quella intelligenza immaginaria della «situazione
rispettiva degli esseri», cioè, nel linguaggio odierno, «delle condizioni
iniziali precise di tutte le particelle». Tant'è
vero che il principio fu enunciato da Laplace nel contesto di una teoria della
probabilità, cioè di «un metodo per ragionare in situazioni d'ignoranza
parziale». Tuttavia mi sembra logicamente, e psicologicamente, rilevante che un
sistema sia - anche solo in teoria - perfettamente conoscibile o no. Mi sembra
che ne sia influenzato il ruolo della conoscenza, e appunto la sua distinzione
dalla predizione. (Nelle parole di Heisenberg: «Che la precisione della
misurazione abbia dei limiti, questo lo sapevano anche i fisici classici,
nessuno dei quali ha mai affermato di poter misurare i fenomeni con precisione
assoluta.
Ma il fatto è che la precisione della misurazione è limitata anche in linea
teorica dai fattori d'indeterminazione; e questo è un fatto nuovo,
che abbiamo incontrato per
la prima volta nel campo della fisica atomica». Se no,
la stessa riluttanza irriducibile di Einstein al principio di indeterminazione
non si capirebbe. «Einstein spera - ricordava Heisenberg - che verranno alla
luce altri dati con cui colmare quelle che secondo lui sono lacune di
conoscenza»).
Giambattista Vico e l'eterogenesi dei fini Arrivato a questo punto trovo la questione che mi incuriosisce: cioè un'assonanza fra il principio di indeterminazione e la «vichiana» eterogenesi dei fini. | << | < | > | >> |Pagina 114La doppia partita: football ou barbarieNel 2002, mentre si giocava in Giappone la Coppa del mondo di calcio, Pakistan e India giocavano la loro partita atomica nella Terza Guerra del Jammu e Kashmir. Gli addetti avevano già fatto i loro conti, con le variabili. Tanti milioni di morti se le bombe arrivano coi missili, tanti se vengono sganciate dagli aerei. Se esplodono a 600 metri dal suolo, oppure toccando terra. Si andava, secondo gli esperti americani, da un minimo di 46 milioni di morti a un massimo di 1.013 milioni. Morti immediati, beninteso: i successivi, polveri radioattive eccetera, sono incalcolabili. (In Giappone, comunque, la ricaduta radioattiva non sarebbe arrivata, per fortuna: risparmiando la finale del torneo di calcio, ed evitando l'indelicatezza verso un paese reso così suscettibile da Hiroshima e Nagasaki). Gli Stati ricchi e le organizzazioni internazionali ordinarono lo sgombero del loro personale dal Pakistan. Musharraf, reduce da quattro test missilistici in cinque giorni, assicurò che sarebbe stato assurdo usare armi nucleari. La realistica imminenza di una guerra nucleare fra due Stati gremiti era la quinta notizia in un telegiornale, la settima in un altro. Alberto Moravia aveva ripetuto maniacalmente che il rifiuto dell'atomica dovesse diventare un tabù, venire prima della riflessione. Ecco: niente più tabù. L'India ha un miliardo di abitanti, il Pakistan 140 milioni. Dopo l'Indonesia, l'India comprende la più vasta popolazione musulmana al mondo; il Pakistan la terza. I rispettivi padri della bomba sono musulmani tutti e due, anche l'indiano, e si dichiarano soprattutto persone miti e grandi patrioti. Al pakistano, Abdul Qadeer Khan, chiesero se non avesse paura dell'apocalisse nucleare: «Io sono un credente - rispose. - Prima o poi la fine del mondo ci dovrà essere. Non intenzionalmente magari. Ma un incidente si può sempre verificare». Già, un incidente. Già, prima o poi. (Dopo la finale di Coppa, comunque). L'atomica sembrava al bando, e ora, siccome diventava quasi probabile, il mondo prendeva le sue contromisure: evacuare il personale delle ambasciate. L'eventualità dell'uso di armi nucleari «tattiche» era evocata con naturalezza dalle autorità americane a proposito delle caverne afgane, minacciata con iattanza dalle autorità iraniane a proposito di Israele, e annunciata da un momento all'altro a proposito del Kashmir. Il mondo reagiva evacuando gli stranieri di buona famiglia. Avrei pensato che, al drizzarsi di uno scenario così infernale, i grandi della terra, i capi di Stato, i segretari dell'Onu, i principi delle Chiese e dei concerti rock, sarebbero corsi a Islamabad e a New Delhi, a mettersi di traverso. Sono pazzo? Saranno normali loro. Lo so: la maggioranza di noi è davvero spaventata e indignata per la microcriminalità - si capisce, siamo piccole persone, con piccole vite, minacciate da piccoli crimini - ma non riesce a diffidare della specie umana abbastanza da credere davvero che si tireranno addosso le loro atomiche, 13 milioni di morti al primo colpo, e il resto via via. Dopotutto, la bomba atomica, culmine della carriera sublime dell'Uomo Distruttore, è stata usata una volta sola (con un bis, dato il successo) e poi mai più: unico caso di rinuncia a una nefandezza diventata tecnicamente possibile. Dicevamo proprio così: «Mai più». Ma era un lapsus. A quanto pare voleva dire solo «non più, finora». Non voglio maramaldeggiare sull'Uomo Distruttore. Ho rispetto e compassione, per i nostri antenati. Si sono dati da fare. Forse si sono infilati nella camera finale della tonnara: ma non ebbero vita facile. Quella bellissima ambiguità del verso tragico, «niente è più meraviglioso dell'uomo», «niente è più terrificante dell'uomo». Doppia partita: non era mai stato così chiaro. Guerra nucleare nel subcontinente indiano, campionato mondiale in Estremo Oriente. Il pianeta sciorina la sua varietà ravvicinata sulle due pagine del registro. Football ou barbarie. | << | < | > | >> |Pagina 219Don Milani e Alex
Ethos della vicinanza e della lontananza hanno un legame, se non dialettico,
complesso e intrecciato. Mi sembrò di poter ritrarre in questa chiave due
personaggi affini e distanti come don
Lorenzo Milani
e Alexander Langer.
«La questione è: chi è il nostro prossimo? Più ordinariamente: a quali (e quante) persone possiamo dedicarci? Noi viviamo con e per una cerchia di persone che consideriamo "i nostri", più o meno intima, più o meno ampia, più o meno mutevole nel tempo. Però ci portiamo dentro un'aspirazione adolescente a esistere con tutti e per tutti, un rimpianto per l'universale condivisione umana... Avevo un grande amico, Alexander Langer, che nell'estate del 1995 si uccise lasciando poche parole: una citazione evangelica, e una dichiarazione di invincibile stanchezza. Pensando a quell'abbandono, e senza credere né aver voglia di spiegarmelo - spiegarsi le cose a volte è la via facile - mi sembrava di riconoscervi lo scacco di un'ansia, che in Alex era stata bruciante, di essere "tutto per tutti". Nel suo primo giornale di scolaro bolzanino nel 1961, il quindicenne Langer aveva esposto un programma ingenuamente squillante: "Vorremmo esistere per tutti, essere di aiuto a tutti ed entrare in contatto con tutti... Venite a noi, e vi aiuteremo con tutte le nostre forze. Venite a noi con fiducia...". Nell'ultimo biglietto, trentaquattro anni dopo, rimise tra virgolette l'appello evangelico: "Venite a me, voi che siete stanchi ed oberati". Anche nell'accettare quest'invito mi manca la forza. Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto». La strenua (e, in persone come Alex, estenuante e quasi eroica) vocazione a essere tutto per tutti, non si oppone solo all'ordinaria limitatezza, più o meno egoistica, di tante vite: anche alla scelta, a sua volta eroica ed estrema, di «essere tutto per pochissimi». Questa scelta radicale e stupefacente fu di don Milani. I due si incontrarono, e andarono per la propria strada. Piuttosto, Alex prese le strade del mondo intero, e vi si gettò ardentemente. Don Milani restò fermo nella sua canonica sul Monte Giovi, nella sua scuola di quindici ragazzi, nella sua parrocchia di trentanove anime sparpagliate... C'è una lettera di don Milani in cui le sue convinzioni sono esposte con una nettezza quasi brutale. È del 1966, e risponde a una studentessa napoletana, Nadia Neri. Le dice: «So che a voi studenti queste parole fanno rabbia, che vorreste ch'io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti... non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola. Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio. E siccome l'esperienza ci dice che all'uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più... Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come premio». È strano: quando, molti anni dopo, nel 1987, Alex scrisse un bel ricordo di don Milani, riferì parole simili a quelle della lettera su quali e quante persone si devono amare specialmente, per servire bene Dio. Don Milani aveva immaginato così il Giudizio Universale. Dopo aver deplorato un qualche rettore gesuita amico dei ricchi, il Signore Iddio avrebbe detto: «Guarda invece don Lorenzo: lui ha scelto unilateralmente. Lui ha capito che non si possono amare concretamente più di 3-400 persone, ed ha scelto i poveri, i suoi campagnoli. Si è messo dalla loro parte, ha condiviso il loro mondo»...
Nel racconto di Alex, don Milani dà ancora più esattamente la cifra: 3-400.
Alla domanda cruciale del Vangelo («Chi è il mio prossimo?») solo un santo
intrepido poteva sentirsela di dare i numeri, trattare la
quantità. «Amare concretamente». «Amore universale» suonava invece a don Milani
come una litania contro natura. Alex non aggiunse commenti, nel suo ricordo, che
mettessero a confronto l'inflessibile prossimità di don Lorenzo e la sua
tentazione per ogni lontananza...».
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