Copertina
Autore Susan Sontag
Titolo In America
EdizioneMondadori, Milano, 2000, Scrittori italiani e stranieri , pag. 400, dim. 145x223x35 mm , Isbn 978-88-04-47320-6
OriginaleIn America [2000]
TraduttorePaolo Dilonardo
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa statunitense , biografie
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Pagina 9

Zero


Esitante, anzi, tremante, mi ero intrufolata in una festa nella sala da pranzo riservata di un albergo. L'inverno si faceva sentire anche lì dentro, ma tra le donne in lungo e gli uomini in finanziera che si mescolavano nella vasta sala scura nessuno sembrava badare al gelo, così la stufa di maiolica nell'angolo era tutta per me. Abbracciai quel grosso aggeggio, alto sino al soffitto - avrei preferito il fuoco ruggente di un caminetto, ma mi trovavo lì, in un paese dove le stanze sono riscaldate da stufe - e presi a reimpastarmi un po' di tepore sulle guance e nei palmi. Poi, più calda, o più calma, mi avventurai lungo il lato della sala dove mi ero fermata. Da una finestra attraverso la spessa tela di neve che fioccava silenziosa, illuminata da un anello di luna, posai lo sguardo sulla fila di slitte e carrozze, sui cocchieri avvolti in ruvide coperte che sonnecchiavano ai loro posti, sugli animali a testa bassa, irrigiditi e chiazzati di neve. Sentii le campane di una chiesa vicina che battevano le dieci. Alcuni degli invitati si erano raggruppati intorno a una grande credenza di quercia vicino alla finestra. Voltandomi per metà, mi sintonizzai sulla conversazione, che si svolgeva perlopiù in una lingua a me sconosciuta (mi trovavo in un paese che avevo visitato una sola volta, tredici anni prima), ma in qualche modo, non mi domandai come, riuscivo a intendere il senso delle loro parole. Frasi infervorate che riguardavano una donna e un uomo, brandelli di informazioni che prontamente arricchii presumendo che i due fossero, perché no, sposati.

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Pagina 30

[...] Lei, Maryna, non aveva un'aria soddisfatta. Ho massacrato il magnifico inglese di Shakespeare, la sentii dire al critico teatrale, seduto alla sua sinistra. Nient'affatto, esclamò lui, lo ha pronunciato in modo splendido. Non è vero, rispose lei seccamente. E, in realtà, non era vero. Sperai che avrebbero fatto di meglio nel caso avessero dovuto parlare più a lungo in inglese, come sospettavo sarebbe accaduto, se avevo capito qualcosa della loro discussione. Senza dubbio avrebbero continuato a parlare inglese con un accento, come fa tanta gente nel mio paese, come facevano i miei bisnonni (materni) e i miei nonni (paterni), anche se naturalmente non i loro figli. Andrebbe infatti detto, e perché non ora, che tutti e quattro i miei nonni nacquero in quel paese (quindi, in un paese che aveva cessato di esistere un'ottantina d'anni prima della loro nascita), anzi nacquero proprio intorno a quell'anno alla volta del quale mi ero messa in viaggio con la mente per ritrovarmi in quella sala con le sue antiquate conversazioni, anche se coloro che generarono la coppia che mi generò erano completamente diversi dalle persone in quella sala: gente di paese povera e non sofisticata che per mestiere faceva il venditore ambulante, il locandiere, il taglialegna, lo studioso del Talmud. Supponendo che nessuno lì fosse ebreo, sperai, e questa era un'idea nuova, di non sentire nessuno prorompere in uno scatto antisemita che mi avrebbe obbligata a lasciare la stanza, ma non accadde, e anzi, in qualche modo intuii che dovevano essere, se mai, filosemiti. Che quello fosse il paese da cui i miei antenati avevano deciso di partire imbarcandosi su affollati ponti di terza classe, a stento mi lega a quella gente, ma può forse voler dire che il nome di quel paese ha per me una certa risonanza, e può avermi attirato in una stanza situata li piuttosto che altrove; dopo aver cercato di evocare una sala da pranzo di un albergo di Sarajevo della stessa epoca, e non esserci riuscita, dovevo accettare di essere dov'ero atterrata. Ma il passato è il paese più grande di tutti, e c'è una ragione per cui si cede al desiderio di ambientare una storia nel passato: quasi tutto quel che è buono sembra appartenere al passato, forse questa è un'illusione, ma provo nostalgia per ogni epoca che precede la mia nascita; e si è più liberi dalle inibizioni moderne, forse perché non si ha alcuna responsabilità per il passato, a volte non provo che vergogna per l'epoca in cui vivo. E questo passato è anche presente, perché c'ero io nella sala da pranzo riservata dell'albergo, a gettare semi profetici. Quello non era il mio posto, ero una presenza estranea, dovevo farmi molto vicina per ascoltare, e non avrei capito ogni cosa, ma anche quel che fraintendevo sarebbe stato una sorta di verità, se non altro sul tempo in cui vivo, più che su quello in cui la loro storia aveva luogo. Dobbiamo sempre chiedere di più a noi stessi, sentii dire da Maryna severamente. Sempre. O forse parlo solo per me stessa? Ah, ecco una nota accattivante. Io ho un debole per gli sforzi, per la serietà.

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Pagina 47

Da una lettera a nessuno, vale a dire, a se stessa:

Non è perché mio fratello, il mio amato fratello, sta morendo e io non avrò più nessuno da venerare... non è perché mia madre, la nostra amata madre, mi dà sui nervi, oh, come vorrei poterle tappare la bocca... non è perché neppure io sono una buona madre (come potrei? Sono un'attrice)... non è perché mio marito, che non è il padre di mio figlio, è così comprensivo e farà qualunque cosa voglio... non è perché tutti mi applaudono, perché non riescono a immaginarmi più vivace o diversa da quella che sono... non è perché ormai ho trentacinque anni e vivo in un vecchio paese, e io non voglio essere vecchia (non intendo diventare mia madre)... non è perché alcuni critici si mostrano condiscendenti, mi paragonano alle attrici più giovani adesso, anche se le ovazioni alla fine di ogni recita non sono meno fragorose (qual è allora il significato degli applausi?)... non è perché sono stata malata (i miei nervi) e ho dovuto smettere di recitare per tre mesi, soltanto tre mesi (non sto bene quando non lavoro)... non è perché credo al paradiso... oh, e non è perché la polizia continua a spiarmi e a stendere rapporti su di me, nonostante tutte quelle dichiarazioni imprudenti e quelle speranze siano ormai così lontane (mio Dio, sono passati tredici anni dall'Insurrezione)... non è per nessuna di queste ragioni che ho deciso di fare una cosa che nessuno vuole che io faccia, che tutti considerano una follia, e che io voglio che alcuni di loro facciano insieme a me, anche se loro non vogliono; neppure Bogdan, che vuole sempre quello che voglio io (come ha promesso, quando ci siamo sposati), vuole farla veramente. Ma deve.

«Forse ogni patria è una maledizione. Il mondo, sai, è molto grande. Voglio dire» continuò, «il mondo è fatto di molte parti. Il mondo, come la nostra povera Polonia, può sempre essere diviso. E suddiviso. E ci si ritrova a occupare uno spazio sempre più piccolo. Anche se ci si sente a proprio agio in quello spazio...»

«Su quel palcoscenico» disse incoraggiante il suo amico.

«Se vuoi» rispose lei freddamente. «Quel palcoscenico.»

Poi si accigliò. «Non mi starai certo ricordando che tutto il mondo è teatro?»

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Pagina 66

Due


Anche Dio è un attore.

Apparso in innumerevoli stagioni teatrali, sfoggiando una varietà di costumi antiquati, per dar vita a molte tragedie e a qualche commedia; multiforme - anche se di solito in ruoli maschili - e sempre statuario, imperioso, di recente (siamo nella seconda metà del diciannovesimo secolo) ha avuto anche Lui qualche recensione negativa, ma non ancora abbastanza da cancellare lo spettacolo. Il Suo nome amato e familiare continua a far schiumare le labbra di tutti. La Sua partecipazione conferisce tuttora un'importanza incontestata a qualsiasi dramma.

Vento che si leva. Costellazioni che pulsano. Terra che gira. Gente che si riproduce. (Presto quelli che camminano sulla terra saranno più di quelli che riposano sottoterra!) Storia che si ingarbuglia. Gente scura che si lamenta. Gente pallida (i favoriti di Dio) che sogna conquiste, fughe. Delta ed estuari di gente. Lui la sposta verso ovest, dove c'è uno spazio più vasto che attende di essere riempito. Sono le undici del mattino, ora europea. Senza le vesti regali né i panni da contadino che spesso ostenta, oggi Lui è Dio il Capufficio. Per costume ha un tre pezzi di lana pettinata, camicia bianca inamidata, copripolsini, papillon, e - anche Dio vuole essere moderno - mastica tabacco. I toni dominanti della scena sono il giallo e il marrone: il legno biondo della Sua sedia girevole e dell'immensa scrivania; le lisce rifiniture di ottone della scrivania, con i cassetti zeppi di carte; l'ottone logoro, leggermente ammaccato, della lampada a collo d'oca e della vicina sputacchiera. I gomiti appoggiati sulla scrivania, su cui sono impilati dei registri, Lui ha consultato rapporti demografici, bollettini economici, rilevamenti topografici. Adesso ha annotato qualcosa in un libro mastro.

Storie che si fondono. Ostacoli che vacillano. Famiglie che si separano. Notizie che arrivano. Dio l'Agente di Viaggio ha inviato dappertutto messaggeri per annunciare che un Nuovo Mondo ci chiama, un mondo in cui i poveri possono diventare ricchi e tutti sono uguali di fronte alla legge, in cui le strade sono lastricate d'oro (questo riservato ai contadini analfabeti) e la terra viene regalata (come sopra) o venduta a poco prezzo (questo per chi sa leggere). I villaggi cominciano a svuotarsi, i primi a partire sono i più coraggiosi o i più disperati. Orde di gente senza terra si riversano in direzione del mare (Bremerhaven, Amburgo, Anversa, Le Havre, Southampton, Liverpool), rassegnate a lasciarsi ammassare sul fondo di navi puzzolenti. Dalle dense città sparse di luci che giacciono sotto la volta notturna, l'incremento delle partenze è meno evidente - ma costante. Dio esamina i piani di navigazione. Niente più orrori da tratta degli schiavi, Lui rende grazie a Se Stesso: solo quelli che vogliono partire. E poi - si ringrazia ancora - attraversare l'Atlantico è diventato sempre più sicuro, anche se cinque delle Sue fedeli suore francescane sono morte l'anno scorso quando il Deutschland è affondato al largo dell'insidiosa costa del Kent, poco dopo esser partito da Bremerhaven per l'America del Nord. E più veloce: le nuove navi a vapore impiegano soltanto otto giorni. Naturalmente, Dio attende con impazienza il giorno in cui la gente potrà essere mossa attraverso gli oceani in molto meno tempo. E alla fine, ancor più velocemente, attraverso il cielo. Come a tutte le persone pallide, a Dio piace la velocità. Tutto sta accelerando adesso, tutto diventa più veloce. Forse è una buona cosa, visto che c'è molta più gente.

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Pagina 108

Era sicuro che presto sarebbe riuscito a capirli. Ma gli sembrava improbabile che loro potessero capire lui. Come aveva scoperto nei pochi giorni trascorsi a Liverpool, quando lui e Julian avevano praticato il loro inglese con degli sconosciuti nei pub e nei ristoranti - e come gli aveva confermato la prima conversazione a tavola sulla nave - gli stranieri non avevano la benché minima idea della Polonia, della sua storia, delle sue sofferenze. Ryszard aveva creduto che la Polonia fosse nota in tutto il mondo civilizzato per il suo travaglio quasi secolare. In realtà, lui sarebbe potuto venire dalla luna.

A ogni pasto, gli americani continuavano ad assicurargli che il loro paese era il migliore della terra, e la prova era che l'America la conoscevano tutti e tutti volevano andarci. Anche Ryszard veniva da un paese che si considerava eletto a un destino unico. Ma essere eletti al martirio produce una forma d'introversione diversa dall'egocentrismo di quegli americani, alimentato dalla convinzione di godere di una fortuna unica.

«In America, e il punto è tutto qui se riesce a capirmi, tutti sono liberi» disse uno dei suoi commensali, un uomo burbero con un faccione lentigginoso che, dopo averlo ignorato fino alla terza sera di viaggio, gli tese improvvisamente un biglietto da visita, intonando: «Augustus S. Hatfield. Imprenditore dell'Ohio».

«Cleveland» disse Ryszard, mettendosi in tasca il biglietto. «Costruzioni navali.»

«Giusto. Non ero sicuro che avesse sentito parlare di Cleveland, perciò ho detto Ohio, perché l'Ohio lo conoscono tutti.»

«Nel mio paese» disse Ryszard «non siamo liberi.»

«Davvero? E che paese è?»

«La Polonia.»

«Oh, ho sentito dire che è un paese molto arretrato. Ma lo sono tutti quelli in cui ho viaggiato, eccetto forse l'Inghilterra.»

«La tragedia della Polonia non è l'arretratezza, Mr. Hatfield. Siamo un popolo sottomesso. Come gli irlandesi.»

«Si, è poverissima anche l'Irlanda. Ha visto tutti quei sudici disgraziati che si sono imbarcati quando la nave ha fatto scalo a Cork? So che la White Star deve prenderli a bordo, e quanti più ce ne stanno là sotto. Ed è un buon affare, perché non devono guadagnarci troppo con noi, con tutto questo cibo di lusso e tutta questa gente che ci serve come principi. Ma, mio Dio, quando penso che stanno tutti, se le signore presenti verranno scusare l'allusione, ammassati uno sull'altro su quelle misere cuccette, senza nessun senso della decenza, ma la conoscete quella gente, a loro quello piace, quello e bere e rubare e... »

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Pagina 123

Mare che si restringeva, isole, rimorchiatore, poi l'isola, Manhattan, vento afoso, e gabbiani, cormorani, falchi che ruotavano e volteggiavano in cielo mentre il Germanic cominciava a risalire il fiume e, tra tremiti e sobbalzi, raggiungeva finalmente il molo della White Star sulla Ventitreesima strada. A destra, l'implacabile contra naturam di una citta moderna, una città impegnata a trasformare qualsiasi rapporto in un rapporto di compravendita. Una città prospera, una città verso cui la gente voleva emigrare. A ogni costo, a prezzo di qualunque umiliazione.

Quando gli ufficiali di dogana, saliti a bordo per porre le domande di rito al passeggeri di prima classe e controllarne i bagagli, ebbero terminato dando loro il benvenuto in America, i passeggeri di terza classe venivano ancora trasferiti in branco dal Germanic alla chiatta che avrebbe ridisceso il fiume per portarli a Castle Clinton, l'antico forte all'estremità di Manhattan dove sarebbero stati interrogati ed esaminati. Ryszard e Julian scesero nella strada torrida e noleggiarono una carrozza per farsi condurre in albergo.

Le dimensioni dell'albergo stupirono perfino Julian. Da Liverpool aveva prenotato per telegrafo una camera doppia al Central Hotel - solo per il nome. «Sembra una banca» disse Ryszard.

È normale questo clima, chiese poi all'impiegato dopo aver firmato insieme a Julian il registro (in un paese libero, come gli fece notare Julian, non c'è bisogno di mostrare documenti d'identità) e dopo avergli chiesto dove comprare i francobolli per spedire la sua pila di lettere («Dagli le lettere» gli sussurrò Julian. «Lo farà lui e ci metterà in conto l'affrancatura»).

«Si riferisce all'ondata di caldo?» chiese l'impiegato. «Oh, potrebbe fare ancora più caldo. Ma non a luglio. No, signore. Questo è niente. Dovrebbe tornare il mese prossimo!»

Seguendo i due facchini neri che si erano precipitati a prendere il loro baule e le loro valigie, attraversarono l'enorme hall, con i suoi diversi effluvi di ottoni lustrati e legno lucidato e tabacco da masticare, poi diedero un'occhiata alla cavernosa sala da pranzo dove i clienti dell'albergo scendevano quattro volte al giorno per consumare i loro pasti (Ryszard notò che, evidentemente, il caldo autorizzava gli uomini a pranzare senza giacca, e Julian gli spiegò che, come sulla nave, negli alberghi americani i pasti non venivano addebitati a parte, il costo era incluso nel prezzo della camera), raggiunsero la loro immensa stanza dotata di un elegante ma, a sentire la pelle, inutile ventilatore sul soffitto, e decisero di uscire immediatamente a fare una passeggiata. Fu quando tornarono in strada che Ryszard, impegnato a osservare, giudicare, trarre conclusioni fin dal momento in cui, due ore prima, erano sbarcati, ebbe un'epifania. Forse fu il cartello che vide uscendo dall'albergo. Broadway. Erano su Broadway! La sua agile mente rallentò e Ryszard non riuscì a pensare altro che: sono qui, sono davvero qui.

Sulla nave, quel crudele microcosmo, non era in nessun luogo; perciò poteva sentirsi dovunque, sovrano della coscienza. A grandi passi percorri da un capo all'altro il tuo mondo, che si muove su una superficie monotona e indistinta. È piccolo, il mondo. Potresti mettertelo in tasca. È questo il bello di viaggiare su una nave.

Ma ora si trovava da qualche parte. Non si era sentito folgorato quando i suoi viaggi lo avevano portato a San Pietroburgo o a Vienna (anche se la sua mente era da tempo piena di immagini di quelle città, per lui mitiche), non si era sentito stordito la prima volta dalla pura oggettività del luogo in cui si trovava, e dal fatto che fosse come se lo era immaginato. Fu New York a produrre quell'incantesimo, o forse l'America, l'Hamerica, resa troppo mitica da un profluvio di sogni, speranze e paure che nessuna realtà poteva sostenere - perché tutti in Europa hanno delle idee su questo paese, sono affascinati dall'America, la credono idilliaca o barbarica e, comunque la immaginino, la considerano sempre una specie di soluzione. E nel frattempo, nel profondo, tu non sei del tutto convinto che esista veramente. E invece esiste!

Essere così colpiti dal fatto che qualcosa esiste realmente significa che quella cosa sembra piuttosto irreale. Reale è ciò che non ti meraviglia, ciò che non ti turba: è semplicemente la terraferma che circonda la piccola pozzanghera della tua coscienza. Che sia reale, reale!

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Pagina 182

«Non ti senti mai avvilita?»

«Lo ero in Polonia. E adesso non so neppure perché. Ma qui? No, mai. Avrai senza dubbio notato come sono rifiorita da quando mi sono spogliata di quasi tutto quello che mi rendeva particolare ai miei occhi e a quelli degli altri. Mi fa - ora ti sembrerò davvero crudele - mi fa ridere.»

Mancanze: velluti, cimeli, oscurità, corridoi, il proprio passato. Come poteva spiegarlo a Ryszard? Lì ogni storia emergeva isolata, senza radici in una lunga genealogia di obblighi e preoccupazioni. L'improvviso abbassamento del volume dei significati in quella nuova vita agiva su di lei come una rarefazione d'ossigeno. Le dava le vertigini. Eppure era tutto così familiare. I gruppi sottoposti a difficili routine e a un impetuoso comando erano il suo elemento naturale: lo spirito di gruppo è forte tra la gente di teatro. E quella vita in cui da poco aveva messo radici non era poi così diversa dalla vita degli attori di giro. Se alcuni dei più semplici lavori agricoli continuavano ancora a sfuggire loro, non c'era da stupirsi, si erano preparati in fretta, imparando la parte di contadini all'ultimo minuto, dietro le quinte. Per un po' avrebbero "improvvisato", come dicono gli attori, finché non avessero padroneggiato i loro ruoli.

La sera, ignorando coraggiosamente gli strappi muscolari, i mal di schiena, gli stinchi scorticati, le dolorose bruciature, si riunivano in soggiorno per studiare gli opuscoli che si erano procurati a Washington e i manuali d'agricoltura portati dalla Polonia, per discutere di fertilizzanti e recinzioni, dell'opportunità di piantare un aranceto, della riparazione del pollaio, o dell'assunzione di qualche bracciante indiano o cinese che li aiutasse. Camminando avanti e indietro, Bogdan illustrava i suoi progetti per le nuove case. Parlava con frasi rapide e spezzate, la mano stretta attorno a un bicchiere di tè quasi vuoto in cui tintinnava un cucchiaino. Una mano che Maryna riconosceva a stento, con l'unghia del pollice annerita e una spessa vena che si arrampicava dalla nocca abbronzata fino al polso; un Bogdan a lei sconosciuto, non più completamente preso da lei, ma che faceva tutto questo per lei. Che sprofondava nel collettivo - per lei.

Tutti erano invitati a partecipare a quelle discussioni. In realtà, le donne - con l'eccezione di Maryna - parlavano appena, come se dessero per scontato che non avevano niente da dire, o che sarebbero state criticate, o che prendere delle decisioni era compito degli uomini. La vita della fattoria preparava le donne a nuove docilità, imponeva a tutti nuove forme di incompetenza. Sapevano come i vicini li consideravano, nobili viziati e privi di senso pratico, ed esitavano a chiedere aiuto. Herr Kohler aveva mandato uno dei suoi giovani braccianti messicani a spiegare loro come prendersi cura della vigna, il cui ciclo stava per ricominciare. Gli uomini lo osservarono scuri in volto mentre mostrava come potare i germogli più grossi, come applicare il fertilizzante e rincalzare la terra alla base delle viti. Kohler, che vendeva loro il latte, la panna e il burro, fu tanto gentile da dire a Pancho di insegnare loro a mungere; ma nessuna delle donne aveva mani abbastanza forti o padroneggiava la tecnica correttamente: avevano l'impressione di torturare le vacche. Nel giro di qualche giorno cominciarono a comprare il latte in una fattoria vicina.

Non faceva parte della natura di Maryna essere indulgente con se stessa, mai, né tollerante con gli altri. Ma sotto quel sole implacabile sembrava meschino irritarsi perché Barbara e Danuta non avevano voglia di mungere.

Aveva l'impressione che la stanchezza e il ronzio delle preoccupazioni collettive non facessero che accrescere in lei una sensazione di immenso benessere fisico. Altre mancanze: le parole, la messa in scena di se stessa, le energie erotiche. Mancanze terapeutiche. Presenze corporee. Il fetore pungente del letame fresco e il sudore. Gli affanni ai fornelli, sullo sgabello per la mungitura, alla guida di una carriola, e le armonie della fatica collettiva esalate alla fine della giornata, in silenzio, intorno alla tavola della sala da pranzo. Ogni sonorità ridotta a questo: il suono del respiro, soltanto del respiro, il loro, il proprio. Maryna non si sentiva mai cosi unita agli altri come in quei momenti, quando aveva l'impressione di essere racchiusa in un cubo di sonoro respiro; mai come allora si sentiva così ottimista su quella vita che si sforzavano di costruire. Facile dire: non durerà. Ogni matrimonio, ogni comunità è un'utopia fallita. L'utopia non è una sorta di luogo ma una sorta di tempo, quei momenti fin troppo brevi in cui non si desidera essere da nessun'altra parte. C'è un istinto, un istinto antichissimo, che ci spinge a respirare all'unisono? L'utopia ultima, quella. Alla base del desiderio di unione sessuale c'è il desiderio di respirare più profondamente, sempre più profondamente, più velocemente... ma sempre insieme.

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Pagina 296

«Voglio raccontarle perché ho detto quelle cose, sul matrimonio e tutto il resto, è una bella storia all'inizio anche se non penso che si possa tirarne fuori un buon dramma, non con il modo in cui è finita.»

«Non cerco un altro personaggio» disse gentilmente Maryna. «Ma sarò felice dì ascoltare la sua storia. Mi piacciono le storie.»

E Minnie cominciò.

«Fu venticinque anni fa, no di più... io vivevo in California, a Cloudy Mountain, non so se ne ha mai sentito parlare. E c'era questo tipo che mi veniva dietro, era lo sceriffo, ed era anche un grosso biscazziere, ma, a modo suo, non troppo cattivo, io lo avevo capito, e quando mi disse che mi amava, sapevo che faceva sul serio, non stava cercando soltanto di mettermi le mani addosso. Continuava a dire: sposami, Fanciulla, sposami, così mi chiamava, Fanciulla, e quando io gli ricordavo che aveva già una moglie a New Orleans, lui diceva che non importava, perché ero io la moglie che voleva. A vedermi adesso forse non ci crederà, ma non ero poi tanto brutta, e avevo il cuore puro, ero ancora una ragazzina, anche se gestivo quel saloon dove venivano tutti i minatori, il Polka, chiamo Polka tutti i miei saloon, e la maggior parte di loro mi trattava con rispetto come una sorella, anche se certi esageravano un po' e io non potevo farci niente, insomma erano buoni clienti. Ma quella parte del lavoro non mi piaceva, mi faceva sentire triste, anche se non lo davo a vedere, cantavo e ridevo sempre, e mi domandavo se c'era un modo di cambiare vita, ma non c'era. E poi pensai, lo sceriffo non è cattivo, lui almeno mi ama, e ci stavo facendo un pensierino, anche se non glielo feci capire.

«Poi incontrai quest'altro tipo per cui mi presi una vera cotta, era così romantico, mi diceva che avevo una faccia d'angelo, io che gestivo un saloon. Ma la faccia d'angelo ce l'aveva lui, non ho mai visto un uomo così bello. Aveva una faccia ossuta ma liscia, che ti faceva venire la voglia di toccargli le guance, e la fronte alta, e a volte i capelli gli ricadevano sugli occhi, grandi occhi scuri con delle belle ciglia, che si arricciavano quando sorrideva, era un sorriso lento, veramente lento, come se ti stesse baciando col suo sorriso. Solo a guardarlo, mi colpiva dritto al cuore e mi faceva tremare le gambe. Il guaio era che era un bandito, viveva così, immagino che gli era successo così, per caso, e poi si era fatto la fama di bandito, ricercato per omicidio, e così aveva pensato che doveva continuare. Quando faceva il bandito, si travestiva da messicano e si faceva chiamare Ramerrez, perché lo sanno tutti che un sacco di messicani fanno i banditi. Ma quando veniva di nascosto a Cloudy per farmi la corte si agghindava come uno di quei pezzi grossi di Sacramento e usava il suo vero nome, Dick Johnson. Poi un giorno mi disse che era lui il Ramerrez che tutti ricercavano, ma che da quando mi aveva incontrata non voleva essere più Ramerrez, e mi promise di redimersi, e lo sapevo che era sincero. E anche io gli parlavo e gli raccontavo tutti i miei segreti, e lui mi stava a sentire, ed era una cosa bellissima, non avevo mai avuto qualcuno con cui parlare, qualcuno con cui poter spalancare il cuore. Avevo quasi dimenticato chi ero! E nel frattempo lo sceriffo cercava Ramerrez dappertutto e nessuno sapeva che Ramerrez era in realtà Dick. Ma allo sceriffo, a Jack, non gli sfuggiva niente quando si trattava di me. Aveva capito che ero un po' interessata al tipo di Sacramento senza sapere che fosse Ramerrez. Interessata! Ero pazza di lui! E quale donna, se è una vera donna, non ama un bandito più di uno sceriffo, lei lo sa, è una donna, ed è un'attrice, perciò può essere tutte le donne, angeli e peccatrici...

«E indovini un po' con chi mi sono maritata? È quello laggiù, vicino alla cassaforte, con la sei colpi nella cintola, abbiamo aperto questo bar insieme. Lo sceriffo. Ma ha smesso di fare lo sceriffo quando ha capito che si poteva guadagnare di più con i saloon e, dieci anni dopo averlo sposato, quando hanno scoperto il Giacimento Comstock, siamo venuti qui, perché non bisogna mica essere aquile per capire che si poteva fare un sacco di soldi con i minatori assetati che finiscono il turno nelle miniere d'argento. Ma perché mi sono accontentata di lui, è questo quel che mi chiedo, quando ero così innamorata di Dick e avevo trovato il coraggio di scappare con lui, con la testa piena di sogni. Eravamo stati costretti a lasciare la California, che io amavo tanto, perché là lo ricercavano dappertutto per omicidio, l'avrebbero impiccato se lo prendevano, e venimmo nel Nevada, che allora non era uno stato e nemmeno un territorio, finché nessuno seppe quel che c'era sotto questa montagna, tutta la zona non era che una contea dello Utah, e cominciammo a girovagare qua e là senza soldi, e sempre più affamati. Poi Dick ricominciò a essere Ramerrez e io ebbi paura, pensando alla vita che mi aspettava, sempre a nascondersi, a scappare, a vivere nel terrore, e cosi lo lasciai e me ne tornai in California, e Jack, lui mi perdonò, e io capii che lui mi amava veramente, perché sapeva che io non lo avrei mai amato, non come amavo Dick, ma lui mi amava lo stesso, e io dovetti ricredermi su di lui, ma questo non vuol dire che dovevo sposarlo. E invece lo sposai. Prima facemmo una specie di matrimonio lì a Cloudy davanti a un giudice di pace, uno vero, anche se la moglie di Jack era ancora viva a New Orleans, ma io avevo pensato che dovevo permettergli di essere serio, e alla fine lei è morta, e adesso sono veramente la signora Rance, lo sono da molto tempo. E sono finita di nuovo in Nevada, da quindici anni ormai. E a volte resto sveglia tutta la notte stesa accanto a Jack, nella città alta le capre corrono sui tetti di stagno, come quello di casa nostra, e i loro zoccoli mi tengono sveglia, e non posso fare a meno di pensare che dovevo restare con Dick, anche se era stato costretto a ricominciare la vita del bandito. Forse non ho pensato troppo a me. O forse non ho avuto coraggio. Dick lo diceva sempre, c'era questa poesia che gli piaceva recitare:

    La stella che vedi non è mai perduta
    La vita che sogni può esser vissuta.

Me lo ripeto spesso ora.» Prese la mano di Maryna e la strinse con forza. «Ma non è vero.»

«Maryna?» disse Ryszard.

Assicurandogli con uno sguardo che non era una situazione da cui aveva bisogno di essere salvata, Maryna fece le presentazioni.

«È suo marito?» chiese Minnie. «Vi ho visto uscire insieme dall'albergo.»

«Il mio bandito.»

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