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| << | < | > | >> |IndiceLa notte che Pinelli Persone 9 Anni di fumo 13 Una voragine si era spalancata, e già si richiudeva 20 I1 12 dicembre, sul far della sera 29 Che cosa è successo, nel frattempo? 37 Quattro amici al bar: storia dell'alibi 41 «Il suo alibi era crollato. Si è visto perduto» 48 La tredicesima in tasca 52 La fine dell'anarchia 60 Gli avventurosi adepti del saltafosso 77 Calabresi esce dalla sua stanza 83 Un'atmosfera troppo distesa 92 Il fatto, cioè il tuffo 100 Un uomo normale 106 «Non si preoccuparono di precipitarsi in cortile» 112 I telefoni fissi 119 Le ultime parole 127 L'invenzione del malore 139 Scatti salti balzi e tuffi. E poi nessuno ha più visto niente 147 Pinelli e Valpreda 159 La complicità di un innocente con un innocente non spiega un suicidio 173 «Augura al Presidente Biotti e alla sua gentile famiglia...» 179 Il corpo a corpo col contesto. Le buone ragioni di un appello famigerato 189 I rischi della verosimiglianza. Palermo 1985: «Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto» 201 Le parole e i loro fatti. La violenza e la nonviolenza 209 Che non sanno la storia di ieri 217 Quando hai finito 227 Poscritto 229 Note 231 L'appello del 1971 e i suoi firmatari 267 I libri 277 Cronologia 281 |
| << | < | > | >> |Pagina 13«Nulla posso dire in merito all'accaduto». (Dal verbale di interrogatorio di Giuseppe Pinelli, 13 dicembre 1969, alle tre di notte) Forse l'Italia non sarà mai un paese normale. Forse è il paese in cui tutto diventa normale. Si telefonava al centralino della Camera dei Deputati e si diceva: «Le Stragi, per favore», e quello rispondeva: «Resti in linea, prego», e ti passava la Commissione Stragi. Quante stragi. Il 2 agosto 1980, la bomba che scoppiò nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna fece 85 morti e 200 feriti. La notte del 4 agosto 1974 una bomba era esplosa in una vettura dell'espresso Roma-Brennero. 12 morti, 50 feriti. Qualche minuto in meno, e l'esplosione sarebbe avvenuta nella galleria di San Benedetto Val di Sambro: i morti sarebbero stati centinaia. Neanche tre mesi prima, il 28 maggio 1974, una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti era esplosa durante una manifestazione antifascista in piazza della Loggia a Brescia: i morti furono 8, i feriti 94. Il 22 luglio del 1970 una bomba aveva fatto deragliare il Treno del Sole a Gioia Tauro, i morti furono 6. Il 23 dicembre 1984 fu la volta del treno rapido 904, ancora nei pressi di San Benedetto Val di Sambro: 17 morti, 250 feriti. Nel DC9 precipitato a Ustica il 27 giugno 1980 erano morte 81 persone. Il 17 maggio 1993 un'autobomba mafiosa in via dei Georgofili, a Firenze, uccise 5 persone. In tutti gli altri casi citati, gli attentati furono opera di terroristi di destra, con complicità coperture e depistaggi di apparati dello Stato.
Si capisce che quando, nel 1988, fu istituita la «Commissione parlamentare
d'inchiesta sul terrorismo in
Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle
stragi», si sentisse il bisogno di un'abbreviazione. E si capisce che
l'abbreviazione si riducesse alle due parole: «Commissione Stragi». Presto tutti
fecero l'orecchio a quella incredibile denominazione. Era un po' più
imbarazzante da spiegare agli stranieri. Se scorri quell'elenco — non ho citato
che i massacri più anonimi contro i civili — ti accorgerai che tutte quelle
stragi sono avvenute prima che tu nascessi.
Quando ne hai sentito parlare, da bambina, gli adulti
le trattavano, se non come una cosa cui ci si rassegna —
grazie al cielo non ci si rassegna alle stragi degli innocenti — però come una
cosa frequente, cui ci si era fin troppo abituati.
Non era stato così il 12 dicembre del 1969, venerdì. Quel pomeriggio a Milano, nel salone della Banca dell'Agricoltura, a due passi da piazza del Duomo, una bomba esplose facendo 17 morti e 88 feriti. Nel giro di un'ora, altre quattro esplosioni colpirono Milano e Roma, causando altri feriti. La carneficina si guadagnò subito il proprio nome: la strage di piazza Fontana. Ma per le persone di allora era la prima volta. C'erano stati degli eccidii, nell'Italia repubblicana, di mafia e di polizia, c'era stata, il Primo maggio del 1947, Portella della Ginestra, ma per trovare qualcosa con cui paragonare piazza Fontana bisognava risalire fino alla guerra mondiale. La guerra mondiale era finita del resto solo da ventiquattro anni. Nel 1969, una tua coetanea, una ragazza di vent'anni, non aveva mai assistito a una strage, e non ne aveva sentito parlare dagli adulti. L'Italia ne fu tramortita. Il colpo fu così insopportabile che si diffuse la tesi che si fosse trattato di una specie di incidente: chi aveva lasciato la bomba pensava che la Banca a quell'ora — le 16,37, l'ora dello scoppio — sarebbe stata chiusa, ignorando che il venerdì l'apertura veniva prolungata per favorire gli incontri e i negozi fra allevatori agricoltori e commercianti. A sinistra si pronunciò subito quella frase: «Un compagno non può averlo fatto». In realtà, il sentimento pressoché unanime era che nessuno potesse fare una cosa simile. Ma erano scongiuri. Qualcuno l'aveva fatto. Ci sono giorni in cui un intero paese resta senza respiro. Giorni in cui si dichiara una guerra, con l'euforia nelle piazze e il cuore stretto nelle case. Giorni come quello di Dallas, o l'11 settembre, in America. L'Italia li rivisse, quando fu rapito Moro e trucidata la sua scorta, poi quando arrivò la sua prima lettera, infine quando fu trovato il suo cadavere. O quando fu colpito Falcone coi suoi, e sembrò schiacciata l'Italia perbene, e quando fu assassinato Borsellino, e sembrò il colpo di grazia. Il 12 dicembre fu un giorno - una sera - così. Si sentì che la vita non sarebbe stata più la stessa, che c'era stato un prima, e che cominciava un dopo. Mi servo di questi modi di dire usati, ragazza, benché sappia che quello sbigottimento non si può davvero comunicare. Bisognava esserci, dicono sospirando certi vecchi, certe vecchie scuotendo la testa. E dicono: Tu non puoi capire.
Era un altro mondo, del resto. Quarant'anni fa - quasi il doppio del tempo
che separava il 12 dicembre da una guerra mondiale! Non serve a granché dirti
che la televisione aveva due canali, ed era in bianco e nero:
lo sarebbe stata ancora fino al 1977. Servirebbe di più
raccontarti quanto, e soprattutto come si fumava, nel
dicembre del 1969.
C'è una stanza al quarto piano della Questura di Milano, è di Luigi Calabresi, un giovane commissario dell'Ufficio Politico, ha solo 32 anni. C'è un interrogato, un ferroviere di 41 anni, Giuseppe Pinelli. Sono presenti altri quattro sottufficiali di polizia, e un tenente dei carabinieri. Fumano tutti. Sono lì da ore, è quasi mezzanotte. Al processo, il giudice chiederà a uno di loro, il verbalizzante, brigadiere Caracuta: «Avete fumato tutti durante l'interrogatorio?». Caracuta: «Sì, lei capisce eccellenza... fumavamo tutti come turchi». Perciò, nonostante sia una notte di mezzo dicembre - il 15, proprio - la finestra è socchiusa, per cambiare l'aria. C'è anche un'ottava persona, il carabiniere Sarti, quasi sulla soglia. Sarti: «Uscii dalla stanza per andare a prendere le sigarette che avevo lasciate dentro l'impermeabile... rientrai subito, accesi la sigaretta e poi...». Poi vede una persona, uno dei fumatori, buttarsi nel vuoto. Sarti: «Mi ero distratto un attimo, stavo appunto fumando la sigaretta, e ad un certo punto ho sentito come qualcosa sbattere, un colpo secco. Allora mi girai di scatto e vidi proprio una persona buttarsi nel vuoto...». Era Pinelli, il ferroviere. Appena prima un altro dei presenti, il brigadiere di P.S. Mainardi, gli aveva dato da fumare. L'ultima sigaretta. Mainardi: «Io sono rimasto là, accesi una sigaretta; nella circostanza Pinelli mi chiese 'mi dia una sigaretta' e io gliel'ho accesa». Pinelli fuma, dice qualcuno, e va alla finestra per scuotere la cenere. Un cronista dell'«Unità», Aldo Palumbo, sta uscendo dalla Sala stampa, si ferma un momento sui gradini che scendono in cortile ad accendersi una sigaretta, sente il rumore di qualcosa che sbatte, poi dei tonfi. Di sotto, nel cortile della Questura, un agente semplice, la guardia Manchia, sostiene di vedere un uomo - un'ombra - che cade giù dal quarto piano, e più distintamente di lui - è mezzanotte, il cortile è buio - la brace di una sigaretta che lo accompagna per qualche metro, prima di spegnersi. Secondo altri fermati, Pinelli aveva trascorso quei tre giorni facendo parole crociate, leggiucchiando quello che trovava - un libro giallo, un opuscolo su automobili - e soprattutto fumando. «Mi colpì il fatto che il pavimento davanti a lui fosse cosparso di cenere di sigarette».
Più tardi, quella notte, morto Pinelli, il questore Marcello Guida riceve i
giornalisti. C'è anche Camilla Cederna. «La signora Cederna? Sono contento di
conoscerla, la leggo sempre, anzi le dirò che sono un suo ammiratore... Vuol
fumare? Le dà fastidio il fumo? Vuol che apriamo la finestra? Per carità, allora
fumiamo noi».
Si fumava come matti, tutti, guardie e rivoluzionari, anarchici e monarchici. Nessuno avrebbe immaginato senza ridere un pacchetto di sigarette con su la scritta «Il fumo uccide».
Gli anni di piombo erano di là da venire. Questi erano anni di fumo.
La moglie del ferroviere si chiamava Licia. Avevano
due bambine. Quel giorno avevano già preparato i regali per Natale. Le bambine
portarono poi al cimitero il regalo per il loro padre e lo posarono sulla tomba:
un pacchetto di sigarette.
Non so che cos'altro dirti, ragazza, per darti un'idea del trauma di quei tre giorni. Prima la strage, orrenda, inaudita. Poi l'anarchico, «suicida» confesso, dal quarto piano della Questura. Poi - subito dopo, a soppiantare e insieme completare la notizia - la cattura della belva Valpreda. Una voragine si era spalancata, e già si richiudeva. | << | < | > | >> |Pagina 100Invece, a sentire loro, «l'interrogatorio è finito». Calabresi è uscito con i due fogli di verbale. Gli altri si rilassano variamente. Pinelli «passeggia». Questa espressione, «passeggia», suona bizzarra dentro una stanza piccola, ingombra di mobili e oggetti, e di sei persone. Fra le carte della prima istruttoria c'erano un paio di mappe dell'ufficio di Calabresi. Quando, nel processo Baldelli, viene disposto un sopraluogo, ci si stupisce della piccolezza della stanza, e ci si accorge che nella mappa disegnata dalla Questura certe scale sono rimpicciolite, sicché le sedie del disegno, riportate al naturale, diventano seggiolini di 20 cm per 20, da casetta di Biancaneve. La stanza misura 4 metri e 40 per 3 e mezzo. Contiene una scrivania, uno scaffale libreria (che gli agenti all'unisono chiameranno distintamente étagère), un termosifone, una stufa, un mobiletto portatelefono, uno scaffale per la macchina da scrivere, un attaccapanni, una poltroncina e le sedie. Quante sedie? «Due, tre una cosa del genere, quattro; non ricordo con precisione. Comunque, due stavano davanti alla scrivania del dottor Calabresi che erano in velluto eccetera» — così il brigadiere Caracuta. Il giudice Biotti, appena entrato per il sopraluogo, esclama ad alta voce: «Cristo, non credevo che fosse così piccola!».
Provate a passeggiare, in una stanza così.
Se passeggiare non è facile, figuriamoci prendere una rincorsa, evitare i mobili ed eludere il contatto degli uomini, spalancare al volo un battente della finestra-balcone, scavalcare la ringhiera e precipitarsi di sotto. È quello che, all'unanimità, hanno visto succedere, stando alle loro prime testimonianze, i presenti nella stanza. Ascoltiamo le loro parole, messe a verbale nella stessa giornata del 16 dicembre in cui è morto Pinelli. [I corsivi sono miei]. Il brig. Carlo Mainardi, interrogato a due riprese: «Io ero all'impiedi all'angolo sinistro della finestra per chi la guarda e ad un certo punto gli ho chiesto se si potevano avere notizie sulla composizione dei treni. In quel momento il Pinelli si trovava tra la scrivania e la finestra. Alle mie parole ha detto: 'faccia come vuole', o altre parole dello stesso significato e improvvisamente, con uno scatto fulmineo ha aperto il battente sinistro, buttandosi di sotto. Non ricordo se egli, quando si è buttato avesse ancora la sigaretta o l'avesse già buttata di sotto». Lo stesso, un'ora dopo: «All'improvviso il Pinelli si è slanciato di scatto verso la finestra, ha aperto il battente di sinistra, che era socchiuso, violentemente, sì che io mi sono trovato stretto tra il battente e il muro, e si è buttato contemporaneamente [sic!] nel cortile». Il brig. Vito Panessa: «Il Pinelli, in questo ultimo intervallo aveva fumato una sigaretta, stando in piedi. Anche durante l'interrogatorio il Pinelli andava su e giù per la stanza. Al momento egli si trovava tra la scrivania e la finestra. Esaurita la sigaretta si è avvicinato alla fessura tra i due battenti e forse aprendola per quanto bastava, ha gettato di sotto il mozzicone. È stato a questo punto che fulmineamente ha spalancato il battente sinistro con la mano destra o sinistra [sic!], precipitandosi di sotto». «... Con uno scatto felino». Il tenente Savino Lograno: «All'improvviso ho visto il Pinelli scattare verso la finestra e dopo averla aperta, saltare oltre la ringhiera». Il brig. Caracuta: «In quel momento il Pinelli, che si trovava in piedi, ha fatto un balzo repentino verso la finestra, che era socchiusa, e cioè con il battente di sinistra appena aperto; ha spalancato quest'ultimo buttandosi nel cortile sottostante». Il brig. Mucilli: «... il Pinelli che si tuffa oltre la ringhiera». Il commissario Calabresi: «Il Pinelli avrebbe, all'improvviso, secondo quello che mi è stato riferito, mentre si trovava in piedi, aperto con un forte colpo il battente non assicurato e spiccato un balzo fulmineo oltre la ringhiera».
È questo il repertorio lessicale della caduta di Pinelli: scatto, balzo,
tuffo, slancio, salto, fulmineo, repentino, improvviso. E felino.
Nelle deposizioni rese al sostituto Caizzi il 16 dicembre, spunta perfino un precedente prossimo di balzi, scatti e slanci di Pinelli, qualcosa che la fa sembrare un'abitudine. Dice Calabresi: «Il mio autista, App.to Oronzo Perrone mi ha detto questa mattina che il Pinelli, nella giornata del 14 c.m., mentre era nel mio ufficio per essere interrogato, era balzato improvvisamente in piedi avvicinandosi alla finestra come per aprirla, al che il Perrone, impressionato, gli aveva ordinato di non fare cose simili». Si sente Perrone, nel pomeriggio dello stesso 16: «Con me c'era il Pinelli e due o tre colleghi, tra cui Buccella e Spalletta, se ricordo bene. [...] Il Pinelli, che era seduto e stava fumando, mi ha chiesto all'improvviso, se io potevo aprire la finestra, e nello stesso tempo, di scatto, si è slanciato verso questa, cercando di aprirla. Io mi sono un po' spaventato e l'ho bloccato, dicendogli che doveva aspettare che l'aprissi io la finestra...».
Anche questa anticipazione della tentazione suicida
di Pinelli verrà maldestramente lasciata cadere fra poco. Perrone e gli altri
protesteranno di non aver mai insinuato che il gesto di Pinelli fosse sembrato
malintenzionato. Se lo fosse stato, ancora più imperdonabile sarebbe risultata
l'omessa custodia.
C'è un brano nelle deposizioni del capo dell'ufficio politico, Antonino Allegra, che dice: «Quando successe il fatto, e cioè il tuffo dalla finestra, del Pinelli, il Calabresi era appena entrato nel mio ufficio portandomi copia del verbale. Entrambi sentimmo delle voci concitate seguite da un tonfo. È stata questione di un secondo...».
L'ho voluto citare per quella espressione: «Il fatto,
cioè il tuffo». Potrebbe essere un bellissimo titolo, ho
pensato.
Tu non avevi mai sentito nominare la «Ballata di Pinelli». Cominciava così: «Quella sera a Milano era caldo...». Sulla «finestra semiaperta» in una mezzanotte di dicembre si fece a suo tempo un inevitabile sarcasmo. Però devo fare un'osservazione. Ho trovato un dettaglio inosservato, negli atti del processo Baldelli, che inficia il sarcasmo. Il Presidente sta interrogando un teste, il giornalista Sichiero, che con i suoi colleghi era nella Sala stampa della Questura: «Giudice Biotti: Quando sentì il rumore, si affacciò alla finestra?
Sichiero: Subito; la finestra era socchiusa perché faceva
piuttosto caldo; anche se eravamo in dicembre, all'interno
della sala stampa faceva caldo».
La finestra, dicono i presenti nell'Ufficio del quarto piano, sia pure contraddicendosi reciprocamente anche su questo punto, era socchiusa. Calabresi: «Preciso che la finestra del mio ufficio era stata socchiusa un paio d'ore prima per permettere il ricambio d'aria, ed è rimasta così. In particolare, il battente destro era assicurato con la maniglia e quello di sinistra era socchiuso». La mezza finestra socchiusa è larga 60 centimetri. Panessa: «Lo spiraglio poteva essere di 5 centimetri, 7, 8». La finestra-balcone ha una ringhiera. La ringhiera è alta 92 centimetri. Prendere la rincorsa di un metro sì e no in quella ressa da ora di punta, spalancare al volo il solo battente sinistro appena socchiuso, e saltare oltre i 92 cm di ringhiera: affare da acrobati di circo. (Quanto a un malore, dovrebbe essere così attivo da far compiere al corpo colpito non solo una «improvvisa alterazione del centro di equilibrio», ma anche il gesto di spalancare l'anta socchiusa. Non è solo attivo, questo malore, è attivissimo). | << | < | > | >> |Pagina 112Vedi com'è arduo immaginare che cosa sia successo in quella stanzuccia. Possiamo provare a figurarci tutti gli scenari possibili, Pinelli che si scaraventa giù con un balzo felino, Pinelli che si affaccia per prendere aria e piomba giù per un malore attivo, Pinelli che viene sporto fuori per minaccia e sfugge alla presa, Pinelli che cede a una violenza mal calcolata e viene buttato giù nel panico degli interroganti... (Basta formulare queste ipotesi, o altre ancora, per accorgersi che già il Pinelli di quegli ultimi istanti è diventato nella nostra immaginazione un manichino più inerte e maneggiabile di quello che si fabbricò a Cinecittà per farne le prove). Qualunque scena si tenga sotto gli occhi, c'è un uomo, l'uomo per il quale tutte quelle persone si trovano lì, di cui da ore sollecitano e ascoltano le parole e studiano i silenzi, compilano e strappano fogli di verbale, che è precipitato giù dalla finestra. Che cosa fanno ora quelle persone? E Calabresi, e Allegra, che comunque sentono gridare: «Si è buttato!», e se lo sentono ripetere: «Si è buttato!». Chi? Ma lui, Pinelli. Bisogna sentirsene agghiacciati, inorriditi, prima e più che spaventati per sé, o preoccupati del proprio buon nome. Uno, il tenente dei carabinieri, corre giù in cortile, come fanno i giornalisti che sostano ancora al primo piano, come fanno tanti degli altri poliziotti che si trovano in Questura, e non hanno direttamente a che fare con Pinelli. Si scontrano davanti alla porta dell'ascensore, corrono giù per le scale. Loro invece, Calabresi, Allegra, Panessa, Mucilli, Caracuta, Mainardi - non uno di loro va giù. Non vanno a vedere se sia morto o vivo - è vivo - a raccoglierne, chissà, un'ultima parola, un rantolo, un respiro.
Calabresi dirà che si è fermato per chiamare un'ambulanza: lo fanno in
tanti. E anche dopo la telefonata, non si muove dal quarto piano. Anzi, si
affretta ad andare dall'anarchico Pasquale Valitutti. Nemmeno in
ospedale va: ci vanno Allegra e Guida, e Lograno. Lui
e i suoi sottufficiali restano in Questura, e al ritorno
dei due vengono convocati. Avranno avuto il tempo di
concordare una versione - magari una che di lì a poco
dovranno ripudiare.
Al processo contro «Lotta Continua», la difesa chiede a Calabresi: «Perché mai, invece di andare in cortile a vedere quello che era successo al corpo straziato di Pinelli, o andare nella stanza per cercare di ricostruire il perché della tragedia, si è intrattenuto a parlare con Valitutti, forse per sincerarsi di che cosa Valitutti avesse sentito? Giudice: In effetti, perché lei non si portò subito in cortile, come fece il Lograno?
Calabresi: Perché in cortile si erano già precipitate
una decina di persone, anche di più, che o erano in ufficio, o si trovavano
lungo le scale; quindi, in quel momento giudicammo opportuno, il dottor Allegra
e io, rimanere sul posto per avvertire il Questore e per chiamare
l'autoambulanza».
Ho pensato molto a questo. Si deve immaginare il panico, la costernazione, lo sbalordimento, quello che volete: ma rimane difficile capacitarsi che nessuna di quelle persone sia corsa accanto al corpo della persona che fino a un momento fa era nelle loro mani. Cinque anni dopo, e tre anni dopo l'uccisione di Calabresi, la sentenza di D'Ambrosio se lo spiegherà severamente, così: Dall'attento e critico esame degli atti processuali, emerge che, subito dopo la precipitazione, ci furono da parte dei presenti reazioni di sgomento dovute non tanto a sentimenti di pietà verso il Pinelli quanto a considerazioni più o meno conscie delle conseguenze negative personali che da quell'episodio potevano loro derivare. Ne sono prova evidente la circostanza che il dott. Allegra e lo stesso dott. Calabresi non si preoccuparono di precipitarsi nel cortile e di accertare le condizioni di salute del Pinelli... ma di avvertire il Questore. L'11 dicembre 1970, appena un anno dopo, il Ministro dell'Interno trasmise al giudice del processo Baldelli, Biotti, una famosa e però fino ad allora sconosciuta relazione dell'Ispettore ministeriale Elvio Catenacci, prossimo capo del «noto ufficio», come lo chiama il suo tenace studioso, Aldo Giannuli, l'Ufficio Affari Riservati. Il Ministro specifica, nella trasmissione, che «allo scopo di non interferire nella inchiesta giudiziaria, l'Ispettore non procedette all'assunzione di alcun atto, ma si limitò a raccogliere informazioni e notizie sul tragico avvenimento»! Leggi: non gli passò nemmeno per la testa di interpellare le persone che erano nella stanza! La relazione ispettiva è indirizzata al Capo della Polizia, con la data del 28 dicembre 1969. Segue pedissequamente il rapporto di Allegra. «Il Pinelli, che, come si è visto, era sospettato più degli altri...». Arriva a sostenere la storiella del fermo iniziato dal giorno 14. (Per difendersi dall'imputazione di abuso per il fermo illegale, Allegra aveva avuto l'impudenza di spiegare che dal 12 al 14 Pinelli aveva soggiornato in Questura in quanto «invitato», per sua personale predilezione). Si chiudeva, la relazione, manco a dirlo, senza un'ombra: «Ritiene pertanto lo scrivente... di dover concludere che nella morte del Pinelli non possa ravvisarsi alcuna responsabilità, neppure indiretta, per una presunta 'culpa in vigilando'...». Lo cito, questo incredibile documento, soprattutto per un dettaglio: «soccorso dal personale presente». «... E, spalancatine, d'un colpo secco, imposte e vetri, scavalcò la bassa balaustra e si precipitò... Il fatto avvenne intorno alle ore 0,04. Soccorso dal personale presente, che si portò subito nel cortile scendendo per le scale che portano al piano...».
Lo zelo dell'Ispettore Generale gli impedì di accorgersi che il personale
presente non si era nemmeno sognato di portarsi nel cortile scendendo per
le scale che portavano.
Giornalisti presenti quella notte, Cederna e Stajano, sottolineano ambedue la strana mancanza di drammaticità nell'atmosfera dell'incontro col Questore e i suoi subordinati, e anzi, aggiungono con la stessa parola, quasi «un'euforia». (Stajano: «La noncuranza e la levità dei toni usati dai funzionari di polizia, l'atmosfera di normalità o meglio di sottile euforia». E Cederna: «Un'atmosfera rilassata, anzi quasi euforica... Il questore e i suoi [...] se al testimone di quella notte è consentito un superficiale giudizio, si comportavano senza un moto di amarezza o di dolore per la morte di un uomo»). Nello spettacolo di Dario Fo il Matto che ha preso i panni del giudice-Ispettore Generale dice: «E sapete la ragione principale del perché la gente non vi crede? Perché la vostra versione dei fatti, oltre che strampalata, manca di umanità. Non c'è mai un momento di commozione... nessuno di voi che si lasci mai andare... che sbrachi... magari che rida, pianga... canti!... La gente vi saprebbe perdonare tutte le contraddizioni in cui siete caduti ad ogni piè sospinto, se in cambio, dietro a questi impacci, riuscisse a intravedere un cuore...».
(Poi, a chi legga il libro di Gemma Capra, si mostra
un paesaggio ben diverso. Allora non lo si intravvide,
ammesso che si fosse disposti a vederlo).
Dopo che Pinelli è volato giù, sono due le cose difficili da spiegare, e
impossibili da ingoiare. Che i suoi
bracconieri non siano corsi giù attorno a lui, e che non
abbiano avvertito la famiglia, la moglie, di quello che
era successo, che stava succedendo. Poteva voler dire
la possibilità di vederlo vivo per l'ultima volta. Anzi,
fu così. Licia ha creduto che Pino avesse cercato di dire qualche parola aì
barellieri. È derisorio che, in cambio, si dichiarasse di essere accorsi per
sollecitudine attorno a Valitutti, per impedirgli gesti inconsulti. A Valitutti,
che per giunta a domanda rispose: No, non c'erano finestre che dessero sul
cortile nella stanza in cui mi trovavo. Niente finestre. Dichiarando finita
l'anarchia, Valitutti si sarebbe tutt'al più buttato nel corridoio del suo
piano.
Valitutti (deposizione del 13 gennaio 1970) dice di essere stato portato in un'altra stanza dove, dopo un paio di minuti dal trambusto e le grida, «sono sopraggiunti, tra altra gente, il Dott. Calabresi ed il Brig. Panessa». Se fosse così, e di fatto i poliziotti lo confermano, Pinelli sarebbe ancora agonizzante in cortile. «In due o tre, intanto, continuavano a tenermi fermo su di una sedia». Poi, le frasi già citate: «A mia domanda, il Dott. Calabresi ha detto: 'Non capisco come, anzi, perché l'abbia fatto, perché lo stavamo interrogando scherzosamente sul Valpreda'. Preciso anzi che egli mi ha detto che stava parlando scherzosamente con il Pinelli su Valpreda. Mi parve di capire che si era trattato di una pausa distensiva nel corso dell'interrogatorio». E il brusco cambio di tono: «Ad un certo punto, assumendo un tono alterato, ha detto che il Pinelli aveva le mani in pasta dappertutto e che era dentro fino al collo già nei precedenti attentati del 25 aprile, e che ciò malgrado la Polizia non gli aveva mai dato fastidio. Il Brig. Panessa ha aggiunto molto alterato: 'Era un delinquente e se si era buttato voleva dire che era coinvolto in qualche modo'». Le parole di Calabresi e Panessa riferite da Valitutti - «aveva le mani in pasta dappertutto», «era un delinquente» - tornano sinistramente nell'audizione di Antonino Allegra alla Commissione parlamentare sulle stragi, nel 2000, 31 anni dopo: «Metteva il naso un po' dappertutto». | << | < | > | >> |Pagina 192La rete è piena di siti che ricordano o riportano la sfilza di nomi celebri di quei firmatari. Quasi sempre l'effetto dell'elenco è così abbagliante che fa omettere il testo dell'appello, e più spesso ancora la circostanza che lo motivò. Non si trattava affatto della prima raccolta di firme in quella vicenda, ma di un'ennesima. Pochi giorni prima, il 27 maggio 1971, la Corte d'Appello di Milano aveva accolto l'istanza di ricusazione, e tolto il processo alla Corte presieduta dal giudice Biotti. Il querelante otteneva così di interrompere il processo, alla vigilia della riesumazione della salma di Pinelli, e vicino alla sentenza. Un'opinione pubblica sempre più convinta, dopo un anno e mezzo, che la versione della polizia mentisse e che l'innocente Pinelli non si fosse suicidato, riceveva ora una clamorosa doppia notizia: che la magistratura accreditava il più spinto dei sospetti, e contemporaneamente impediva di fare giustizia. Leggilo ora, in quella luce, il testo dell'appello:«Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di un'odiosa coercizione. Oggi come ieri — quando denunciammo apertamente l'arbitrio calunnioso di un questore, Marcello Guida, e l'indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati — il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a questa fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.
Una ricusazione di coscienza - che non ha minor legittimità
di quella di diritto - rivolta ai commissari torturatori,
ai magistrati persecutori, ai giudici indegni.
Noi chiediamo l'allontanamento dai loro uffici di coloro
che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere
in loro qualsiasi rappresentanza della legge,
dello Stato, dei cittadini».
Sono state dette tante cose sensate sulla corrività, la leggerezza e perfino la fatuità di appelli e raccolte di firme. Cose giuste, giusti avvertimenti per la prossima volta in cui ti si chieda di mettere una firma in calce a qualcosa. Eppure penso che quella volta le firme fossero date con una speciale adesione e responsabilità. Con il senso di un dovere morale e civile. Riletto tanto più tardi, quel catalogo di Persone Molto Importanti può sembrare un concorso presenzialista, una esibizione di arroganza della fama e del prestigio. Ma fu allora una manifestazione coraggiosa. Lo Stato - quello dei depistaggi e delle complicità con una strage, della promozione dei suoi uomini coinvolti in un'oscura tragedia, delle tentazioni e dei tentativi golpisti, infine di una gran parte della magistratura o compromessa col malcostume o negatrice del diritto - mostrava di opporre una muraglia alla richiesta di verità e di giustizia. Di quei firmatari, uno - o forse più d'uno, non so, non importa - ha fatto poi sapere, con un trafelato ritardo, di essersi trovato in quell'elenco a sua insaputa, e che lui, anzi! Può darsi. Ma chi scorra la lista di nomi sa che troppi ce ne sono che nessuna mondana catena di amicizie avrebbe facilmente estorto. Primo Levi e Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta e Pierre Carniti, Federico Fellini e Vittorio Gorresio, Luciano Bianciardi e Cesare Musatti, Angelo Maria Ripellino e Gregor von Rezzori, Bruno Trentin e Mario Soldati. (Ristampo quell'elenco in appendice, se tu volessi scorrerlo, nel contesto che gli fu proprio). Si fa menzione, nel testo, di giudici indegni e di commissari torturatori. Si era aperto un processo dal quale il commissario Calabresi, tenuto a concedere ampia facoltà di prova, si aspettava la condanna per diffamazione di chi l'aveva chiamato assassino. Quel processo si era ora chiuso perché il patrono di Calabresi aveva ricusato i giudici, dopo aver tenuto in serbo per mesi la carta privata sulla quale poggiare la sua richiesta, per misurarne la convenienza. E, a stare alla denuncia di quell'avvocato, prima del testo dell'appello, era stato il giudice a proclamare in nome proprio e dei suoi colleghi, in una oscena confidenza, la colpevolezza di Calabresi. Così stava la cosa allora. Fra i firmatari figurava naturalmente Norberto Bobbio. Voglio dire che sarebbe stato sorprendente che il suo nome, in simili circostanze, mancasse. Nel suo libro, Mio marito, il commissario Calabresi (1990), che, a differenza di quello di suo figlio Mario, si misura puntigliosamente con le ricostruzioni giudiziarie e con le vicende dell'opinione pubblica, Gemma Capra, riportato il testo dell'appello e un florilegio di firme, scrive: «Dopo il 27 ottobre 1975, quando uscì la sentenza definitiva della magistratura che scagionava Gigi, mi posi in attesa. - Vuoi vedere - pensai - che qualcuna di queste persone, che so, magari Norberto Bobbio, mi scrive un biglietto, due righe per dire: signora, ci scusi, ci eravamo sbagliati? Nessuno mi ha scritto. Ma sono ancora in tempo a farlo». Anni dopo, proprio Bobbio mi indusse a tornare sul famigerato appello. Successe questo. Che nel 1998 io risposi, dal carcere, a una sollecitazione di Indro Montanelli, dicendogli che, salva la mia estraneità penale, accettavo senz'altro - l'avevo fatto in passato e comunque lo autorizzavo a scegliere la forma che preferisse - di scusarmi con la signora Gemma Capra e i suoi figli per il modo della campagna condotta da «Lotta Continua». Un giornalista del «Giornale» interpellò allora Norberto Bobbio, che disse: «Mi distacco dal giudizio di Sofri. Io penso che abbia sbagliato a chiedere scusa... Capisco che si trovi nella condizione di dire quelle cose...». Fui sconcertato dall'equivoco di Bobbio, che mi attribuiva una debolezza da prigioniero, dalla quale grazie al cielo non ero sfiorato. Ma l'essenziale dell'intervista era nella risposta sull'appello del '71, che Bobbio sembrava rifiutarsi di rinnegare. «Bisogna capire, quella era l'atmosfera del tempo. [...] Se tanti hanno firmato un appello che indubbiamente è una denuncia molto premente, molto violenta, di quelle che sarebbero state le azioni di Calabresi, probabilmente in quel tempo, come dire, c'erano delle ragioni per cui l'hanno fatto». Un mese più tardi, Bobbio scrisse in un articolo di quella che sentiva come una sua antica debolezza verso le autorità fasciste, e gli indirizzai questa «piccola posta» (27 marzo 1998):
«Caro Norberto Bobbio, ho letto il resoconto del suo
scritto dedicato alla vicenda del suo concorso universitario,
della sua ingiusta esclusione, e della sua riammissione
attraverso intercessioni che, a più di sessant'anni
di distanza, lei vuole addebitarsi come disonorevoli.
Era una vicenda nota: risollevata, anni fa,
quando lei avrebbe potuto essere candidato alla
presidenza della Repubblica. Ebbi allora l'occasione di
dirle quanto meschina mi sembrasse quell'accusa ripescata
contro di lei, che non se ne sottrasse. Che di nuovo,
e in modo del tutto gratuito, lei ricostruisca e giudichi
quell'episodio, mi sembra una prova di esigenza
verso lei stesso e di generosità verso gli altri. Io ne traggo
il pretesto per un mio fatto personale. Di recente
lei ha detto al 'Giornale' (a Marco Ventura, che conosco
e stimo) di discordare dalle scuse che io avevo formulato,
dopo un carteggio con Montanelli, a proposito
della campagna di 'Lotta Continua' contro Calabresi.
Lei ricollocava il tema nel contesto del tempo, e aggiungeva
di non rinnegare la firma in calce a un manifesto
sulle responsabilità per la fabbricazione della 'pista
anarchica' e la precipitazione di Pinelli. Io non
avevo menzionato quell'appello, di cui non ero stato
neanche firmatario. Mi riferivo, come avevo già esplicitamente
fatto più volte, ad argomenti e linguaggi
che la nostra campagna assunse nel suo corso, senz'altro
volgarmente e compiaciutamente feroci, che sono
orribili a rileggerli oggi, ma che avrebbero dovuto esserlo
già al loro tempo. Di questo avevo da scusarmi
con la famiglia Calabresi, per conto di 'Lotta Continua',
di cui ero senza riserve responsabile. (Non fui autore
di alcuno di quegli articoli, ciò che cambia poco). Dunque
non credo che possa esserci fra noi un disaccordo
su questo punto. La ragione per cui appassionatamente
ci torno su è che lei si è indotto ad attribuire — in
quella intervista — la mia posizione al peso del carcere
in cui mi trovo. Questo non è vero, e caso mai è l'opposto
del vero: devo guardarmi dalla tentazione di alzare
la cresta, chiuso qui dentro, non di abbassarla. È
curioso come si possa essere considerati insieme troppo
orgogliosi e troppo cedevoli. Accolga la mia versione,
e con essa i miei affezionati saluti».
Bobbio mi rispose così (sulla «Repubblica», 28 marzo 1998): «Caro Sofri, quando nel mio articolo, pubblicato recentemente e ripreso in parte da 'La Repubblica' del 25 marzo, in cui rievoco l'episodio della mia contestata partecipazione al concorso universitario del 1938, ho usato l'aggettivo 'disonorevole', mi sono riferito non al fatto in se stesso ma al linguaggio usato nella mia lettera al ministro. Mi sono trovato nello stesso stato d'animo in cui si è trovato Lei quando ha chiesto scusa alla famiglia Calabresi dei linguaggi, 'orribili a rileggersi oggi', in 'Lotta Continua' di quegli anni. Ho commesso l'errore, lo riconosco, di rispondere telefonicamente alle domande fattemi per 'Il giornale', da Marco Ventura, il quale, da giornalista corretto quale è stato nei miei riguardi, non può aver dimenticato il disagio da me più volte espresso nel dover rispondere a domande delicate su fatti lontani di cui avevo perduto in gran parte la memoria. Così è avvenuto che nel corso dell'intervista non sia risultato mai bene distinto il giudizio sul fatto dal giudizio sulle parole usate per commentarlo. Nella mia risposta maldestra, lo riconosco, a una domanda, che mi ha colto di sorpresa, perché io non fossi d'accordo con Lei sulle scuse da Lei chieste alla famiglia Calabresi, avrei dovuto distinguere più chiaramente il rifiuto del linguaggio, sul quale sono perfettamente d'accordo con Lei, e vi accenno anche brevemente nell'intervista, dalla sconfessione dell'intera vicenda che con quelle parole veniva denunciata. Nell'ascoltare il testo dell'appello degli intellettuali allora firmato, lettomi dall'intervistatore, ho provato lo stesso senso di orrore che lei dice di aver provato rileggendo gli articoli di 'Lotta Continua'. Quindi, non ho nessuna difficoltà a chiedere oggi scusa del tono di quell'appello a coloro che hanno avuto ragione di sentirsene offesi, a cominciare dalla signora Calabresi e dai suoi figli. Ciò non toglie che io continui oggi, come allora, a riconoscere nella strage di piazza Fontana un episodio infame, di cui oggi dovrebbero chiedere scusa agli italiani non coloro che lo denunziarono e non furono ascoltati, ma i promotori, gli autori materiali rimasti sinora impuniti, e tutti coloro che hanno impedito sino ad oggi di conoscere la verità. Accolga i miei cordiali saluti, Norberto Bobbio». Così, mi sembra che l'essenziale sia stato detto una volta per tutte, tanto sul «contesto», quanto su ciò che il contesto non basta a giustificare. | << | < | > | >> |Pagina 209Accennerò, benché esuli qui dal mio argomento, a un punto che ritengo essenziale, e mi è costato a suo tempo, oltre che lo sdegno per partito preso, il fraintendimento schietto di molti. In uno scritto in cui negavo che si potesse definire terrorista - se del termine terrorismo si volesse fare un impiego pregnante, e non uno vago e traslato — l'omicidio di Calabresi, avevo scritto fra l'altro che pensavo che esso fosse «l'azione di qualcuno che, disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca. Fu un atto terribile: e nato in un contesto di parole e pensieri violenti ereditati, e ravvivati, che ammettevano, per esaltazione o per rassegnazione, l'omicidio politico, come nel giudizio dell'indomani, quello sì scritto da me. Non vorrei mai averlo scritto, soprattutto non vorrei mai che fosse stato fatto. Ma chi potrebbe non provare lo stesso rimpianto e rimorso? Non rinuncerei, se non per ipocrisia o per indulgenza verso me stesso, a dire che le persone che si spinsero a tradurre nei fatti le parole che con tanti altri pronunciavano (e le nostre furono parole accanite di violenza, benché mai di terrorismo, perché un confine c'era) poterono, allora come in altri frangenti della storia, essere delle migliori. Io non riesco a condividere la frase che un mio amico e compagno di allora ripete come un esorcismo - 'non si può essere ex assassini'. Certo che si può. Fu dunque un atto terribile: questo non significa, non certo ai miei occhi e ancora oggi, che i suoi autori fossero persone malvagie, e che non se ne prenda, ciascuno per la propria parte, chi ce l'ha, una corresponsabilità. I suoi autori erano mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime. Le vittime, infatti, sono state tante, e di tante diverse e opposte ferocie, e la spirale che le travolse - non certo solo di 'neri' e 'rossi' - sembra aver depositato, a una così enorme distanza, un'idea e soprattutto un sentimento più unilaterale e rancoroso che mai, ad onta delle buone intenzioni e dei monumenti e dei giorni del ricordo. Io cerco di tenere a bada i cattivi sentimenti, provo pena di fronte alle contrapposizioni rinnovate fra i morti nostri e i loro...».
Sono state lette, quelle righe, come un elogio della
violenza o un'apologia dell'omicidio: dunque io sarei,
oltre che un uomo tristo, un pazzo da legare (legato sono).
In quelle righe ripetevo quello che mi pare il succo
essenziale di tante esperienze e riflessioni su una violenza
di cui ho abbandonato per sempre da più di
trent'anni non solo la pratica - che mi fu poco propria -
ma la stessa grammatica. Dico della violenza, non certo
del terrorismo, cui fui sempre non solo estraneo ma
nemico. La grammatica e la pratica, le parole e i fatti.
Il vizio d'origine della nostra iniziazione rivoluzionaria -
nostra, cioè di quelli della mia generazione che
si sentirono rivoluzionari - derivò dal trovarci di fronte
un vasto schieramento politico e sindacale che agiva
di fatto all'interno dei rapporti sociali e della democrazia
politica «borghesi», ma continuando a parlare
un linguaggio sovversivo. C'era una sproporzione
scandalosa fra le parole e i fatti di quella sinistra
«ufficiale». Non solo: ma poiché gli uomini tengono più
alle parole che ai fatti, e a quelle restano più tenacemente
fedeli, e dal tradimento di quelle si sentono più
intimamente feriti, quando voci autorevoli dentro la
sinistra ufficiale azzardavano sortite verbali che provassero
a ridurre la distanza fra l'ideologia e la pratica,
il loro isolamento si faceva più forte. Era così per
la «destra» del Pci, o prima ancora per il Psi e la sua
aspirazione governativa, o per il sindacalismo più
«riformista» (più riformista che riformatore, del resto).
Le burocrazie dirigenti della sinistra storica e i loro capi
tenevano in ostaggio la «base» con la continuità di
un linguaggio, ed erano a loro volta ostaggi dell'irriducibilità
di quella base a nuove musiche e nuove parole.
Questo reciproco sequestro era l'ortodossia. Quando
arrivò per una buona parte della nostra generazione
il turno di entrare in scena, sospinta da una congiuntura
internazionale senza precedenti, lo scandalo
morale per la «doppiezza» della sinistra ufficiale, la scissione
plateale fra teoria e pratica, si tradusse in una tensione
urgente a colmare quel divario dal lato della pratica,
dell'azione. Il volontarismo attivistico fu la caratteristica
saliente di quel nuovo estremismo giovanile,
quando non si lasciò irrigidire dal dogmatismo ideologico.
La distanza fra le parole e i fatti - il binario doppio,
la simulazione rivoluzionaria e la pratica del quieto
convivere - volemmo sanarla rieducando i fatti a corrispondere
alle parole, cercando nell'azione la coerenza
rinnegata. Questo valeva anche, e anzi a maggior
ragione, per la questione della violenza. Il retaggio della
violenza popolare, creduta necessaria, perché contrapposta
alla violenza di tiranni padroni e sfruttatori,
e giusta, perché emancipatrice da una abitudine alla
servitù e al gregarismo, della violenza difensiva e della
violenza levatrice di una storia nuova e di un uomo
nuovo, questo retaggio era ben più antico e radicato
del movimento operaio e del marxismo, e scendeva dal
tronco della rivoluzione francese e dai rami del patriottismo
risorgimentale e, fin nello stesso Sessantotto, della
ribellione cattolica al privilegio e al potere. Piuttosto
che rimettere in discussione le parole, noi le riprendemmo
e le rincarammo, come si raccoglie e si agita
più fieramente una bandiera abbandonata nella fuga,
e ci addestrammo a corrisponder loro nell'azione. Per
molto tempo la nostra verità di rivoluzionari di fronte
alla moneta falsa di chi continuava a scrivere la parola
rivoluzione sulla targhetta del suo ufficio ma guardandosi
bene dal perseguirla nella vita, consistette anche
in una mezzo comica mezzo patetica gara all'oltranza
delle parole: e se gli altri gridavano Vietnam libero
noi gridavamo Vietnam rosso, e se chiedevano il Disarmo
della polizia in servizio di ordine pubblico (potresti
immaginare che alla vigilia della strage di piazza
Fontana si stava per votare questa misura?) noi chiedevamo
il Fucile agli operai. Era un gioco di quelli che
prendono la mano. Le parole sono indulgenti, permettono
un'oltranza infinita, al riparo dal passaggio al
fatto. Le parole non sono pietre. Ma sono anche esigenti,
e perfino esose, e a furia di sentirsi pronunciare
e scandire e gridare presentano un loro conto. Le
pietre non sono parole - ti rinfacciano a quel punto.
E da lì in poi qualcuno non resta più al di qua del riparo,
passa la linea che le separa dai loro fatti. «Seguile,
le tue parole, fino al punto in cui trapassano nei loro fatti».
E chi oltrepassa quella linea, può essere semplicemente
uno manesco, uno che ha avuto un'infanzia cupa,
uno più frustrato o più fanatico; ma può anche
essere uno dei migliori, uno che si costringe a fare
quello che tutti proclamano doveroso fare, tenendosene
al di qua, per viltà o pusillanimità o qualche altra
debolezza. Di queste due genie di uomini (e di donne),
e della gamma di sfumature che conduce dall'una
all'altra, sono fatte le minoranze che nei tempi
tempestosi prendono il primo piano, e possono trovarsi dalla
parte giusta e dalla parte sbagliata, e diventare eroi
popolari o terroristi messi al bando, e naturalmente la
differenza fra la parte giusta e sbagliata è molto
importante, e ancora di più la differenza fra la stagione
della guerra vera e la stagione della guerra inventata,
ma differenze così importanti non cancellano del tutto
l'affinità. Io ho questo concetto della corresponsabilità:
che se qualcuno traduce in atto quello che anch'io
ho proclamato a voce alta non posso considerarmene
innocente e tanto meno tradito. Ne sono corresponsabile.
Solo di quello, del resto, e non di altro. Di
nessun atto terroristico degli anni '70 mi sento corresponsabile.
Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto
o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse,
«Calabresi sarai suicidato».
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