Copertina
Autore Fëdor Sologub
Titolo Il demone meschino
EdizioneGarzanti, Milano, 2008 [1965], I grandi libri 676 , pag. XXIV+314, cop.fle., dim. 11x18x2 cm , Isbn 978-88-11-36676-8
OriginaleMelkij bes [1905]
PrefazioneMaria Candida Ghidini
TraduttorePietro Zveteremich
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe classici russi
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Pagina 5

La messa domenicale era finita e i fedeli s'incamminavano verso casa. Certuni s'erano fermati sul sagrato, sotto i tigli e gli aceri antichi, dietro le bianche mura di pietra, e conversavano. Erano vestiti tutti a festa, si guardavano contenti, sicchè pareva che in quella città si vivesse d'amore e d'accordo. E persino in allegria. Ed era invece soltanto un'impressione.

Il professore di ginnasio Peredònov, in piedi nella cerchia dei suoi amici, sogguardandoli cupamente con i suoi piccoli occhi infossati attraverso gli occhiali d'oro, diceva:

«L'ha promesso a Vàrja la principessa Volcànskaja in persona, quest'è certo. "Non appena lo sposerete," ha detto, "gli procurerò subito il posto d'ispettore."»

«Ma come farai a sposare Varvàra Dmìtrievna?» domandò Falàstov, un uomo dalla faccia rubiconda, «se è tua sorella? È venuta fuori una nuova legge, che ci si può sposare con le sorelle?»

Tutti scoppiarono a ridere. Il viso rosso di Peredònov, di solito indifferente e come addormentato, si fece feroce.

«Di terzo grado...» borbottò, guardando arrabbiato al di là degli interlocutori.

«Ma la principessa l'ha promesso proprio a te?» domandò Rutìlov, alto, pallido e vestito con eleganza.

«Non a me, ma a Vàrja,» rispose Peredònov.

«Già, e tu ci credi,» disse vivacemente Rutìlov. «Se ne dicono tante... ma perchè non ci sei andato tu dalla principessa?»

«Cerca di capire: ci siamo andati Vàrja ed io, ma non l'abbiamo trovata: s'è tardato solo di cinque minuti,» raccontò Peredònov, «ma lei era partita per la campagna. Ritornerà fra tre settimane. E io non potevo assolutamente aspettare, perchè dovevo venir qui per gli esami.»

«C'è qualcosa di sospetto,» disse Rutìlov e si mise a ridere, mostrando i denti cariati.

Peredònov si fece pensieroso. Gli altri si allontanarono. Con lui rimase solamente Rutìlov.

«Certo,» disse Peredònov, «io posso anche sposarmi con chi mi pare. Non ho mica soltanto Varvàra.»

«Si capisce, Ardaliòn Borìsyc,» confermò Rutìlov, «con te chiunque ci viene.»

Uscirono dal sagrato e attraversarono lentamente la piazza, non lastricata e piena di polvere. Peredònov disse:

«Che cosa direbbe la principessa, però? Se pianto Varvàra, quella si arrabbia.»

«E che t'importa della principessa!» ribattè Rutìlov. «Dagli effetti si conoscono gli affetti: che prima ti procuri il posto, a sposarti farai sempre in tempo. Perchè, come si può fare così per niente, senza veder prima nulla!»

«Quest'è vero,» acconsentì meditabondo Peredònov.

«E anche a Varvàra, di' così,» cominciò a persuaderlo Rutìlov: «"Prima il posto, perchè io non ci credo mica tanto." E, quando avrai avuto il posto, ti sposerai con chi ti pare. Dovresti piuttosto pigliare una delle mie sorelle: sono tre, scegli quella che vuoi. Sono ragazze istruite, intelligenti, non per vantarmi, altro che Varvàra! Quella non è degna di lustrar le loro scarpe.»

«Hmm,» muggì Peredònov.

«È vero. Che cos'è la tua Varvàra? Ecco, fiuta.»

Rutìlov si chinò, strappò uno stelo lanoso di giusquiamo, lo schiacciò insieme con le foglie e con i fiori color bianco sporco e, stropicciato il tutto fra le dita, lo portò al naso di Peredònov. Egli si accigliò per quell'odore pesante e sgradevole. Rutìlov intanto diceva :

«Questa roba si stropiccia e si butta via, così la tua Varvàra. Tra lei e le mie sorelle c'è una grande differenza, mio caro. Ragazze in gamba, vivaci, prendi quella che vuoi e non ti farà dormire. E giovani poi, la maggiore è tre volte più giovane della tua Varvàra.»

Secondo la sua abitudine, Rutìlov diceva tutto questo in modo rapido e allegro, sorridendo, ma, così alto e stretto di petto, sembrava malaticcio e fragile; e di sotto il suo cappello, nuovo e alla moda, spuntavano capelli radi e chiari, tagliati corti.

«Be', tre volte più giovane...» replicò fiaccamente Peredònov, togliendosi gli occhiali d'oro e accingendosi a pulirli.

«Quest'è certo!» esclamò Rutìlov. «Sta' attento: non dormire finchè sono vivo io, perchè un amor proprio ce l'hanno anche loro; quando poi le vorrai, sarà tardi. Intanto, però, ciascuna di loro verrebbe con te con grandissimo piacere.»

«Sì, qui tutte s'innamorano di me,» disse Peredònov con cupa millanteria.

«Ecco, vedi, sappi dunque cogliere il momento,» continuò a convincerlo Rutìlov.

«Soprattutto non vorrei che fosse un tipo secco,» disse Peredònov con l'angoscia nella voce. «Per me ce ne vuole una grassottella.»

«Be', se è per questo, non preoccuparti,» rispose con calore Rutìlov. «Già adesso sono ragazze piuttosto paffute, e, se non si sono ancora fatte le forme, è solo questione di tempo, del momento giusto. Appena si sposano, ingrassano; come la maggiore, la nostra Larìsa, che lo sai anche tu che panettone è diventata.»

«Io mi sposerei,» disse Peredònov, «ma ho paura che Vàrja pianti su un grosso scandalo.»

«Se hai paura dello scandalo, senti che cosa devi fare,» disse Rutìlov con un sorriso furbesco, «sposati oggi stesso o domani; ti presenti in casa con la tua sposa e tutto è sbrigato in fretta. Sul serio, vuoi che ti sistemi tutto io per domani sera? Quale vuoi?»

D'improvviso Peredònov scoppiò a ridere forte e a scatti.

«Allora, ti va? D'accordo?» domandò Rutìlov.

Altrettanto d'improvviso Peredònov cessò di ridere e disse cupamente a bassa voce, quasi bisbigliando:

«Mi denuncerà, quella canaglia.»

«Non denuncerà niente, non c'è niente da denunciare,» tentò di convincerlo Rutìlov.

«Oppure mi avvelenerà,» mormorò con timore Peredònov.

«Tu affidati a me in tutto,» lo esortò con calore Rutìlov, «io ti sistemerò tutto così bene che...»

«Se non hanno dote, io non mi sposo,» gridò con ira Peredònov.

Rutìlov non si stupì affatto di quel nuovo salto compiuto dai pensieri del suo tetro interlocutore. Con la stessa animazione di prima rispose:

«Matto, ma ti pare che siano senza dote? Allora, ti va? Bene, io scappo, sistemo tutto.»

«Bada però : non dir niente a nessuno! Capisci, non una parola!»

Strinse con forza la mano di Peredònov e si allontanò di corsa. Peredònov lo seguì in silenzio con lo sguardo. Gli erano venute in mente le signorine Rutìlov: allegre, ridanciane. Un pensiero impudico spremette dalle sue labbra il turpe simulacro d'un sorriso; esso apparve per un istante e poi si dileguò. Una vaga inquietudine insorse dentro di lui.

«Ma con la principessa come faccio?» pensava. «Con quelle non avrò soldi, nè protezioni, mentre con Varvàra mi nominano ispettore e poi mi fanno anche direttore.»

Guardò nuovamente Rutìlov che correva affaccendato e pensò con gioia maligna:

«Che corra pure.»

E questo pensiero gli procurò una pallida e fiacca soddisfazione. D'un tratto però si sentì annoiato perchè era solo; si calcò il cappello sulla fronte, aggrottò i chiari sopraccigli e si diresse in fretta verso casa per le vie deserte e non lastricate, invase dai fiori bianchi della briozoaria, da crescione ed erba calpestata nel fango.

Qualcuno lo chiamò, una voce sommessa e rapida:

«Ardaliòn Borìsyc, passate da noi.»

Peredònov alzò gli occhi cupi e guardò arrabbiato oltre lo steccato. In giardino, dietro il cancello, stava Natàlija Afanàsievna Versinà, una donna piccola e magra, scura di carnagione, tutta in nero e nera di sopraccigli e di capelli. Fumava una sigaretta in un bocchino scuro di legno di ciliegio e sorrideva leggermente, come se sapesse una cosa che non si dice ma che fa sorridere. E non fu tanto con le parole quanto con i gesti, rapidi e leggeri, che chiamò Peredònov nel suo giardino: aprì il cancello, si tirò in disparte, sorrise supplichevole e nello stesso tempo sicura di sè, e con le mani andava facendo segno: su, entra, che stai a fare lì?

E Peredònov entrò, ubbidendo a quei movimenti silenziosi e ammalianti. Ma si fermò subito sulla stradina sabbiosa, dove gli saltarono agli occhi frammenti di rami secchi, e guardò l'orologio.

«È ora di far colazione,» brontolò.

Benchè avesse quell'orologio da tempo, anche stavolta, come sempre in presenza di altre persone, contemplò con piacere il grande coperchio d'oro. Erano le dodici meno venti. Peredònov decise che poteva trattenersi un poco. Seguì cupo la Versinà lungo i vialetti, passando davanti ai cespugli spogli di ribes rosso e nero, di lamponi, di uva spina.

Il giardino, variopinto di frutti e degli ultimi fiori, tendeva al giallo. C'erano molti alberi, semplici e da frutto, e molti cespugli: bassi meli che si stendevano in larghezza, peri dalle foglie tonde, tigli, visciole con i racimoli lisci e lucenti, prugni, caprifoglio. Sui cespugli di sambuco rosseggiavano le bacche. Vicino allo steccato fioriva fitto il geranio della Siberia: minuti fiorellini d'un rosa pallido con venature purperee. Il cardo esibiva con violenta policromia le sue pungenti cime purpuree fra i cespugli. In disparte, sorgeva una casa di legno, piccola, grigiastra, con un solo appartamento e l'ampia sala da pranzo che dava sul giardino. La casa sembrava però graziosa e accogliente. Dietro, si scorgeva una parte dell'orto. Qui ondeggiavano le capsule secche dei papaveri e le grosse cuffiette biancogialle delle margherite; le teste gialle dei girasoli che appassivano erano chine e, fra la verzura utile, sovrastavano le ombrelle bianco-purpuree della cicuta vicino alla casetta per le cicogne; fiorivano ranuncoli d'un giallo chiaro e basse euforbie.

«Siete stato a messa?» domandò la Versinà.

«Sì,» rispose cupamente Peredònov.

«Anche Marta è tornata adesso,» riferì la Versinà. «Lei va spesso nella nostra chiesa. Io ci rido sopra: "Per chi andate nella nostra chiesa, Marta?" le dico. Lei diventa rossa e sta zitta. Ma andiamo a sederci un po' nel chiosco,» aggiunse in fretta e senz'alcun nesso con quanto aveva detto prima.

In mezzo al giardino, all'ombra di aceri ramosi, sorgeva un vecchio chiosco grigiastro: tre gradini, un impiantito coperto di muschio, basse pareti, sei panciuti pilastri torniti e un piccolo tetto esagonale.

Nel chiosco era seduta Marta, ancora vestita com'era andata alla messa. Aveva un abito chiaro guarnito di nastri, ma non le stava bene. Le maniche corte scoprivano i gomiti rossi e aguzzi e due mani grandi e forti. Marta però non era brutta. Le efelidi non la sciupavano. Passava persino per bella, specialmente fra i suoi, i polacchi, che erano abbastanza numerosi nella città.

Marta arrotolava le sigarette per la Versinà; desiderava con impazienza che Peredònov la guardasse e ne fosse ammirato. Questo desiderio si tradiva sulla sua faccia ingenua in un'espressione di inquieta affabilità. Non che Marta fosse innamorata di Peredònov, ma la Versinà voleva sistemarla; la sua famiglia era numerosa e lei voleva compiacere la Versinà presso la quale viveva da vari mesi, dal giorno dei funerali del vecchio marito della Versinà, compiacerla da parte sua e del fratello ginnasiale anche lui ospite nella casa.

La Versinà e Peredònov entrarono nel chiosco. Peredònov salutò cupamente Marta e si sedette. Scelse il posto in modo che un pilastro lo proteggesse dal vento e le correnti d'aria non gli soffiassero nelle orecchie. Poi guardò le scarpe gialle di Marta con i pompons rosa e pensò che gli stavano dando la caccia per fidanzarsi con lui. Sempre pensava questo quando vedeva che le signorine erano amabili nei suoi confronti. In Marta notava solamente i difetti: molte efelidi, le mani grandi e con la pelle ruvida. Sapeva che suo padre, un nobile polacco, aveva in affitto una piccola campagna a sei verste dalla città. Poco reddito, molti figli: Marta aveva terminato il proginnasio, il figlio studiava al ginnasio cittadino, gli altri erano ancora piccoli.

«Permettete che vi versi un po' di birra?» domandò con la sua affannata loquacità la Versinà.

Sul tavolo c'erano bicchieri, due bottiglie di birra, zucchero in una scatola di latta, un cucchiaino d'argentone bagnato di birra.

«Sì, bevo,» disse di scatto Peredònov.

La Versinà lanciò un'occhiata a Marta. Marta riempì un bicchiere, lo spinse verso Peredònov e, intanto che faceva questo, sulla sua faccia giocava uno strano sorriso, fra spaventato e gioioso. La Versinà disse rapida, come se spargesse le parole:

«Mettete dello zucchero nella birra.»

Marta avvicinò a Peredònov la scatola con lo zucchero. Ma Peredònov disse con stizza:

«No, con lo zucchero è una porcheria.»

«Che dite, è più saporita,» lasciò cadere la Versinà con voce rapida e monotona.

«Molto più saporita,» disse Marta.

«Una porcheria,» ripetè Peredònov e guardò con ira lo zucchero.

«Come volete,» disse la Versinà e, con la stessa voce, senza nessuna pausa e nessun passaggio, si mise a parlare d'altro: «Cerepnìn mi dà noia,» disse e scoppiò a ridere.

Scoppiò a ridere anche Marta. Peredònov le guardava con indifferenza: lui non si interessava mai degli affari degli altri, non amava l'umanità, non pensava ad essa se non in relazione ai propri vantaggi e piaceri. La Versinà sorrise soddisfatta di sè e disse:

«Crede che io lo sposerò.»

«È terribilmente sfacciato,» disse Marta, non perchè pensasse questo, ma perchè voleva compiacere e lusingare la Versinà.

«Ieri guardava dentro la finestra,» raccontò la Versinà. «È entrato di nascosto nel giardino mentre noi si cenava. Sotto la finestra c'era una tinozza, che avevamo messo per la pioggia, e s'era riempita tutta. Sopra ci stava un'asse, sicchè l'acqua non si vedeva. Lui è salito sulla tinozza e guardava dentro la finestra. Dentro era accesa la lampada, sicchè lui ci vedeva e noi non vedevamo lui. A un tratto, abbiamo sentito un rumore. Al primo momento ci siamo spaventate, siamo corse fuori. Era cascato dentro l'acqua. Però s'è tirato fuori prima che noi arrivassimo ed è scappato via tutto inzuppato; sul vialetto si vedeva la traccia bagnata. E poi l'abbiamo riconosciuto dalla schiena.»

Marta rideva con una risatina sottile e gioiosa, come ridono i bambini beneducati. La Versinà raccontava in modo sempre più veloce e monotono, come se lasciasse cadere della farina, del resto parlava sempre così, e poi ammutolì di colpo e sorrise con gli angoli della bocca; la sua faccia scura e asciutta si fece tutta una ruga e i denti, nerastri per il fumo, si schiusero leggermente. Peredònov rimase pensieroso e poi scoppiò a ridere d'improvviso. Non reagiva mai subito a ciò che poteva sembrar buffo: le sue percezioni erano lente e inerti.

La Versinà fumava una sigaretta dopo l'altra. Non poteva vivere senza il fumo del tabacco davanti al naso.

«Presto saremo vicini di casa,» annunciò Peredònov.

La Versinà lanciò una rapida occhiata in direzione di Marta, che arrossì leggermente, guardò Peredònov con pavida aspettativa e poi spostò subito gli occhi sul giardino.

«Traslocate?» domandò la Versinà. «Perchè poi?»

«Era troppo lontano dal ginnasio,» spiegò Peredònov.

La Versinà sorrise incredula. «È più probabile,» pensò, «che voglia stare più vicino a Marta.»

«Ma era già da un pezzo che abitavate là, da vari anni,» disse.

«E poi la padrona è una strega,» disse con ira Peredònov.

«Davvero?» domandò incredula la Versinà e sorrise storcendo la bocca.

Peredònov si rianimò un poco.

«Ha messo una tappezzeria nuova, però in un modo che fa schifo,» Si mise a raccontare. «I pezzi non combaciano. Sopra la porta della sala da pranzo, tutt'a un tratto, si vede un disegno completamente diverso; tutta la stanza è a fiori e foglie, mentre sulla porta è a strisce e garofani. E anche il colore è tutt'altro. Noi non ce n'eravamo accorti, ma è venuto Falàstov e s'è messo a ridere. E tutti ridono.»

«Ci mancherebbe altro, un'indecenza simile,» fu d'accordo la Versinà.

«Solo che noi non glielo diciamo che ce ne andiamo,» disse Peredònov e abbassò la voce. «Ci troviamo un alloggio e ce ne andiamo; a lei, però, non lo diciamo.»

«Naturale,» disse la Versinà.

«Se no, quella si mette a fare uno scandalo,» disse Peredònov, e nei suoi occhi si rispecchiò una pavida inquietudine. «E bisogna anche pagarle un mese, per quello schifo.»

E si mise a sghignazzare dalla gioia, perchè se ne andava senza pagare l'alloggio.

«Lei lo esigerà,» osservò la Versinà.

«Che esiga pure, io non le darò niente,» disse arrabbiato Peredònov. «Noi siamo andati a Pietroburgo e così in questo periodo non ci siamo serviti dell'alloggio.»

«Ma l'alloggio era sempre a vostra disposizione,» disse la Versinà.

«Come sarebbe a dire? Lei doveva fare dei restauri e noi siamo forse tenuti a pagarla per il periodo in cui non ci stiamo? E poi, soprattutto, è terribilmente insolente.»

«Be', la padrona è insolente, perchè la vostra... sorellina è una persona troppo impetuosa,» disse la Versinà con una leggera esitazione alla parola «sorellina».

Peredònov si accigliò e con gli occhi sonnolenti si mise a guardare in modo ebete davanti a sè. La Versinà cominciò a parlare d'altro. Peredònov tirò fuori di tasca una caramella, le tolse la carta e cominciò a masticarla. Guardò per caso Marta e pensò che lo invidiava e che avrebbe desiderato anche lei una caramella.

«Gliela do o no?» pensava. «Non la vale. Ma forse è meglio dargliela: che non pensino che mi dispiace per le caramelle. Ne ho tante, piene le tasche.»

E tirò fuori una manciata di caramelle.

«Ecco qua,» disse, e le porse prima alla Versinà e poi a Marta, «ottimi bombons, li ho pagati cari, trenta copeche la libbra.»

Loro ne presero una a testa. Lui disse :

«Prendetene di più. Ne ho tante, e poi sono buone; perchè io non mangio mai cose cattive.»

«Grazie, non ne voglio più,» disse la Versinà in modo rapido e inespressivo.

E le stesse identiche parole ripetè dopo di lei Marta, ma in maniera un po' indecisa. Peredònov guardò incredulo Marta e disse:

«Su, su, come non volerne! Ecco qua.»

E prese dalla manciata una caramella per sè, posando poi le altre davanti a Marta. Marta sorrise in silenzio e chinò la testa.

«Ignorante,» pensò Peredònov, «non sa neppure ringraziare come si deve.»

Con Marta non sapeva di che cosa parlare. Verso di lei non provava alcuna curiosità, come gli accadeva con tutti gli oggetti con cui non avesse stabilito rapporti per lui piacevoli o spiacevoli.

Versarono nel bicchiere di Peredònov la birra che restava. La Versinà gettò un'occhiata a Marta.

«Ne porterò subito,» disse Marta.

Indovinava sempre, senza bisogno di parole, che cosa volesse la Versinà.

«Mandate Vlàdja, è in giardino,» disse la Versinà.

«Vladislàv!» gridò Marta.

«Sono qui!» rispose un ragazzo, così da vicino e così presto da far pensare che origliasse.

«Porta della birra, due bottiglie,» disse Marta, «sono nel vestibolo, dentro la madia.»

Ben presto Vladislàv ritornò silenziosamente di corsa sino al chiosco, passò a Marta le bottiglie di birra attraverso la finestra e fece un inchino a Peredònov.

«Buon giorno,» disse cupamente Peredònov, «quante bottiglie di birra vi siete scolato oggi?»

Vladislàv si sforzò di sorridere e disse :

«Io non bevo birra.»

Era un ragazzo di quattordici anni con la faccia lentigginosa come quella di Marta, somigliante alla sorella, goffo, lento nei movimenti. Aveva indosso una blusa di tela grezza.

Marta si mise a bisbigliare con il fratello. Tutt'e due scoppiarono a ridere. Peredònov li guardava sospettosamente. Quando in sua presenza ridevano ed egli non sapeva di che, immaginava sempre che ridessero di lui. La Versinà si inquietò. Già avrebbe voluto richiamare Marta. Ma Peredònov stesso domandò con voce cattiva:

«Di che cosa ridete?»

Marta trasalì, si voltò verso di lui e non seppe che cosa dire. Vladislàv sorrise guardando Peredònov e diventò leggermente rosso.

«Non è gentile in presenza di ospiti,» rimproverò Peredònov. «È di me che ridete?» domandò poi.

Marta diventò rossa e Vladislàv si spaventò.

«Scusate,» disse Marta, «non di voi assolutamente. Ridevamo d'una cosa nostra.»

«Un segreto,» disse con ira Peredònov. «Non è gentile parlare di cose segrete in presenza di ospiti.»

«Non è che sia un segreto,» disse Marta, «Si rideva perchè Vlàdja è scalzo e non può entrare qui dentro, si vergogna.»

Peredònov si tranquillizzò, e cominciò a scherzare a spese di Vlàdja, e poi offrì una caramella anche a lui.

«Marta, portatemi il mio scialle nero,» disse la Versinà, «e intanto date un'occhiata in cucina, come va la torta.»

Marta uscì obbediente. Aveva capito che la Versinà voleva parlare con Peredònov ed era contenta, pigra com'era, che non le si facesse fretta.

«E tu allontanati,» disse la Versinà a Vlàdja, «non c'è ragione che tu stia qui intorno.»

Vlàdja corse via e si sentì la ghiaia frusciare sotto i suoi piedi. La Versinà gettò a Peredònov uno sguardo di sbieco, rapido e cauto, attraverso il fumo che continuava a espirare senza interruzione. Peredònov sedeva in silenzio, guardava dritto dinanzi a sè con uno sguardo appannato, e masticava una caramella. Gli faceva piacere che quei due se ne fossero andati, altrimenti, diamine!, si sarebbero messi dì nuovo a ridere. Benchè avesse la certezza che non avevano riso di lui, gli era rimasto tuttavia il dispetto, — così dopo aver toccato l'ortica il dolore persiste a lungo e aumenta, benchè l'ortica sia ormai lontana.

«Come mai non vi sposate?» Si mise a dire tutt'a un tratto la Versinà pronunciando le parole fitte e svelte. «Che cosa aspettate ancora, Ardaliòn Borìsyc! La vostra Varvàra non fa per voi, scusate se ve lo dico apertamente.»

Peredònov passò la mano fra i capelli castani un po' arruffati e con tetra solennità proferì :

«Nemmeno qui ce n'è una che fa per me.»

«Non ditelo,» replicò la Versinà e sorrise storto. «Qui ce ne sono molte meglio di lei e qualunque vi sposerebbe.»

Scosse la cenere della sigaretta con un gesto energico, come a conferma di ciò che diceva.

«Non ho bisogno d'una qualunque,» rispose Peredònov.

«Non parlavo d'una qualunque,» disse velocemente la Versinà. «Voi non avete bisogno di correre dietro a una dote, purchè sia una brava ragazza. Già voi guadagnate abbastanza, grazie a Dio.»

«No,» replicò Peredònov, «per me è più conveniente sposare Varvàra. La principessa le ha promesso la sua protezione. Mi farà avere un buon posto,» finì di dire con tetra animazione.

La Versinà sorrideva leggermente. Tutta la sua faccina rugosa e scura, come affumicata dal tabacco, esprimeva un'indulgente sfiducia. Poi domandò:

«Ma è a voi che la principessa ha detto questo?»

E mise l'accento sul «voi».

«Non a me, ma a Varvàra sì,» ammise Peredònov, «ma non importa.»

«Voi fate troppo affidamento sulle parole della vostra sorellina,» disse malignamente la Versinà. «Ma ditemi, è più vecchia di voi di molto? D'una quindicina d'anni? O di più? È verso la cinquantina, vero?»

«Ma no, che dite,» rispose seccato Peredònov, «non ne ha ancora trenta.»

La Versinà scoppiò a ridere.

«Ma fatemi il piacere,» disse con mal celata derisione nella voce, «a vederla sembra molto più vecchia di voi. Certo, la cosa non mi riguarda, ma dispiace che un così bravo giovane debba vivere non come meriterebbe per i suoi meriti e le sue qualità spirituali.»

Peredònov si guardò, soddisfatto di sè. Ma sulla sua faccia rossa non c'era alcun sorriso e sembrava che fosse offeso perchè non tutti lo capivano come la Versinà. Intanto lei continuava:

«Anche senza protezioni voi andrete lontano. Come volete che i superiori non vi apprezzino! Che bisogno avete di aggrapparvi a Varvàra? E non dovete nemmeno prender in moglie una delle signorine Rutìlov: sono leggere, mentre per voi ci vuole una moglie seria. Dovreste prendere la mia Marta, ecco.»

Peredònov guardò l'orologio.

«È ora che vada a casa,» disse e si alzò per congedarsi.

La Verinà era persuasa che lui se ne andasse, perchè l'aveva punto sul vivo e che adesso non volesse parlare di Marta solamente perchè era ancora indeciso.

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