Autore Rebecca Solnit
Titolo Chiamare le cose con il loro nome
SottotitoloBugie, verità e speranze nell'era di Trump e del cambiamento climatico
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2019, Saggi , pag. 240, cop.fle., dim. 13,7x20,5x2,2 cm , Isbn 978-88-3331-118-0
OriginaleCall Them by Their True Names. American Crises (and Essays) [2018]
TraduttoreLaura De Tomasi
LettoreGiorgia Pezzali, 2019
Classe politica , paesi: USA , movimenti , media , scienze sociali












 

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Indice


Prefazione. Politica e linguaggio in America, oggi    7
E Dio si grattò un'ascella                           13


                    I. Catastrofi elettorali

La solitudine di Donald Trump                        19
Pietre miliari della misoginia                       29
Venti milioni di narratori che mancano all'appello   45


                    II. Emozioni americane

L'ideologia dell'isolamento                          55
Cinismo ingenuo                                      65
Guardare in faccia la rabbia                         75
Predicare al coro                                    89


                    III. Argomenti caldi

Il cambiamento climatico è violenza                 105
Una fondazione insanguinata                         111
Morte per gentrificazione                           117
Senza entrata, senza uscita                         145
Un uccello in gabbia                                151
Guerre a colpi di monumenti                         165
Otto milioni di modi di sentirsi a casa             177
La luce di Standing Rock                            183


                    IV. Possibilità

Break the Story                                     191
La speranza e la pena                               205
Elogio delle conseguenze indirette                  213


Ringraziamenti                                      229
Note                                                231


 

 

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Pagina 7

Prefazione

Politica e linguaggio in America, oggi


Nella classificazione di Aarne-Thompson delle fiabe e racconti del folklore, il numero 500 corrisponde ai casi in cui «un personaggio misterioso o minaccioso viene sconfitto quando l'eroe o l'eroina scopre il suo nome». Una volta la gente conosceva il potere dei nomi. Alcuni lo conoscono anche oggi. Chiamando le cose col loro nome si fa piazza pulita delle menzogne che giustificano, smorzano, confondono, nascondono, eludono e che incoraggiano l'inerzia, l'indifferenza, il menefreghismo. Non basta per cambiare il mondo, ma è un passaggio fondamentale.

Quando il soggetto è difficile, l'atto di nominare diventa una diagnosi. Benché non tutte le malattie, una volta diagnosticate, siano curabili, dal momento in cui sappiamo con cosa abbiamo a che fare abbiamo a disposizione molti più strumenti per sapere come comportarci; da quel primo passo derivano assistenza, cure efficaci e, grazie alla ricerca, la malattia e le sue conseguenze possono essere addirittura ridimensionate. Dato un nome a un problema sociale, possiamo stabilire una connessione con la collettività che ne è afflitta, o costruire una nuova collettività. Talvolta, ciò che viene diagnosticato si può curare.

Il punto di partenza è dare un nome alle cose, e per questo anche solo parlare delle peggiori può essere salutare. È il primo passo di un cammino di liberazione. Chiamato per nome, il nano Tremotino cade preda di una rabbia autodistruttiva che libera l'eroina della fiaba dai ricatti a cui lui l'ha sottoposta. Al centro delle fiabe c'è sempre un incantesimo, ma spesso è la sua rottura il loro vero obiettivo: mandarlo in frantumi insieme all'inganno, alla trasformazione che ha reso qualcuno qualcun altro togliendogli la parola, rendendolo irriconoscibile o privandolo di sembianze umane. Spesso, chiamare con il suo nome ciò che i politici e altri esponenti del potere fanno di nascosto li costringe alle dimissioni o provoca cambi al vertice.

Chiamare le cose col loro nome significa mettere a nudo ciò che può essere brutale o corrotto, ma anche importante o possibile: per cambiare il mondo bisogna cambiare il modo di raccontarlo, cambiare i nomi e trovarne o spargerne di nuovi, insieme a nuove definizioni e nuovi modi di dire. Il progetto di liberazione comprende anche il conio di nuovi termini o la popolarizzazione di parole prima oscure: cose come «normalizzazione», «estrattivismo», «carbone non combustibile», walking while black, gaslighting, prison-industrial complex and the new Jim Crow, «consenso affermativo», «cisessualità», concern trolling, whataboutism, manosphere, e altro ancora.

La cosa funziona in entrambi i sensi. Basta pensare a come l'amministrazione Trump ha ribaltato la connotazione positiva insita nel termine «ricongiungimento famigliare» usando un'espressione sinistra che evoca l'idea di contagio: «catena migratoria». Oppure alla seconda amministrazione Bush che ha rinominato la tortura «tecniche potenziate di interrogatorio» e a quanti organi di stampa vi si sono adeguati. Oppure, ancora, alla vuota frase usata dall'amministrazione Clinton, «costruire un ponte verso il Ventunesimo secolo» per celebrare il glorioso nuovo mondo dominato dalla tecnologia e occultarne risvolti ottocenteschi quali disuguaglianze economiche e capitani d'industria corrotti. O anche all'introduzione da parte di Ronald Reagan della figura della «welfare queen», essere mitologico la cui ributtante avidità serviva a giustificare i tagli degli aiuti ai poveri e a ignorare la realtà della crescente miseria diffusa.

Ci sono moltissimi modi di raccontare bugie. Uno è ignorare intere aree d'influenza, omettere informazioni cruciali o sganciare le cause dagli effetti; altri consistono nel falsificare informazioni distorcendole e ridimensionandole, nell'usare eufemismi per designare atti violenti o per mettere in cattiva luce cose assolutamente legali, come quando si dice che i ragazzi bianchi «passeggiano» mentre í ragazzi neri «bighellonano» o «si appostano». Le parole possono cancellare, distorcere, sviare, lanciare esche, creare diversivi. Possono nascondere i corpi o farli venire alla luce.

Si può far finta che i dati sul cambiamento climatico si possano leggere in due modi e mettere sullo stesso piano i consulenti pagati dalle multinazionali e la stragrande maggioranza degli scienziati specializzati in merito. Si può evitare di unire i puntini, come si è fatto per lungo tempo negli Stati Uniti a proposito della violenza di genere, così da far passare i dati allucinanti della violenza domestica e delle aggressioni a sfondo sessuale per storie di secondo piano completamente slegate fra loro. Si possono insultare le vittime o raccontare le loro storie in modo da far apparire disoneste o pazze croniche donne cronicamente oggetto di violenza, perché nel primo caso lo status quo viene mantenuto, nel secondo viene smantellato, ricordandoci che talvolta abbattere è costruttivo. Per insultare le donne si usano tantissimi termini - prepotente, insistente, sgualdrina, isterica, solo per citarne alcuni - raramente usati per gli uomini, e altri ancora, come «arrogante» o «esotica», che veicolano una connotazione razzista.

Si possono inventare conflitti dove non ce ne sono, come quando si contrappongono classi sociali e identità di appartenenza, sorvolando sul fatto che tutti ricadiamo sotto entrambe le categorie e che la maggioranza delle persone che a rigore vengono definite «lavoratori» sono donne e persone di colore. Lo slogan di Occupy Wall Street We are the 99%, «Siamo il 99 per cento» si fondava su un'idea di società non necessariamente suddivisa in classi, ma in cui un 1 per cento - secondo un'espressione ormai entrata a far parte del gergo comune - era contrapposto all'altro 99.

Precisione, accuratezza e chiarezza sono atteggiamenti di rispetto: nei confronti di coloro a cui ci si rivolge, di ciò di cui si sta parlando, che sia una persona o il Pianeta, e della storia stessa. Anche nei confronti di se stessi; in molte antiche culture vige il principio secondo cui il valore di una persona sta nella sua parola. Il titolo di una raccolta di scritti del leader zapatista Subcomandante Marcos è Our Word Is Our Weapon, «Le nostre parole sono le nostre armi». Se le tue parole sono inattendibili, se sono spazzatura, menzogna, roba usa e getta, tu non sei niente, non sei mai stato niente; sei uno che grida al lupo, un trombone, un imbroglione.

E infatti una delle crisi in atto in questo momento storico è la crisi del linguaggio. Le parole si decompongono trasformandosi in un guazzabuglio di scopi poco chiari. La Silicon Valley adopera certe espressioni per dissimulare i propri veri intenti: «sharing economy», «disruption», «connectivity», «openness»; termini come «capitalismo di sorveglianza» risulterebbero respingenti. E poi i maltrattamenti a cui l'attuale presidente degli Stati Uniti sottopone il linguaggio, con le sue accozzaglie di parole farfugliate, sconnesse, a vanvera, quando ribadisce che la verità e i fatti sono solo e unicamente quelli che lui vuole che siano, anche quando vuole che siano diversi da quelli che erano fino a ieri: di qualsiasi cosa parli, si tratta sempre di cose insensate.

La ricerca del senso è nel modo in cui viviamo ma anche nel come descriviamo la nostra vita e ciò che ci circonda. Come sostengo in uno dei capitoli di questo libro, «Nel momento in cui iniziamo a dare loro un nome, possiamo iniziare a parlare seriamente delle nostre priorità e dei nostri valori. Perché la ribellione contro la brutalità inizia con la ribellione contro il linguaggio dietro il quale la brutalità si nasconde».

Incoraggiare significa, letteralmente, instillare coraggio; disintegrazione significa perdita dell'integrità o dell'integrazione. La cura e la precisione nell'uso delle parole è un modo per opporsi alla disintegrazione del significato, per infondere coraggio nella comunità che ci sta a cuore e incoraggiare il dialogo che infonde la speranza e nutre le idee. Chiamare le cose con il loro nome è ciò che ho cercato di fare in questo libro.

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Pagina 29

Pietre miliari della misoginia

2016


Dopo il secondo dibattito trasmesso dalla tv il 9 ottobre 2016 tra i candidati alle presidenziali, alcune donne mi hanno raccontato di avere rivissuto episodi orribili del proprio passato, di non essere riuscite a prendere sonno o di aver avuto incubi. In quel dibattito le parole e il modo in cui sono state pronunciate hanno avuto molto peso. Donald Trump ha interrotto Hillary Clinton diciotto volte (nel primo dibattito erano state cinquantuno). Alla domanda del moderatore Anderson Cooper a proposito della registrazione, resa pubblica qualche giorno prima, in cui si vantava di «prendere le donne per la figa», Trump ha risposto: «Era una battuta da spogliatoio, nient'altro. Io abbatterò l'ISIS... Si dovrebbe discutere di cose più importanti». Ha anche promesso di «far tornare l'America un luogo sicuro». Non al sicuro da lui, verrebbe da dire: quella settimana, promettendo di aggredirli, ha messo le donne e l'ISIS sullo stesso piano.

Più delle parole, però, hanno contato gli atteggiamenti.

[...]

Ricordare che Clinton aveva vinto il voto popolare metteva in imbarazzo molti maschi di mia conoscenza, anche se non volevano né potevano prendere in considerazione quel dato nel senso in cui lo facevo io. Ai tempi scrissi: «Con la loro radicata fede nel proprio speciale monopolio sull'obiettività, un po' troppi uomini mi rassicurano di non esprimere alcuna misoginia nei loro giudizi soggettivi, anzi: di non essere condizionati dal loro punto di vista personale o dalle loro emozioni, e che non ci sono ragioni valide per esprimere opinioni diverse, perché la loro non è un'opinione». E poi riprendevano a parlare di quanto Clinton fosse una perdente, idea che sembrava stimolarli eroticamente nello stesso modo in cui la possibilità che vincesse sembrava provocare in loro profondo disgusto dal punto di vista sia erotico, sia emotivo.

C'erano prove chiarissime che quelle che si stavano svolgendo non erano elezioni libere e giuste, e quelle prove avrebbero dovuto indurci a contestarle e a fermare Trump. Ma questi uomini di sinistra erano talmente concentrati sul fatto che Clinton era una perdente per definizione da desiderare che Trump vincesse, perché la sua vittoria legittimava qualcosa che per loro rivestiva un'importanza molto maggiore del loro impegno nei confronti di qualsiasi causa. Trump era un candidato talmente debole che per farlo vincere bisognava privare del diritto di voto milioni di elettori di colore, mettere fine al Voting Rights Act, intraprendere una lunga campagna sui media per trasformare in crimine efferato l'uso da parte di Cliton di un server privato di posta elettronica (senza dubbio lo scandalo più insignificante della storia) e infine far intervenire, a evidente scopo di sabotaggio, il direttore dell'FBI James Comey. Dalla vergognosa mossa di Comey abbiamo imparato che è peggio essere una donna e avere un'assistente separata il cui marito è un viscido, che essere un vero predatore, accusato di molestie e violenze sessuali da più di una dozzina di donne.

Hillary Clinton era l'unica cosa che si frapponesse tra noi e un incosciente, umorale, ignorante, stupido, smisuratamente volgare, negazionista del cambiamento climatico, nazionalista misogino con ambizioni autoritarie e progetti plutocratici. Un sacco di gente, soprattutto maschi bianchi, non la potevano vedere, e questa è stata la ragione più vera di tutte della vittoria di Trump. Ho continuamente sentito uomini dichiarare che non era stata in grado di far sì che loro la votassero; secondo loro la sconfitta è stata sua, non nostra, e a lei ne hanno addossata la colpa, come se l'elezione fosse un regalo che si sono rifiutati di farle perché non lo meritava o non gli piaceva. Non hanno dato né a se stessi, né all'elettorato, né al sistema la colpa per non essere riusciti a fermare Trump.

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Pagina 78

[...] La rabbia è ostile alla comprensione. Nelle sue espressioni più implacabili o estreme, impedisce di capire le situazioni: quelle delle persone contro cui si scaglia, e quelle del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. Non per niente quando si parla della rabbia si usa l'aggettivo «cieca».

C'è qualcuno più posseduto di Donald Trump da questa rabbia accecante? Al momento, a capo della nostra nazione c'è un uomo gretto, vendicativo, istrionico la cui situazione di privilegio lo ha privato fin del più elementare addestramento ad affrontare ostacoli e offese. È stato eletto da gente attratta da lui perché ha puntato sulla loro rabbia, gente che ha reso ancora più arrabbiata e a cui ha promesso vendetta colpendo í soliti bersagli, interni ed esterni, annebbiando la loro capacità di comprendere cos'avrebbe comportato la sua elezione per la tutela della loro salute e sicurezza, per l'ambiente, l'istruzione, l'economia.

Ma l'ascesa rabbiosa di Trump è solo il punto culminante del lungo viaggio della rabbia verso l'istituzionalizzazione in questo Paese. Il nostro sistema legale, per esempio, è slittato all'indietro, dall'ideale della giustizia imparziale a un modello basato sulla rappresaglia. Il sistema penitenziario usa ancora una pletora di termini che vanno nella direzione opposta, come «riabilitazione», «recupero», «correzione» e la «penitenza» implicita nella parola «penitenziario», ma la sua retorica e le sue pratiche oggi sono spesso puramente punitive. Capita che le famiglie delle vittime di omicidio vengano invitate alle esecuzioni degli assassini dei loro cari, come se la pena di morte fosse uno strumento di vendetta personale (molte di queste famiglie declinano l'invito, e alcune hanno protestato contro le sentenze).

È una prassi normale da parte dei governi creare a bella posta o esagerare le minacce per indurre a pensare che la violenza sia necessaria e che la moderazione si traduca in debolezza: durante la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti punivano i cittadini di origine giapponese; nel periodo postbellico hanno preso di mira quelli di sinistra. Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica era urgente trovare nuovi nemici, e da quel momento lo sono diventati i musulmani, gli immigrati e i transgender. Provocare la rabbia è essenziale per il potere che usa la manipolazione, e le persone più arrabbiate sono spesso le più credulone e pronte ad abboccare senza controllo a qualsiasi esca alimenti la loro rabbia.

Sui social media il pubblico presta un'attenzione superficiale ai fatti, con il risultato di abbandonarsi al piacere della giusta collera nei confronti del bersaglio di turno che ha detto o fatto qualcosa di sbagliato. La rabbia è l'attrezzo del mestiere di molti politici e di opinionisti, tabloid e siti web che danno loro spazio; è l'emozione preferita, forse perché è intrinsecamente reattiva, volatile: facile da provocare, facile da manipolare. Come sostengono Jeffrey M. Berry e Sarah Sobieraj in The Outrage Industry, è diventata una specie di merce, un prodotto venduto a specifici consumatori. I contenuti che provocano rabbia hanno maggior possibilità di avere successo, di «incastrarsi», non da ultimo perché la rabbia in sé è un modo per «incastrare» il cervello.

Molti fra i maggiori canali di comunicazione che trafficano in indignazione sferrando attacchi ad personam, dividendo i politici in due categorie - gli eroi e i cattivi - dandoci ogni giorno la nostra rabbia quotidiana, sono vicini ai conservatori: Fox News, per esempio, o i network radiofonici. Ma sono in tanti anche a sinistra a subire il fascino della rabbia. Sono cresciuta all'ombra dello slogan «Se non sei arrabbiato, non te ne importa niente», che fa coincidere quell'emozione con l'impegno, con gli ideali, suggerendo che senza la prima non si possono onorare i secondi. Una giusta rabbia viene spesso vista come una virtù.

Ma la rabbia non coincide con l'indignazione. Potremmo dire che la seconda trova motivazione meno nella collera per ciò che è stato fatto che nell'empatia nei confronti di coloro ai quali è stato fatto.

[...]

Nella mia esperienza, le persone che si fanno carico di cambiare davvero le cose sono in genere quelle meno coinvolte negli accessi di rabbia che indeboliscono sia noi, sia gli altri. Dopo aver letto o ascoltato in tutti i dettagli centinaia di resoconti di violenza carnale, probabilmente continuerai a sentirti motivato a impegnarti in politica in prima persona, ma troverai difficile indignarti per l'ultimo caso di stupro. Gli organizzatori più attivi non hanno la tendenza a perdere le staffe. Il loro primo impegno è cambiare le cose: l'azione, non l'espressione di sé.

Molta retorica politica sostiene che senza rabbia non c'è impegno, che la rabbia è come una benzina che aziona il motore del cambiamento della società. Talvolta però la benzina si limita a provocare esplosioni.

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Pagina 105

Il cambiamento climatico è violenza

2014


Se sei povero, l'unico modo che hai per fare del male a qualcuno è il vecchio sistema tradizionale che potremmo chiamare violenza artigianale - a mani nude, a coltellate, a bastonate - oppure usando la violenza dei mezzi moderni: con le armi da fuoco o investendolo con l'auto.

Se invece sei incredibilmente ricco, puoi praticare la violenza su scala industriale senza mai sporcarti le mani. Per esempio in Bangladesh puoi mettere in piedi una fabbrica che sfrutta i lavoratori e crolla su se stessa uccidendo più gente di qualsiasi stragista, oppure puoi calcolare i costi e i benefici di sversare veleni o installare macchinari non sicuri, come fanno tutti i giorni i capitani d'industria. Se sei a capo di una nazione, puoi dichiarare una guerra e uccidere centinaia, migliaia o milioni di persone. Le superpotenze nucleari - Stati Uniti e Russia - detengono ancora l'opzione di distruggere un bel po' di vita sulla Terra. La stessa cosa vale per i magnati dell'energia.

Peccato che quando si parla di violenza s'intenda quasi sempre violenza dal basso, non dall'alto. Ci ho pensato quando ho ricevuto un comunicato stampa di un gruppo ambientalista che diceva: «Secondo gli scienziati c'è un nesso diretto tra il cambiamento climatico e l'aumento della violenza». Quello che in realtà dicono gli scienziati, stando a un articolo non così rilevante su Nature, è che negli anni in cui si verifica il fenomeno del Niño nelle regioni tropicali si registra un aumento della conflittualità e che forse questo fenomeno assumerà progressivamente proporzioni sempre maggiori, rendendo la nostra epoca di cambiamento climatico anche un'epoca di guerre civili e conflitti internazionali.

Il messaggio è che con l'intensificarsi del cambiamento climatico la gente comune si comporterà sempre peggio. Una cosa che pare sensata, a meno che non si decida di tornare alle premesse e di stabilire che il cambiamento climatico in sé è violenza. Violenza estrema, terrificante, prolungata e diffusa.

Il cambiamento climatico è antropogenico, ossia provocato dagli esseri umani; molto più da certi che da altri. Ne conosciamo le conseguenze: l'acidificazione degli oceani e la diminuzione degli esemplari di molte specie oceaniche, la lenta scomparsa di nazioni insulari come le Maldive, aumento di alluvioni, siccità, perdita di colture che provocano innalzamento del prezzo del cibo e carestie, manifestazioni meteorologiche sempre più estreme (basti pensare ai recenti uragani a Houston, New York, Puerto Rico, agli incendi in California e Australia, ai tifoni nelle Filippine e alle ondate di caldo che uccidono decine di migliaia di persone anziane).

Il cambiamento climatico è violenza.

[...]

Una frase logora, «distruzione della Terra», ma traducetela nell'immagine di un bambino che sta morendo di fame e di un campo arido, e poi moltiplicatela per diversi milioni di volte. O semplicemente visualizzate i piccoli molluschi: capesante, ostriche o lumache del Mare Artico che non riescono più a formare le loro conchiglie nelle acque divenute troppo acide. Provate a pensare a un altro tifone che fa piazza pulita di un'altra città. Il cambiamento climatico è violenza su scala globale, contro i luoghi e le specie viventi come contro gli esseri umani. Solo dopo averlo chiamato con il suo nome possiamo iniziare a parlare sul serio di priorità e di valori. Perché la ribellione contro la brutalità inizia con la ribellione contro il linguaggio dietro il quale la brutalità si nasconde.

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Pagina 165

Guerre a colpi di monumenti

2017


Per anni, tutte le volte che mi trovavo a New Orleans, andando a correre mi imbattevo in una statua equestre appena fuori dal delizioso e verdissimo City Park. Benché ubicata a un incrocio importante, quello tra Esplanade Avenue e Wisner Boulevard, la statua in sé non è niente di particolare, il solito cavallo muscoloso con cavaliere. Il monumento celebra Pierre Gustave Toutant Beauregard, generale il cui assalto a Fort Sumter nell'aprile 1861 dette inizio alla Guerra civile. Sotto la zampa destra del cavallo, una lapide ricorda i quattro anni in cui Beauregard servì l'esercito dei Confederati; non nomina invece la sua lunga militanza nell'esercito degli Stati Uniti. Alcune miglia a sud, al centro della piazza chiamata Lee Circle, il comandante di Beauregard nell'esercito confederato e, come lui, proprietario di schiavi Robert E. Lee svetta in cima a una colonna marmorea alta più di diciotto metri, braccia incrociate e spada al fianco. Lee è troppo in alto per essere guardato bene, come se fosse stato messo intenzionalmente fuori dalla portata di chi contestasse la sua presenza in cima a un monumento.

A New Orleans non è difficile trovare monumenti in ricordo del passato confederato del Sud. In riva al Mississippi, un obelisco bianco rende omaggio alla battaglia di Liberty Place (1874), un sanguinario tentativo da parte di una formazione paramilitare razzista di nome Crescent City White League di rovesciare il governo ricostruzionista della Louisiana. A difesa del governo, composto sia da neri sia da bianchi, c'erano una milizia nera e la polizia di New Orleans. Durante le schermaglie i militanti della White League usarono i tram come barricate e si nascosero dietro balle di cotone. Rimasero uccise alcune decine di persone, tra cui undici poliziotti. L'insurrezione venne domata, ma il suo scopo di porre fine alla Ricostruzione si realizzò nell'arco di due anni, quando le elezioni presidenziali del 1876 revocarono le riforme del decennio precedente e privarono i neri del diritto di voto. Nel 1932 venne aggiunta al monumento un'iscrizione che rendeva omaggio al rovesciamento del «governo degli avventurieri». Le elezioni nazionali, continua l'iscrizione, «hanno riconosciuto la supremazia dei bianchi e ci hanno restituito il nostro Stato».

«Ci», naturalmente, si riferisce ai bianchi. I libri di storia insistono sul fatto che a vincere la guerra fu il Nord, ma è difficile averne la prova nel Sud. Se il Nord avesse vinto la guerra, non ci sarebbero statue né strade intitolate ai leader sconfitti. Se il Nord avesse vinto la guerra, i nostri monumenti sarebbero intitolati alla sofferenza degli schiavi e alla loro lotta per la libertà. Se il Nord avesse vinto la guerra, la bandiera confederata sarebbe un simbolo di un'ideologia vergognosa e di una sconfitta militare, e la si troverebbe solo nei musei. Se il Nord avesse vinto la guerra, la guerra sarebbe finita. O almeno la pensavo così quando sono arrivata nel Sud da adulta non abituata a imbattersi in quella bandiera e in quei monumenti come normali componenti del paesaggio.

Anche a ovest, dove vivo attualmente, abbiamo le nostre guerre non fmite: le guerre indiane.

[...]

Sono moltissime le statue che nell'Ovest celebrano uomini che hanno ucciso gli indigeni e li hanno depredati di tutto. La maggior parte dei memoriali è la rappresentazione di ciò che è seguito all'invasione e al conflitto: l'insediamento dei bianchi. A San Francisco una madre pioniera con i suoi figli sorveglia una pista da running nel Golden Gate Park; vicino alle torri della City Hall sorge un altro monumento più grande, con diversi gruppi di figure in bronzo tra cui quella di un prete spagnolo e di un vaquero che incombono su un nativo americano sottomesso. L'idea è che lo stiano «civilizzando», peccato che facciano pensare a poliziotti che picchiano un sospetto.

Le città sono libri che si leggono percorrendone le strade, testi che scelgono una versione della storia cancellando le altre, che premiano la tua identità oppure la penalizzano, che ti fanno sentire importante o una nullità a seconda di chi sei e di cosa sei. Quando ho chiamato Maurice Carlos Ruffin, scrittore e avvocato che vive a New Orleans, per parlare dei monumenti ai Confederati della sua città, mi ha risposto: «Le statue, alcune delle quali pregevoli dal punto di vista estetico, sostengono che se sei bianco sei umano, se non lo sei, no». Lui non lo è.

Chi viene ricordato, e come? Chi lo decide? Queste sono domande politiche. «Chi controlla il passato» scrive George Orwell in 1984, «controlla il futuro». Lo sanno quelli che negli Stati Uniti cercano di influenzare il futuro, e sanno anche cosa scrive Orwell dopo quella frase: «Chi controlla il presente controlla il passato». Noi non siamo quelli di una volta - intendendo con «noi» i cittadini di un Paese la cui popolazione non bianca è cresciuta in termini numerici, di visibilità e di potere, ma che rimane emarginata in moltissimi modi. Il razzismo ne è a tal punto parte integrante che se decidessimo di smettere di onorare gli schiavisti dovremmo cambiare nome a città e contee e allo Stato di Washington; il sessismo è a tal punto radicato che le grandi donne della storia sono quasi assenti dalle nostre strade e piazze. Che fare di un paesaggio le cui fattezze riportano l'eredità della violenza? Distruggere ciò che è stato eretto? Costruire nuovi edifici e monumenti per pareggiare la partita? Ricontestualizzare o riutilizzare l'esistente?

[...]

Trump si è dimostrato vergognosamente geniale nel fornire ai suoi sostenitori un semplice - e falso - resoconto della storia, infiammando la loro nostalgia per un passato immaginario ed evocandone il trionfale ritorno. La vittoria di Trump ha legittimato i nazionalisti bianchi a riscrivere la storia su quella falsariga, o a cancellare la nostra versione. Il modo migliore per opporsi alle loro falsità non è sostituire semplicemente una storia con un'altra, ma aggiungere particolari contraddittori e restituire complessità ai fatti. Sarebbe impossibile, oltreché stupido, cancellare tutti i segni della bruttezza del passato di questa nazione; il risultato sarebbe una lobotomia del paesaggio. E proprio come non possiamo dimenticare che le statue e i monumenti rafforzano le esclusioni e le offese del presente, dovremmo anche ricordare che la prospettiva che sta emergendo è tutt'altro che la concretizzazione definitiva dell'inclusione e dell'uguaglianza. La posterità modificherà o cancellerà i nostri contributi e ci maledirà per crimini che non abbiamo ancora compreso. Le statue sono immobili, la cultura le supera.

E comunque, nel maggio 2017 le quattro statue dei confederati di New Orleans sono state rimosse. New Orleans ha abbandonato la Confederazione. Molte altre città e istituzioni l'hanno seguita. Non ci siamo lasciati indietro il passato confederato, ma l'abbiamo combattuto un'altra volta.

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Pagina 177

Otto milioni di modi di sentirsi a casa


20 ottobre 2016

Caro Donald Trump,

Mi chiedo se lei ha mai veramente esplorato la città di New York in cui dice di vivere. Glielo consiglio caldamente, perché ha bellezze e splendori che smentiscono completamente tante affermazioni che le ho sentito fare durante la sua campagna elettorale, in particolare nel dibattito finale. Per prima cosa, la popolazione di otto milioni di persone comprende un'ampia percentuale di immigrati, musulmani, neri, messicani e anche bravissime persone che sono al tempo stesso nere, musulmane e immigrate. I bianchi sono solo un terzo dei residenti. Lei sostiene che nel caso arrivasse un gran numero di immigrati irregolari e di musulmani, la situazione diventerebbe pericolosa. Ho una notizia da darle: ci sono già, e a quanto pare tutto funziona piuttosto bene.

Le è mai capitato discendere dalla sua torre senza ficcarsi subito in una limousine diretta a un jet?

[...]

Se lei non è pronto a uscire e a mescolarsi, ecco un semplicissimo consiglio di lettura: legga del denaro. Non un pezzo grosso, bastano dieci centesimi. E pluribus unum, c'è scritto: «uno fatto di molti». Questo motto è stato uno dei principi fondamentali di questo Paese sin dalla sua nascita. Viene messo in pratica nelle nostre città, nei grandi luoghi di coesistenza. Non si tratta solo di tolleranza o di differenza, ma di piacere e amore per la differenza, per la mescolanza, per i matrimoni misti, le ibridazioni e l'invenzione di nuove forme nate dalle differenze di cui siamo portatori quando ci uniamo. Molto di tutto ciò rende l'America un grande Paese quando è grande, e non un Paese arrabbiato, divisivo, iniquo e fuorviato. Un Paese che è proprio qui, tutto intorno a noi, in questa grande città.

Cordialmente,

Rebecca Solnit

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Break the Story

2016


«Break the story», «far uscire la notizia», è un'espressione usata dai giornalisti e significa «fare uno scoop», «essere i primi a raccontare qualcosa»; per me ha anche un significato più ampio. Dal resoconto di un evento, non importa quanto grande o piccolo, che siano le elezioni presidenziali o la riunione di un consiglio scolastico, ci si aspetta che il risultato sia una storia che racconta quanto è appena avvenuto. Però, va detto che le storie ci stanno tutto intorno, come l'aria; le inspiriamo e le espiriamo. Nella vita, l'arte di avere piena consapevolezza consiste nel vedere le storie e diventarne i narratori, non nel lasciare che, invisibili, ci dicano cosa fare. Raccontare storie che diventano di dominio pubblico richiede le stesse capacità ma con conseguenze e responsabilità maggiori, perché la storia diventa parte di quella corrente che può indebolire o rafforzare le forze esistenti. Il lavoro di un giornalista consiste nel riportare la storia che si presenta in superficie, la storia che vi è contenuta e quella accaduta ieri. Consiste anche nel vedere e talvolta nel forzare o addirittura fare a pezzi le storie che la circondano, quelle già scritte, e nel comprendere le relazioni tra quelle e la storia principale.

Ci sono storie sotto le storie e attorno alle storie. L'ultimo evento, quello in superficie, è spesso solo lo stemma posto sopra il possente motore sociale rappresentato da una storia che guida una cultura. Chiamiamo queste storie «narrazioni dominanti», «paradigmi», «meme», «meccanismi metaforici», «strutture concettuali». Comunque le si descriva, si tratta di forze immensamente potenti. E la cultura dominante procede perlopiù rinforzando le storie che sono i pilastri sui quali si regge e che, troppo spesso, sono anche le sbarre delle gabbie in cui qualcun altro è rinchiuso. Troppo spesso sono anche storie che, riprendendo il significato letterale dell'espressione «break the story», devono essere fatte a pezzi; o che lo sono già, sono danneggiate e fanno danni, ma restano in uso ben oltre la loro data di scadenza. Stanno in cima a montagne di presupposti non sottoposti ad alcun vaglio. Perché i media, obbedienti, insistono così tanto sul terrorismo, che a conti fatti negli Stati Uniti uccide poche persone, e perlopiù trascurano la violenza domestica, che terrorizza milioni di donne statunitensi per lunghi periodi e ne uccide quasi mille all'anno? Come «fare a pezzi» e poi «far uscire» la storia su chi davvero ci minaccia e ci uccide?

Due cose da tenere sempre presenti sono il ciclo di vita e la catena alimentare delle storie. Le nuove storie, quelle che «spaccano», tendono a emergere dai margini e dalle zone di confine. Gandhi non ha mai detto «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono e poi hai vinto», ma in genere è così che funziona l'attivismo. E quando l'attivismo vince è perché, almeno in parte, la storia è diventata la nuova narrazione, la storia accettata dall'opinione corrente. In questo processo il giornalismo svolge un ruolo chiave. Oggi potete vedere Black Lives Matter cambiare la storia portando l'attenzione sull'epidemia di omicidi perpetrati dalla polizia e su come questi omicidi di giovani di colore privino intere comunità dei loro diritti, uno dei quali è proprio quello di essere protetti, non minacciati, dalle forze di polizia. Potete vedere come gli attivisti hanno preso questa storia, risaputa nella comunità dei neri, l'hanno usata per infiammare i social media e perché venga raccolta dai cosiddetti media dell'informazione, i quali hanno dato ampio spazio a storie che altrimenti sarebbero state confinate in trafiletti sulle pagine interne, non certo oggetto di accesi dibattiti nei notiziari nazionali. Adesso sappiamo i loro nomi: Eric Garner, Mario Woods, Walter Scott, Sandra Bland, Tamir Rice, e tanti altri. La storia è stata portata dalla periferia al centro, e un gran numero di persone che non ne sono state toccate direttamente si sono schierate al fianco di coloro che lo sono.

Del lavoro di un bravo narratore fa parte l'esame delle storie sulle quali si basa la storia che è stato incaricato di raccontare, magari per renderle visibili e spesso per liberarci di esse. Fate a pezzi la storia. In questo tipo di scrittura, rompere è un'azione altrettanto creativa quanto costruire. Molti scrittori con la testa tra le nuvole sostengono che il mondo è fatto di storie come se in sé si trattasse di una bella cosa; io dico che è bella se le storie sono belle. Ci sono storie che demonizzano la rabbia femminile e la rabbia dei neri e riveriscono la rabbia dei maschi bianchi. Ci sono storie che raccontano l'inevitabilità del capitalismo, storie che raccontano che la realtà del cambiamento climatico è a doppia faccia, e ci sono un sacco di storie che non vengono raccontate perché agiterebbero le acque, inquieterebbero i potenti, turberebbero lo status quo. Sono storie che ti rendono parecchio scomodo per certe persone nei confronti delle quali è fantastico essere parecchio scomodi, e amato da altre, dalle quali essere amati è anche più fantastico.

Nel 2005 un triplice disastro colpì New Orleans. L'uragano era l'ultimo dei tre; il crollo delle infrastrutture e decenni di pessima politica urbanistica e di ancor peggiore applicazione lo resero un disastro accuratamente previsto e in gran parte opera dell'uomo, reso più terribile dal fallimento del contratto sociale. I poveri vennero lasciati a se stessi e quando non annegarono subirono le peggiori conseguenze del disastro. Poi, a criminalizzare la gente che cercava di sopravvivere, arrivarono i mass media, ossessionati dalla possibilità che qualcuno rubasse un televisore, rendendo così palese che la protezione dei televisori fosse, nella loro scala di valori, più importante del salvataggio di donne anziane e bambini traumatizzati. Ricaddero in una serie di cliché che si erano già visti all'opera nel 1906 a San Francisco in occasione del terremoto.

[...]

Nel marzo 2016 è morto uno dei grandi giornalisti del nostro tempo, Ben Bagdikian. Il suo scoop più importante è stato scoperchiare la terribile minaccia alla democrazia operata dai monopoli dell'informazione; a quei tempi ero sua allieva alla UC Berkeley Graduate School of Journalism. Molto tempo prima era stato a lui che Daniel Ellsberg aveva affidato i Pentagon Papers, rendendo pubbliche le menzogne di quattro presidenti sulla guerra in Vietnam e che «ruppe la storia» sulla guerra. Ebbi la fortuna di frequentare le sue lezioni di deontologia, in cui ci insegnava che non potevamo essere obiettivi, ma potevamo essere «corretti». Quella dell'obiettività è la favola secondo cui esiste una sorta di zona neutra, una terra di nessuno politica in cui possiamo stare noi e i grandi media. Anche la decisione su ciò che vale la pena di raccontare e su chi citare è una decisione politica. Tendiamo a trattare le persone agli estremi come ideologi e quelle al centro come neutrali, come se la decisione di non possedere un'auto fosse politica e quella di possederla non lo fosse, come se sostenere una guerra fosse neutralità e quella di opporvisi non lo fosse. Non esiste niente che non sia politico, non esistono indecisi né zone neutre: siamo tutti coinvolti.

Il termine «giornalismo schierato» è spesso usato in senso accusatorio, ma praticamente qualsiasi buona inchiesta è uno schierarsi. Se si rendono pubbliche le bugie di un presidente, come hanno fatto Bagdikian ed Ellsberg, probabilmente si ritiene che i presidenti non dovrebbero mentire; se si rende pubblico che un'azienda ha contaminato la falda acquifera - ad esempio con delle trivellazioni - probabilmente non si è a favore dell'avvelenamento delle acque, o almeno si è a favore del fatto che la gente debba venirlo a sapere. Sorprende vedere quanta gente difenderà quelli che avvelenano persone, animali e luoghi, spesso negando che il veleno sia velenoso o sostenendo che non abbiamo il diritto di sapere di quale veleno si tratta. Capita persino che l'essere contro l'avvelenamento diventi una posizione controversa.

La professione di chi scrive non consiste nello sbirciare attraverso la finestra che qualcun altro ha costruito, ma nell'uscire allo scoperto, nel mettere in discussione la costruzione o smantellarla e liberare ciò che sta al suo interno: lo scopo finale è rendere visibile ciò che era chiuso dentro, protetto dagli sguardi. Il giornalismo delle news si limita a guardare cosa è successo ieri invece di investigare sulle forze che operano al di sotto degli eventi e su chi sono i beneficiari invisibili dello status quo.

[...]

Penso che i grandi media non soffrano tanto di una distorsione di destra o di sinistra ma di una distorsione da status quo, una tendenza a credere alle persone che detengono un'autorità, a fidarsi delle istituzioni e delle corporation e dei ricchi e potenti e di qualsiasi tronfio uomo bianco in giacca e cravatta; a lasciar dire altre bugie a gente di cui è stato dimostrato che dice bugie, riportandone le parole senza metterle in discussione; a continuare a sostenere posizioni prontamente confutate; e a svalutare praticamente tutti gli outsider, screditandoli, prendendoli in giro o semplicemente ignorandoli. In questo modo nell'ultimo terzo di secolo si è lasciato che il nostro sistema economico si trasformasse in qualcosa di molto più iniquo; in questo modo i principali organi di comunicazione hanno sostenuto la menzogna secondo cui l'Iraq aveva qualcosa a che fare con Al Qaeda e l'Undici Settembre; in questo modo si insiste nella vile bugia secondo cui la negazione del cambiamento climatico, sostenuta economicamente dalle corporation dei combustibili fossili, rappresenta una posizione legittima a cui dedicare la stessa copertura mediatica delle conclusioni sulle quali concorda la stragrande maggioranza degli scienziati accreditati.

Per i giornalisti e in generale per gli esseri umani, l'elefante nella stanza è lì da un bel pezzo. Anzi, l'elefante nella stanza è la stanza stessa, la biosfera in cui ha luogo ogni forma di vita conosciuta nell'universo, e dalla quale la vita dipende; la biosfera oggi devastata dal cambiamento climatico, un cambiamento destinato a diventare sempre più pronunciato. La sua entità non ha paragoni con qualsiasi altra cosa gli esseri umani abbiano mai affrontato e i giornalisti raccontato, tranne forse la minaccia della guerra nucleare totale, con la differenza che quella avrebbe potuto accadere, non sta già accadendo. Il cambiamento climatico è qui, e sta cambiando tutto. È una cosa più grande di qualsiasi altra, perché è tutto, per il futuro che possiamo immaginare.

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Elogio delle conseguenze indirette

2017


Nel febbraio 2017, Daniel Ellsberg ed Edward Snowden ebbero un confronto pubblico a proposito di democrazia, trasparenza, informazione, delazione e altro. Snowden - ovviamente in collegamento Skype da Mosca - disse che senza l'esempio di Ellsberg non avrebbe mai fatto nulla per rendere pubblico come la National Security Agency (NSA) stesse spiando milioni di cittadini. Fu una dichiarazione straordinaria, perché significava che le conseguenze della pubblicazione da parte di Ellsberg dei documenti top secret noti come Pentagon Papers nel 1971 non si limitarono all'impatto su una presidenza e una guerra degli anni Settanta, né sui suoi contemporanei. La sua azione avrebbe avuto un impatto su quanto sarebbe accaduto alcune decine di anni dopo: Snowden è nato dodici anni dopo che Ellsberg aveva messo a rischio il proprio futuro in nome dei propri principi. Spesso le azioni hanno un effetto che oltrepassa di molto il loro obiettivo immediato, e ricordarsene è una delle ragioni per vivere secondo un'etica che guida le nostre azioni, nella speranza che ciò che facciamo conti veramente anche se, probabilmente, i risultati non sono né immediati, né evidenti.

Gli effetti più importanti sono spesso i più indiretti. Quando partecipo a una manifestazione come quella delle donne del gennaio 2017, mi chiedo se il motivo per cui si tratta di qualcosa di importante è che un giorno qualcuno, un giovane o una giovane, scoprirà lo scopo della propria vita, anche se noi lo sapremo solo fra vent'anni, quando quella persona diventerà un grande attivista e cambierà il mondo.

Ho iniziato a parlare di speranza nel 2003, nei tempi cupi che seguirono l'inizio della guerra in Iraq. Quindici anni dopo uso ancora questa parola perché indica una strada tra le false certezze dell'ottimismo e del pessimismo e l'autocompiacimento o la passività che li accompagna entrambi. L'ottimismo postula che tutto andrà bene senza che facciamo nulla, il pessimismo che non c'è niente da fare; entrambi ci tengono chiusi in casa a non fare niente. Per me coltivare la speranza significa pensare che il futuro è imprevedibile e che noi non possiamo sapere cosa accadrà, ma sappiamo che potremmo essere in grado di incidervi in prima persona.

La speranza è credere che ciò che facciamo può essere determinante, capire che il futuro non è ancora stato scritto; è un'apertura mentale informata e avveduta su ciò che può accadere e su quale ruolo possiamo giocarvi. La speranza guarda avanti ma trae forza dal passato, dalla conoscenza della storia, partendo dalle nostre vittorie con tutte le loro complessità e imperfezioni. Significa non essere la perfezione che è nemica della bontà, non pensare di vincere facile né di sapere cosa accadrà, visto che il futuro non è stato ancora scritto e che parte di ciò che accadrà dipenderà da noi.

Siamo creature complesse. Speranza e angoscia possono coesistere dentro di noi, nei nostri gesti e nei nostri pensieri. Nel documentario del 2017 su James Baldwin dal titolo I Am Not Your Negro c'è una scena in cui Robert Kennedy predice, nel 1968, che entro quarant'anni ci sarebbe stato un presidente nero. Una profezia stupefacente - Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali esattamente quattro decenni dopo - ma Baldwin non la prende sul serio, perché il modo in cui Kennedy l'ha pronunciata non tiene conto del fatto che se la più pia delle illusioni potrà consolare i bianchi contrari al razzismo, non spazza certo via il dolore e l'indignazione dei neri che a causa del razzismo soffrono, qui e ora. Patrisse Cuilors, uno dei fondatori di Black Lives Matter, ha dichiarato che lo scopo del movimento «affonda le radici nel dolore e nella rabbia, ma si muove nella direzione di una visione e di un sogno». La visione di un futuro migliore non deve cancellare i crimini e le sofferenze del presente; la sua importanza nasce da lì.

Sono rimasta commossa, emozionata e meravigliata dalla forza, dalla mole, dalla profondità e dalla generosità della resistenza all'amministrazione Trump e al suo programma. Non mi sarei mai aspettata nulla di tanto coraggioso, intenso, a cui hanno preso parte governi statali, lavoratori della pubblica amministrazione - dai governatori e dai sindaci agli impiegati di molti dipartimenti federali -, piccole città degli stati rossi, nuove organizzazioni come i seimila gruppi della società civile che si sono aggregati dopo le elezioni nel movimento Indivisible; nuove e più forti aggregazioni a favore dei diritti degli immigrati, gruppi religiosi, la marcia delle donne del 21 gennaio 2017 che è stata una delle più imponenti manifestazioni nella storia degli Stati Uniti, e via dicendo.

Mi sono anche chiesta con preoccupazione se tutto ciò durerà. I principianti tendono a pensare che i risultati o sono immediati o non arriveranno mai, che se non ottieni subito quello che chiedi, hai fallito. Questo modo di pensare è spesso alla base della rinuncia a lottare proprio sul più bello, quando le vittorie sono a portata di mano; un errore pericoloso, che ho visto commettere da sempre. Per vedere a che punto del cambiamento ci troviamo dobbiamo fare un calcolo complesso, non della semplice aritmetica a breve termine di causa ed effetto.

[...]

Le idee sono contagiose, e altrettanto lo sono le emozioni, la speranza, il coraggio. Quando incarniamo quelle qualità, o i loro opposti, le trasmettiamo agli altri.

Le suffragette inglesi, che conquistarono l'accesso limitato al voto per le donne nel 1918 e quello pieno nel 1928, ebbero un ruolo nell'influenzare un indiano che, vent'anni dopo, guidò la liberazione del subcontinente asiatico dalla dominazione britannica, A sua volta, Gandhi ispirò un nero del Sud degli Stati Uniti, che ne studiò le idee e la loro applicazione. Dopo un pellegrinaggio nel 1959 in India per incontrare gli eredi di Gandhi, Martin Luther King scrisse: «Mentre davamo inizio al boicottaggio di Montgomery, Gandhi era la luce che guidava la nostra tattica di cambiamento nonviolento della società. Parlavamo spesso di lui». Quelle tattiche, ulteriormente sviluppate dal movimento per i diritti civili, sono state adottate in tutto il mondo: anche nella battaglia contro l'apartheid, a un capo del continente africano, e durante la Primavera araba, all'altro.

La partecipazione al movimento per i diritti civili dei primi anni Sessanta ha dato una svolta a molte vite. Tra esse, quella di John Lewis, uno dei primi Freedom Riders, giovane leader dei «lunch counter sit-in» e vittima di un brutale pestaggio durante la marcia di Selma, in cui gli hanno fracassato il cranio. Lewis è stato uno dei più accesi contestatori della legittimità di Trump ed è stato a capo di decine di altri membri democratici del Congresso nel boicottaggio del suo insediamento. Quando, una settimana dopo, è stato dato il via all'attacco contro i rifugiati e gli immigrati musulmani, Lewis era tra coloro che protestavano all'aeroporto di Atlanta.

Al momento dell'arresto, in Parlamento, quelle donne stavano lottando per il diritto di voto delle donne britanniche. Riuscirono a liberare se stesse, ma lo fecero usando strategia, coraggio e temerarietà. Possiamo tracciare una linea a ritroso fino al movimento antischiavista che ispirò il movimento delle suffragette americane, per arrivare a John Lewis, che protesta per i rifugiati e i musulmani all'aeroporto di Atlanta. Portiamo con noi le eroine e gli eroi che ci hanno preceduto e che hanno aperto le porte della possibilità e dell'immaginazione.

Ha scritto Michel Foucault: «Le persone sanno quello che fanno; spesso sanno perché lo fanno; quello che non sanno è cosa fa ciò che fanno».

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