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| << | < | > | >> |Indice1. Origini 9 2. Il primo oceano 15 3. Cuba 31 4. Finalmente 46 5. Occasioni 57 6. Looping 66 7. La Baule-Dakar 74 8. Il primo sponsor 79 9. La mia prima Ostar 90 10. Québec 97 11. Ricominciare 111 12. Il primo giro del mondo 118 13. Stupefacente Telecom 135 14. Fila 139 15. Atlantic Alone 154 16. Ancora intorno al mondo 160 Appendici di Emilio Martinelli 189 Personaggi e regate 191 Barche e progetti 211 Cose di mare 224 Cartina delle regate 244 |
| << | < | > | >> |Pagina 9La barca a vela per me ha sempre rappresentato un modo per viaggiare. L'idea di poter andare da un posto all'altro utilizzando solo l'energia della natura mi ha sempre affascinato. Il primo incontro con una barca l'ho avuto da bambino quando mio padre mi ci ha portato per la prima volta. A dir la verità non mi ricordo in quale occasione fosse, so solo che la barca era l'unico vero momento di contatto con lui, altrimenti sempre troppo occupato con il suo lavoro. Aspettavo con impazienza che arrivasse la domenica perché quello era il nostro appuntamento fisso. La mattina si partiva con la tramontana da Lesa, sul lago Maggiore: si navigava per ore di bolina e a volte si arrivava a salutare mia nonna materna che stava dall'altra parte del lago, a Reno, qualche miglio più a Nord. Durante la settimana non avevo il permesso di usare la barca e solo verso i sette-otto anni ho cominciato a uscire da solo con il Flying Junior di famiglia. Ovviamente mi davano il permesso solo quando non c'era vento, ma era così bello passare i pomeriggi a navigare. Ricordo ancora la gioia di vedere la barca che piano piano distanziava lo sputo lasciato cadere in acqua, usato quasi come una boa. Tra i cinque e i quattordici anni ho fatto anche delle crociere estive con i miei. Mio padre aveva un bellissimo Alpa 12,70, che si chiamava Garbì e con cui ci siamo girati un bel pezzo di Mediterraneo; io ero il più piccolo e l'equipaggio era composto dai miei due fratelli adolescenti e da mia madre; mio padre era il capitano. Il Garbì era una barca disegnata da Olin Stephens, stretta e molto boliniera: mio padre ci faceva anche qualche regata invernale e quindi era ben attrezzata, ma soprattutto non aveva né avvolgifiocco né salpa ancora. Le crociere di quegli anni sono state delle esperienze stupende, ognuno partecipava come poteva alla navigazione; ricordo con terrore certi atterraggi alle Baleari dopo tre giorni di navigazione stimata; le notti in navigazione dove anch'io facevo il mio turno e mi sentivo parte importante dell'equipaggio, le albe in mezzo al mare, i sonnellini nella base della randa... Le prime balene, i delfini, i primi colpi di vento, la paura e il coraggio di superarla, la barca che sbanda, gli ormeggi... Insomma, delle splendide vacanze, ma anche e soprattutto un bellissimo modo di viaggiare, conoscere posti e gente diversi, passare qualche giorno tutti insieme. La nostra ultima crociera fu per me molto triste: sapevo che il Garbì era in vendita già da un po' di tempo e soprattutto che sarebbe stato molto difficile avere altre occasioni per imparare ad andare in barca; avevo solo quattordici anni e, mentre i miei fratelli avevano imparato a navigare bene, io mi sentivo come chi ha appena assaporato qualcosa che però gli sta sfuggendo dalle mani. Forse proprio questo abbandono forzato è stata la ragione per cui due anni dopo, in un momento decisamente difficile della mia adolescenza, ho scientemente deciso che ciò che volevo fare era imparare ad andare in barca a vela. Da bravo sedicenne sognatore pensavo di poter lavorare qualche anno per poi partire alla scoperta del mondo, magari a bordo di un Arpège, vivendo di espedienti... Caccia, pesca, cose del genere... La barca a vela mi sembrava un ottimo mezzo per girare il mondo, conoscere altri paesi, altre culture, viaggiare con ritmi umani e, soprattutto, con costi limitati. Sognavo di diventare un giorno un vero vagabondo dei mari, di quelli che non hanno problemi di tempo e di spazio, che se arrivano in un bel posto si possono fermare sei mesi e poi ripartire alla ricerca di altri orizzonti, altri luoghi, altre avventure. Sogni da adolescente che ancora oggi in realtà mi frullano non poco per la testa. Forse la verità è che già allora avevo capito tutto. Nel gennaio del 1983 scappai di casa. Milano, la scuola, il mio futuro già scritto mi soffocavano. Mi sentivo in gabbia e soprattutto sentivo la necessità di prendere in mano la mia vita, assumere liberamente delle decisioni autonome, libero di provare a seguire quello che avevo dentro, le mie voglie, i miei pensieri. Non ero un buono a nulla e volevo dimostrarlo a me e agli altri. Con il mio amico Pino viaggiammo lungo tutta l'Italia fino in Sicilia e poi alle isole Eolie. Io e Pino eravamo una coppia bene assortita, visto che lui è un classico intellettuale riflessivo e io invece sono un tipo più pratico. Per vivere fabbricavamo orecchini che vendevamo per strada; i soldi non erano molti ma, dopo le prime settimane di stenti, ce la cavammo egregiamente, tanto che al ritorno a Milano avevamo in tasca ben 800.000 lire. Tenda e autostop, gli incontri con tanta gente, tanti pensieri e tanti sogni, e al ritorno una certezza: avevo deciso che volevo svegliarmi la mattina contento di quello che mi aspettava durante la giornata; non capivo perché uno dovesse condurre la propria vita impostandola sempre sul domani: il liceo e l'università per diventare ingegnere o avvocato e poi una bella carriera... Tutto ciò non mi andava a genio e quindi avevo deciso di trovare delle alternative. E l'alternativa dei miei sogni era la barca a vela, quindi la prima cosa che sentivo di dover fare era appunto trovare la possibilità di imparare e di fare esperienza nel mondo della nautica. | << | < | > | >> |Pagina 15Dal 1983 al 1988 ho passato momenti stupendi e, malgrado avessi sempre presente il karma della scuola da finire, le esperienze e i viaggi di quel periodo mi convinsero definitivamente che la mia strada era quella del mare. Il vero incontro con l'oceano arrivò presto; era l'ottobre dell'84 e avevo appena finito la stagione di trasferimenti nel Mediterraneo, così andai alle Baleari a cercare un imbarco per i Caraibi; avevo promesso a mio padre di finire la scuola e in cambio avevo ottenuto il benestare per il tentativo di viaggio. La traversata dell'oceano mi sembrava un passo assolutamente necessario per diventare un vero marinaio, e devo ringraziare i miei genitori che si fidarono e capirono quanto questa avventura fosse importante per me. Con una lettera di presentazione sbarcai al porto di Palma di Maiorca. Stava per cominciare la stagione del rientro ai Caraibi; come sempre, tra settembre e fine novembre, moltissime barche lasciavano il Mediterraneo per dirigere verso le Antille ed ero sicuro di riuscire a trovare un passaggio. A Palma incontrai Jim Shearston, vecchio capitano e conoscente di mio nonno; anche lui stava preparando una barca per andare ai Caraibi, ma purtroppo il suo equipaggio era completo e doveva anche portare a bordo un giovane amico dell'armatore. Jim lavorava per un armatore americano che, mentre era di passaggio in Mediterraneo con il suo Hallberg Rassy — un motorsailer —, aveva comperato una bellissima barchetta svedese, disegnata anche questa da Stephens, molto simile al nostro vecchio Garbì. Si chiamava Pearly Gate. L'armatore americano voleva riportare negli Stati Uniti le due barche: lui il motorsailer e Jim il Pearly Gate. Jim si offrì comunque di ospitarmi a bordo in attesa di trovarmi un imbarco e per sdebitarmi mi diedi da fare nei lavori di preparazione della barca che era sull'invaso per i controlli; dopotutto Pearly Gate era stata appena comperata e, prima di affrontare l'Atlantico, Jim voleva essere sicuro che fosse in buone condizioni. Presto divenni buon amico di Dimitri e Nicolas, due ragazzi che lavoravano a bordo della barca e, con il passare dei giorni, conquistai pure la stima del vecchio Jim che continuava a darsi da fare per aiutarmi a trovare un altro passaggio. A pochi giorni dalla partenza l'armatore di Jim cambiò idea: il suo amico sarebbe andato con lui sul motorsailer. Quando Jim mi comunicò che a bordo di Pearly Gate si era liberato un posto mi parve di toccare il cielo con un dito. I patti erano chiari: avrei portato la barca fino ai Caraibi alla pari, senza alcuna retribuzione né rimborso del biglietto di ritorno o altro, ma la cosa mi sembrava comunque fantastica. Pearly Gate prese il largo con a bordo l'equipaggio meglio assortito che abbia mai sperimentato: Jim, capitano settantenne, Dimitri, un greco-americano diciottenne, Nicolas, inglese, anche lui diciotto anni, e io. Dimitri era un tipo veramente particolare e, nonostante la giovane età, aveva già alle spalle esperienze di vita durissime; abituato ad arrangiarsi sempre e in tutte le situazioni, aveva anche lavorato nel mare del Nord come pescatore; mi insegnò subito le peggiori parolacce in greco. Era quello con cui legavo di più. Nicolas, i cui genitori lavoravano all'ambasciata inglese in Venezuela, era certo molto più preparato a livello tecnico di Dimitri, ma per la sua aria anglosassone, un po' spocchiosetta, non mi è mai andato troppo a genio, anche se si rivelò un ottimo compagno di viaggio. Jim era il personaggio più strano e carismatico che mi potesse capitare. Con una grande esperienza marinara, aveva comandato barche a vela sopra i 30 metri per tutta la vita e quello rappresentava il suo ultimo viaggio attraverso l'Atlantico, come un ultimo saluto prima di ritirarsi nella regione dei Grandi Laghi, dove poi si è sposato. Forse per questo o perché non gli andava proprio che l'armatore non pagasse nessuno di noi, neppure con il biglietto di ritorno, o chissà per quale altro strano motivo, Jim decise di farci fare una crociera sulla costa spagnola. Quella che doveva essere una navigazione di conserva in coppia con il motorsailer, si tramutò in una costante fuga di Pearly Gate, e ben presto il nostro capitano riuscì nel suo intento: l'armatore americano scomparve all'orizzonte e noi ci fermammo a passare la notte a Torre Vieja, una bellissima baia, ampia e spaziosa, della costa spagnola. Da quel momento il viaggio di Pearly Gate si trasformò in una vera e propria crociera. Jim non perdeva occasione per farci trascorrere notti e giorni fermi nei porti della costa spagnola e così impiegammo almeno 15 giorni per raggiungere Gibilterra, certi ormai di non trovare più il nostro armatore, sicuramente già ripartito per le Canarie. La prima volta a Gibilterra fu un'esperienza di quelle che non si dimenticano. Dopo una bella bolinata a bordi nell'ultimo tratto del mare di Alborán, la Rocca comparve verso sera. Passammo vicini a terra e ricordo come fosse oggi la maestosità della montagna che sbuca nella nebbia accompagnata dal segnale sonoro del faro della Rocca che ti fa venire la pelle d'oca quando sei a prua e cerchi di orientarti; quelle sono situazioni in cui ti senti veramente piccolo piccolo. Quel giorno mi tornarono alla mente i pochi ricordi scolastici della mitologia greca, degli antichi navigatori, e con orgoglio pensai che anch'io stavo passando le Colonne d'Ercole. Ovviamente c'era vento forte da Ovest e uscire dallo stretto non era cosa per noi. Ma la soluzione fu semplice: una bella settimana fermi a Gibilterra ad aspettare che il vento girasse. | << | < | > | >> |Pagina 122Il BOC è organizzato da un uomo molto in gamba: Mark Schrader. Lui e sua moglie Michelle sono l'anima di questa regata che per me rimane la più bella e straordinaria che abbia mai fatto. Mark è solito organizzare il briefing degli skipper la mattina della partenza con un'immensa e luculliana colazione a base di frutta, latte, yogurt e altri prodotti freschi. Sono riunioni molto serie, organizzate in maniera ineccepibile come solo gli americani sanno fare e dove si prevedono gli scenari più apocalittici e si cerca di prepararsi al meglio per ogni evenienza.Quando si esce dal briefing si va alle barche con una specie di malessere che ti fa venire di tutto, dal mal di schiena al mal di pancia, dalla pressione bassa alla tachicardia. In realtà tutti sanno bene che è solo paura: paura dell'ignoto, del mare e di quello che ci aspetta. La prima volta tutto ciò è decisamente accentuato. L'uomo ha sempre più paura di quello che non conosce e la prima volta che si affronta un oceano del Sud si ha una paura fottuta, specie se si parte da soli lasciando gli amici in uno splendido posto come Cape Town. Il colpo di cannone arriva come una liberazione e in pochi minuti si cerca di ritrovare quella simbiosi con la propria barca necessaria per arrivare dall'altra parte. Dopo sole 24 ore di navigazione ci siamo presi la prima tempesta che ha scremato subito la flotta. L'Indiano si fa sentire appena superi capo di Buona Speranza e ti dirigi verso Sud. Oltre il 40° Sud l'acqua scende sotto i 5 gradi di temperatura e quando tocchi lo scafo della barca fa male. I Mari del Sud sono qualcosa di estremamente affascinante: le barche corrono come mai, le onde sono più lunghe, i venti sempre sostenuti e gli uccelli marini hanno nomi bellissimi e affascinanti. Quando li vedi volare ti rendi conto di quanto sia bella la natura, di quanto sia funzionale quella planata che non consuma energie preziose per battere le ali che, anche immobili, fanno il loro dovere. Assomigliano ad alianti: semplicemente molto più belli, agili ed efficienti. Il cielo è sempre grigio e l'orizzonte, spesso difficile da individuare, si confonde con le creste delle onde e con le nuvole, grigie anch'esse. Le notti diventano presto cortissime, l'aria in cabina è fradicia e sperare di poter dormire tranquilli e asciutti nel sacco a pelo è solo un'illusione. Ci si abitua presto. Ci si abitua a tutto. Alla fine non ci si accorge più del letto bagnato o della temperatura polare. La partenza della seconda tappa venne data il 27 novembre. Solo pochi giorni dopo, il primo dicembre, Isabelle, che aveva stravinto la prima tappa con sei giorni di vantaggio sul secondo grazie a una serie di scelte meteorologiche particolarmente azzeccate, disalbera. Quella mattina accesi il computer e leggendo il messaggio di Isabelle rimasi esterrefatto. Si navigava mure a sinistra con 30 nodi da Nord-Ovest. Kodak letteralmente volava, spinta dal vento al lasco stretto e dalle onde che venivano un poco più da Ovest, quindi più verso la poppa della barca. Condizioni decisamente estreme: il ponte sempre sommerso dagli spruzzi e la barca che accelerava veloce nelle onde. Isa aveva disalberato. La cosa mi lasciò veramente di stucco, amareggiato. Sapevo quanto avesse lavorato per questo giro. Eravamo solo all'inizio dell'Indiano, ma era impossibile tornare verso Cape Town. L'unica soluzione possibile sarebbe stata andare fino alle Kerguelen e cercare di organizzare qualcosa lì. Quelle isole in mezzo al Grande Sud sono posti assolutamente dimenticati da Dio e dagli uomini. Unico contatto con il continente africano, una nave che fa la spola ogni due mesi. Ma oltre a tutto questo pensavo a Isabelle, sola sul ponte della barca, a dover inventare un'attrezzatura di fortuna per poter dirigere la barca da qualche parte. Pensavo alle mani gelide che ti fanno male a fare qualsiasi cosa; la pelle si screpola, si secca e nelle pieghe si formano tagli dolorosissimi. La immaginavo sola nella nebbia a organizzare quel ponte disastrato, a issare un tangone come albero. Pensavo alla rabbia e alla delusione che doveva provare in quel momento terribile e soprattutto mi chiedevo cosa sarei stato capace di fare se fosse successo a me. Isa se la cavò egregiamente. La sua squadra di assistenza riuscì a organizzare un albero di fortuna di 14 metri che venne montato alle Kerguelen e lei col suo Ecureuil Poitou Charente poté proseguire per Sydney, dove le avrebbero fatto trovare un albero nuovo completamente attrezzato. Io continuai la mia corsa con David che mi stava alle calcagna. Alle Kerguelen ci incrociammo sotto spi, io mure a destra e lui mure a sinistra. Fu un vero incubo, solo il primo di una lunga serie. Impiegai una giornata per riuscire a perderlo di vista. True Blue era una barca molto veloce in poppa piena, ma Kodak si comportava benissimo. Solo qualche giorno dopo incappammo nella più grossa tempesta che abbia mai visto in tutta la mia carriera di navigatore. | << | < | |