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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 9 Odio sentirmi una vittima 21 Ringraziamenti 153 Sull'autore 155 Indice analitico 157 |
| << | < | > | >> |Pagina 8Egli diviene un perturbatore della quiete intellettuale, ma solo al prezzo di diventare un intellettuale errante, un nomade nella Terra di Nessuno dell'intelletto, alla ricerca di un altrove dove riposare, un luogo ancora lontano, ben al di là dell'orizzonte. Non sono né compiacenti né appagati, questi stranieri dai piedi inquieti. THORSTEIN VEBLEN Una persona che muore è una biblioteca che brucia. VECCHIO PROVERBIO KIKUYU Prefazione «La sola metafora che resta, la sola che sia possibile concepire per la vita della mente» ha scritto Hannah Arendt «è la sensazione della vitalità. Privo del soffio vitale, il corpo umano è un cadavere; priva del pensiero, la mente dell'uomo è morta.» Susan Sontag era dello stesso avviso. Nel secondo volume dei suoi diari e taccuini (As Consciousness Is Harnessed to Flesh, «La coscienza imbrigliata alla carne») dichiara: «Essere intelligente, per me, non vuol dire fare qualcosa "meglio". È l'unica maniera di esistere... So di aver paura della passività (e della dipendenza). Quando uso la mia mente, qualcosa mi fa sentire attiva (autonoma). E questo è un bene». Saggista, romanziera, drammaturga, cineasta e attivista politica, Sontag, nata nel 1933 e morta nel 2004, ha testimoniato in modo esemplare che vivere una vita di pensiero e pensare alla propria vita possono essere attività complementari e benefiche. Sin dal 1966, anno di pubblicazione di Contro l'interpretazione — la sua prima raccolta di saggi che, con gioia e senza alcuna condiscendenza, spaziava dalle Supremes a Simone Weil , e da film di fantascienza come Radiazioni BX: distruzione uomo a un film come Muriel di Resnais -, Sontag non ha mai rinunciato alla fedeltà che la legava tanto alla cultura alta quanto a quella popolare. Come lei stessa ha osservato nella prefazione a una riedizione che celebrava i trent'anni della raccolta: «Se fossi costretta a scegliere tra i Doors e Dostoevskij, ovviamente sceglierei Dostoevskij. Ma devo proprio scegliere?». Fautrice di una «erotica dell'arte», Sontag condivideva con Roland Barthes non soltanto il «piacere del testo», ma anche quella «visione della vita della mente come vita di desiderio, di piena intelligenza e piacere» che lei stessa riconobbe allo scrittore francese. In ciò seguiva le orme di William Wordsworth che, nella «Prefazione» alle Ballate liriche, attribuì al poeta la capacità di «produrre nell'essere umano un piacere immediato» - attraverso il «riconoscimento della bellezza dell'universo» e l'«omaggio reso alla nativa e nuda dignità dell'uomo» - e sostenne che la trasformazione di quella capacità in una realtà costituiva «un compito grato e facile per chi considerava il mondo nello spirito dell'amore». «Cosa mi fa sentire forte?» si domandava Sontag in un'annotazione del suo diario. «Essere innamorata e lavorare» rispondeva, affermando la propria fedeltà alle «fervide esaltazioni della mente». Amare, desiderare e pensare erano, per Sontag, attività essenzialmente contigue. In un affascinante libro intitolato Eros the Bittersweet («Eros il dolceamaro»), la poetessa e grecista Anne Carson - una scrittrice che Sontag ammirava molto - sostiene che «ci sono delle somiglianze tra il modo in cui l'Eros agisce nella mente di chi ama e quello in cui la conoscenza agisce nella mente di chi pensa» e aggiunge che «quando la mente si protende verso la conoscenza, si apre lo spazio del desiderio» - un sentimento cui fa eco la stessa Sontag nel saggio su Barthes, quando osserva che «la scrittura è un abbraccio, un lasciarsi abbracciare; ogni idea è una mano tesa».
[...]
Ma dopo aver parlato per tre ore, Susan mi disse che aveva bisogno di riposare, prima di uscire per andare a cena. Sapevo di aver già registrato materiale sufficiente per l'intervista che sarebbe apparsa su Rolling Stone. Con mia grande sorpresa, tuttavia, Susan mi informò che sarebbe presto tornata al suo appartamento di New York, dove contava di fermarsi per sei mesi, e, poiché desiderava parlarmi di una serie di altre questioni, mi chiese se non mi sarebbe dispiaciuto proseguire la nostra conversazione a New York.
Cinque mesi dopo, in un gelido pomeriggio di novembre, arrivai nello
spazioso attico affacciato sul fiume
Hudson, all'angolo tra Riverside Drive e la 106a Strada, in
cui Susan viveva circondata dagli ottomila libri della sua
biblioteca, che lei definiva «il mio sistema di recupero» e
«l'archivio dei miei desideri». E in quel luogo sacro ci sedemmo a parlare fino
a tarda sera.
Nell'ottobre del 1978, la rivista Rolling Stone pubblicò un terzo della mia intervista a Susan Sontag. Adesso, per la prima volta, ho l'opportunità di presentare nella sua interezza la conversazione che ho avuto il privilegio di avere trentacinque anni fa, a Parigi e a New York, con una persona straordinaria e ammirevole, il cui credo intellettuale — così l'ho sempre considerato — mi sembra espresso nel modo più commovente in un breve testo che scrisse nel 1996, intitolato «A Letter to Borges» («Lettera a Borges»): Lei ha detto che dobbiamo alla letteratura tutto ciò che siamo, o siamo stati. Se spariranno i libri, sparirà la storia, e spariranno anche gli esseri umani. Sono certa che lei abbia ragione. I libri non sono soltanto la somma arbitraria dei nostri sogni, e la nostra memoria. Ci offrono anche un modello di autotrascendenza. C'è chi pensa che la lettura sia soltanto una forma di evasione: un'evasione dal mondo «reale» di tutti i giorni, verso un mondo immaginario, il mondo dei libri. I libri sono molto di più. Sono una maniera per essere pienamente umani. Jonathan Cott | << | < | > | >> |Pagina 21JONATHAN COTT Quattro anni fa, quando ha scoperto di avere un cancro, lei ha immediatamente cominciato a riflettere sulla sua malattia. Ciò mi fa pensare a un'osservazione di Nietzsche: «Per uno psicologo, poche questioni sono così allettanti come quelle che riguardano il rapporto tra salute e filosofia, e nel caso che lui stesso si ammali, porta con sé, nella malattia, tutta la sua curiosità scientifica». È così che ha cominciato a pensare a Malattia come metafora?SUSAN SONTAG È sicuramente vero che l'ammalarmi mi ha spinta a riflettere sulla malattia. Tutto ciò che mi accade mi induce a riflettere. Riflettere è una delle cose che faccio. Se fossi stata l'unica superstite di un incidente aereo, probabilmente mi sarei interessata alla storia dell'aviazione. Sono certa che, in forma molto trasfigurata, l'esperienza vissuta negli ultimi due anni e mezzo troverà posto nella mia narrativa. Ma quanto alla parte di me che scrive saggi, la domanda che mi sono rivolta non è stata «cosa sto provando?», bensì «cosa succede veramente nel mondo dei malati?». Quali sono le idee più diffuse sulla malattia? Esaminavo le mie stesse idee, perché anch'io coltivavo moltissime fantasie sulla malattia, e sul cancro in particolare. Non avevo mai prestato seria attenzione alla questione della malattia. E quando non si riflette, si tende a diventare veicoli di luoghi comuni, per quanto illuminati possano essere. Non che mi fossi assegnata un compito — «Bene, ora che sono malata penserò alla malattia» —, ci pensavo e basta. Sei sdraiata in un letto d'ospedale, arriva un medico e ti accorgi che i medici parlano in un certo modo... Li ascolti e cominci a pensare a quello che dicono, a cosa significa, a quali informazioni ricevi, e a come valutarle. Ma, al tempo stesso, pensi «com'è strano sentirli parlare così», e comprendi che si esprimono in quel modo a causa di una serie di convinzioni imperanti nel mondo dei malati. Dunque si potrebbe dire che stessi «filosofando» sulla malattia, benché non mi piaccia usare una parola così pretenziosa; ho troppa ammirazione per la filosofia. Ma se si usa il termine nella sua accezione più ampia, si può dire che è possibile filosofare su qualsiasi cosa. Se ti innamori, per esempio, cominci a pensare a cos'è l'amore, almeno se, per temperamento, sei portata a riflettere. | << | < | > | >> |Pagina 24Guardi, quel che mi preme è essere pienamente presente nella mia vita - essere davvero là dove sei, contemporaneo a te stesso nella tua vita, prestare piena attenzione al mondo, che include anche te. Tu non sei il mondo, il mondo non è identico a te, ma tu sei nel mondo e vi presti attenzione. È quel che fa uno scrittore - presta attenzione al mondo. Non condivido affatto l'idea solipsistica secondo cui tutto è nella nostra mente. Non è vero, il mondo esiste davvero, a prescindere dal fatto che tu ci viva o meno. E quando vivo un'esperienza terribile, per me è molto più facile mettere in relazione la scrittura con ciò che sta realmente accadendo, piuttosto che cercare di allontanarmene, interessandomi a qualcosa di diverso, poiché in tal modo non farei che scindermi in due. Lei non è il primo a ipotizzare che ci sia voluto un certo distacco per scrivere Malattia come metafora, ma io non ero affatto distaccata.
J.C.
Forse la parola «distante» è più appropriata? Ho notato che ricorre spesso nei
suoi scritti in contesti diversi, per esempio nel saggio «Sullo stile», quando
nota che «tutte le opere d'arte si fondano su una certa distanza dalla
realtà vivente che rappresentano [...] Il livello e la manipolazione di questa
distanza, le sue convenzioni, costituiscono lo stile di un'opera».
S.S. No, non distante. Può darsi che lei capisca meglio di me come sono andate le cose... Non sto facendo dell'ironia, poiché è molto probabile che io non comprenda appieno tale processo. Ma non mi sentivo affatto distante. Di solito non provo piacere nello scrivere. Spesso è molto stancante e noioso, perché quando scrivo passo attraverso moltissime stesure. Ma, benché abbia dovuto aspettare un anno prima di cominciare a lavorarci, Malattia come metafora è uno dei pochi testi che ho scritto con piacere e con una certa rapidità, proprio perché era strettamente connesso a ciò accadeva ogni giorno nella mia vita. Per circa un anno e mezzo sono andata in ospedale tre volte alla settimana, ho sentito un certo tipo di linguaggio, ho visto gente vittima di certe stupide idee. Malattia come metafora e il saggio sulla guerra del Vietnam forse rappresentano gli unici due casi nella mia vita in cui sapevo che ciò che stavo scrivendo era non solo vero, ma anche realmente utile e proficuo, e in modo estremamente pratico e immediato. Non so se il mio libro sulla fotografia sia utile a qualcuno, se non nella misura in cui può arricchire le coscienze e rendere le cose più complesse, il che è sempre un bene. Ma conosco persone che dopo aver letto Malattia come metafora hanno cercato una terapia adeguata - persone che ricevevano soltanto un supporto psicoterapeutico e ora, grazie al libro, si sottopongono alla chemioterapia. Non è l'unica ragione per cui ho scritto il libro - l'ho scritto perché ero convinta di dire la verità -, ma è un grande piacere scrivere qualcosa che risulti utile agli altri. | << | < | > | >> |Pagina 28J.C. Nel saggio sul viaggio in Vietnam, lei parla della differenza tra le culture fondate sulla vergogna e quelle fondate sul senso di colpa.
S.S.
Ovviamente ci sono delle sovrapposizioni, ci si può
vergognare di non aver raggiunto un certo traguardo. Ma
la gente si sente veramente in colpa per il fatto di essere malata. Per quanto
mi riguarda, mi piace sentirmi responsabile. Ogni volta che mi trovo in un
pasticcio nella mia vita privata, come accade quando sono attratta dalla
persona sbagliata, o quando, per una qualche ragione, mi
ritrovo con le spalle al muro - il genere di cose che capita
a chiunque - preferisco sempre assumermene la responsabilità, piuttosto che
attribuire la colpa a un altro. Odio sentirmi una vittima. Preferisco dire:
«Ecco, ho scelto di innamorarmi di una persona che si è rivelata una carogna».
La scelta è stata mia e non mi piace dare la colpa
agli altri, anche perché è molto più facile cambiare se stessi che cambiare gli
altri. Non che non mi piaccia, dunque,
assumermi le mie responsabilità, ma sono convinta che
ammalarsi, contrarre una gravissima malattia, è come
essere investiti da un'auto, e non credo abbia molto senso domandarsi quale ne
sia la causa. Ciò che ha senso è comportarsi nel modo più razionale possibile,
cercando il tipo di terapia adeguata e conservando la voglia di vivere
davvero. Non c'è alcun dubbio che se non si vuole vivere
si diventa complici della malattia.
J.C.
Giobbe non provò sensi di colpa - provò ostinazione e rabbia.
S.S. Sono stata estremamente ostinata. Ma non ho provato rabbia, perché non c'era nessuno con cui arrabbiarmi. Non puoi arrabbiarti con la natura. Non puoi arrabbiarti con la biologia. Tutti dobbiamo morire - benché sia difficilissimo accettarlo - e tutti facciamo esperienza di questo processo. Hai la sensazione - nella tua mente, perlopiù - di essere intrappolato in una materia fisiologica che di regola non sopravvive, in condizioni decenti, più di settanta o ottant'anni. A un certo punto comincia a deteriorarsi e allora, per metà della tua vita, se non di più, osservi il logorarsi di questa materia. E non c'è niente da fare. Sei intrappolato al suo interno, e quando quella se ne va, te ne vai anche tu. Abbiamo tutti questa percezione di noi stessi. Se conosci bene una persona di sessanta o settant'anni e le chiedi che età pensa di avere, ti risponderà che ha l'impressione di avere quattordici anni... ma che poi, guardandosi allo specchio, vede un viso appassito, e ha l'impressione di essere una quattordicenne intrappolata in un corpo invecchiato. Siamo tutti intrappolati in questa materia deperibile. E il peggio non è che alla fine si spegne, come una macchina progettata per durare un determinato periodo, ma che si deteriora lentamente e, con il passare degli anni, ti accorgi che funziona meno bene, la pelle non ha più un bell'aspetto, i guasti si moltiplicano, ed è un'esperienza molto triste.
[...]
S.S. Credo sia impossibile superare la sensazione di essere individui intrappolati dentro qualcosa. È all'origine di ogni dualismo - platonico, cartesiano, o quello che sia. Benché sappiamo che la sensazione di «essere nel proprio corpo» non possa reggere a nessun tipo di analisi scientifica, non c'è modo di essere coscienti senza provarla. Certo, invecchiando puoi cercare di farti una ragione della morte, di spostare il tuo asse verso attività meno dipendenti dal corpo, ma il tuo corpo non attrae più gli altri, e non funziona in modo da dar piacere a te, perché è più fragile e, in una maniera o nell'altra, si deteriora. La traiettoria tradizionale della vita umana prevede una parte iniziale più fisica e una finale più contemplativa. Ma va detto che si tratta di un'opzione poco praticabile, e ancor meno incoraggiata dalla società. E bisognerebbe anche aggiungere che molte delle nostre idee su ciò che è possibile fare in età diverse, o su ciò che l'età significa, sono talmente arbitrarie - arbitrarie quanto gli stereotipi sessuali. Credo che la polarizzazione giovane/vecchio e quella maschio/femmina costituiscano i due maggiori stereotipi in cui siamo imprigionati. I valori associati alla giovinezza e alla mascolinità rappresentano la norma umana, mentre tutto il resto è giudicato, a dir poco, inferiore. I vecchi hanno un tremendo senso di inferiorità. La vecchiaia li fa sentire in imbarazzo. | << | < | > | >> |Pagina 52J.C. Qualcuno mi ha detto che lei ha l'abitudine di leggere un libro al giorno.
S.S.
Leggo moltissimo, e spesso con una certa noncuranza. Mi piace leggere come ad
altri piace guardare la televisione e, leggendo, mi capita pure di appisolarmi.
Se sono depressa, mi basta prendere un libro per sentirmi meglio.
J.C.
Come scrive Emily Dickinson: «Fiori e libri, queste
consolazioni dalla pena».
S.S. Sì, la lettura è per me divertimento, distrazione, consolazione; è il mio piccolo suicidio. Se non sopporto più il mondo, mi raggomitolo con un libro, ed è come se mi imbarcassi su una piccola navicella spaziale che mi porta lontano da tutto. Ma le mie letture non sono affatto sistematiche. Ho la grande fortuna di leggere velocemente, e suppongo che, paragonata agli altri, mi si possa considerare una lettrice vorace, e ciò ha i suoi vantaggi, perché posso leggere molto, ma anche i suoi svantaggi, perché non mi soffermo su niente, assimilo tutto e lascio che resti lì a riposare. Sono molto più ignorante di quanto in genere si creda. Se mi chiedesse di spiegare lo strutturalismo o la semiologia, non ne sarei capace. Potrei ricordare un'immagine in una frase di Barthes o farmi un'idea generale, ma non mi sforzo più di tanto. Coltivo tutti questi interessi, ma vado anche al Cbgb [rock club situato nel Lower East Side di Manhattan] e faccio altre cose del genere. Credo davvero nella storia, cosa in cui la gente non crede più. Sono convinta che ciò che facciamo e pensiamo sia una creazione storica. Ho pochissimi convincimenti, ma di questo sono davvero certa: gran parte delle cose che riteniamo naturali è prodotta dalla storia e ha delle radici — nello specifico tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, nel cosiddetto periodo della rivoluzione romantica — e continuiamo sostanzialmente a fare i conti con attese e sentimenti formulati in quel periodo, come le idee sulla felicità, l'individualità, i mutamenti sociali radicali e il piacere. Abbiamo ereditato un vocabolario nato in un particolare momento storico. Perciò quando vado al Cbgb per assistere a un concerto di Patti Smith mi diverto, partecipo, apprezzo e sono più in sintonia perché ho letto Nietzsche. | << | < | > | >> |Pagina 66S.S. In effetti credo che si parli di «leggere» un'immagine. Si tratta, ancora una volta, di una metafora, e l'idea di leggere una fotografia è carica di significati. Ma è vero che le fotografie ricompensano la nostra attenzione e ci permettono di vedere sempre di più. A volte, riguardando delle fotografie, vedo improvvisamente qualcosa di cui non mi ero resa conto. Ovviamente, l'avevo visto, nel senso che gli occhi registrano tutto, ma non l'avevo visto davvero, poiché la mia attenzione non vi si era concentrata.
J.C.
Nel suo libro, descrivendo la natura e le caratteristiche principali della
fotografia, utilizza termini come «polimorfa», «polivalente», «pluralistica»,
«proliferante», «dissociante» e «divorante», e la identifica anche con una
visione del mondo caratterizzata da opulenza, spreco e
irrequietezza. A proposito delle fotografie, usa ripetutamente gli stessi verbi:
«appropriarsi», «rinchiudere», «possedere», «colonizzare», «imprigionare»,
«consumare», «collezionare» e «aggredire».
S.S.
Sì, ma utilizzo anche tanti altri termini: «affascinare», «ossessionare»,
«incantare», «ispirare», «gioire». Ma
voglio tornare sulla parola «aggredire» che lei ha menzionato e che in molti mi
hanno rimproverato. Per me dire
che qualcosa è aggressivo non è, di per sé, negativo. Pensavo che fosse chiaro,
ma ora mi rendo conto che la parola «aggressione» ha acquisito, in modo alquanto
ipocrita, un senso molto peggiorativo. Parlo di ipocrisia perché la
nostra società commette colossali aggressioni contro la
natura e contro ogni forma di vita. Vivere è un'aggressione. Muovendoci nel
mondo, commettiamo continue
aggressioni, occupiamo uno spazio che altri non possono
occupare, calpestiamo flora, fauna e piccole creature. Esiste un'aggressione
normale
che è parte del ritmo della vita.
Credo che l'uso della macchina fotografica incrementi
certe forme moderne di aggressività, come nel caso in cui
si chiede a qualcuno di restare immobile per fotografarlo.
Si tratta di un tipo di appropriazione che la gente considera normale e
desiderabile, perché possiede una macchina
fotografica, e quando vede qualcosa che vuole portarsi a
casa, lo fa nella forma di un'immagine. Colleziona il mondo. Ma non vorrei si
pensasse che stia suggerendo che è stata la fotografia a
introdurre
l'appropriazione, il collezionismo e
l'aggressività, o che senza la fotografia non esisterebbero. Ovviamente, non è
quello che dico, ma a volte ho l'impressione che si creda che lo abbia detto.
J.C.
Ma non pensa di aver associato la fotografia a un
certo tipo di società dei consumi?
S.S.
Sì. Indubbiamente.
J.C.
Nel racconto intitolato «Progetto per un viaggio in Cina», contenuto in
Io, eccetera,
scrive: «Il viaggio come accumulazione. Il colonialismo dell'anima, qualunque
anima, per quanto bene intenzionata». E in un altro racconto,
«Giro turistico senza guida», dichiara: «Non voglio conoscere più di quello che
già conosco, non voglio attaccarmi
a quei posti più di quanto già lo sono». Nel saggio «L'estetica del silenzio»,
osserva che «l'opera d'arte efficace lascia
il silenzio sulla propria scia». E nel celebre saggio «Contro l'interpretazione»
sostiene: «Interpretare è impoverire,
svuotare il mondo, per instaurare un mondo spettrale di
"significati". È trasformare il mondo in questo mondo [...]
Questo mondo, il nostro mondo, è già fin troppo svuotato
e impoverito. Basta con tutti i duplicati, fin quando non
torneremo a fare un'esperienza più immediata di ciò che
abbiamo». Tutta la sua opera sembra ribadire la stessa cosa.
S.S. Sì, è la stessa cosa. La si ritrova ovunque. Ma le assicuro che non ne ero consapevole. | << | < | > | >> |Pagina 82J.C. Per secoli l'ethos patriarcale ha postulato che la donna fosse la negazione dell'uomo.
S.S.
Più che altro che gli fosse inferiore — l'idea di fondo
è che le donne sono superiori ai bambini e inferiori agli
uomini. Sono adulte bambine, che conservano il fascino e
l'attrattiva dell'infanzia.
J.C.
Mi ha sempre colpito che il mondo in cui le donne
sono state così a lungo confinate sia quello dei sussurri
e delle grida — per riprendere il titolo del film di Ingmar
Bergman —, non quello del pensiero dialettico.
S.S. Nella nostra cultura sono state confinate al mondo dei sentimenti, perché il mondo degli uomini è definito come un mondo di azione, forza, abilità direttiva e capacità di distacco, di conseguenza le donne sono divenute le depositarie dei sentimenti e della sensibilità. Nella nostra società le arti sono concepite come attività sostanzialmente femminili, il che non accadeva in passato, quando la repressione delle donne non incideva così tanto sul modo in cui gli uomini definivano se stessi. Una delle battaglie che combatto da più tempo è quella contro la distinzione tra pensiero e sentimento, che è all'origine di ogni concezione anti-intellettualistica: cuore e testa, pensare e sentire, immaginazione e giudizio... Non credo affatto che tali contrapposizioni siano vere. Abbiamo più o meno gli stessi corpi, ma i nostri pensieri sono molto diversi. Credo che per pensare ci serviamo molto più degli strumenti forniti dalla cultura che di quelli offerti dal corpo, e nasce da qui la grandissima varietà di pensiero che esiste al mondo. Ho l'impressione che pensare sia una forma di sentimento e sentire una forma di pensiero. Ciò che faccio, per esempio, si trasforma in libri o in film, in oggetti che non sono me, ma che sono trascrizioni di qualcosa — parole o immagini o quello che sia — e si potrebbe essere indotti a credere che il processo sia puramente intellettuale. Ma a me sembra che quasi tutto quello che faccio abbia a che vedere tanto con l'intuizione quanto con la ragione. Non dico che l'amore presupponga la comprensione, ma amare qualcuno implica pensieri e giudizi di ogni sorta. È così: esiste una struttura intellettuale del desiderio fisico, sessuale. Ma il tipo di ragionamento che stabilisce una distinzione tra pensiero e sentimento è proprio una di quelle forme di demagogia che nuoce alla gente, rendendola sospettosa di cose di cui non dovrebbe né sospettare, né essere compiaciuta. Comprendere se stessi in tali termini è molto nocivo e colpevolizzante. Le contrapposizioni stereotipiche tra pensiero e sentimento, testa e cuore, maschio e femmina furono inventate in un momento in cui si era convinti che il mondo andasse in una certa direzione — vale a dire, verso la tecnocrazia, la razionalizzazione, la scienza, e così via — ma furono anche inventate come difesa contro i valori romantici. | << | < | > | >> |Pagina 88S.S. A parer mio, molti degli scritti che riteniamo buoni ne sono un esempio. Un certo gruppo di scrittrici femministe, o di gente interessata a tali questioni, considererebbe una persona come Hannah Arendt un'intellettuale che si identifica con il maschile. Il caso vuole che sia una donna, che ha scelto di giocare una partita tipicamente maschile, cominciata con Platone e Aristotele, e continuata con Machiavelli, Thomas Hobbes e John Stuart Mill. È la prima filosofa politica, ma la partita che ha scelto di giocare - le regole, il discorso, i riferimenti - ha una tradizione che risale alla Repubblica di Platone. Non si è mai chiesta: «Non dovrei, in quanto donna, avere un approccio diverso a tali questioni?». Non lo ha fatto, e non credo che avrebbe dovuto. Se decido di giocare a scacchi, non credo di dover giocare in modo diverso perché sono una donna.
Certo, quello è un tipo di gioco più determinato dalle
regole, ma anche se fossi un poeta, un prosatore o un pittore mi sembra che le
mie scelte sarebbero influenzate dalle varie tradizioni che ho abbracciato, o
dalle esperienze che ho vissuto, alcune delle quali hanno forse qualcosa a
che fare con il mio essere donna, ma non per questo sono
necessariamente determinanti. Ritengo molto oppressiva
la richiesta di conformarsi a uno stereotipo, come accade
per esempio quando si chiede a uno scrittore nero di dar
voce alla coscienza dei neri, di scrivere soltanto della loro
vita, o di riflettere la loro sensibilità culturale. Non voglio
essere «ghettizzata», così come non lo vogliono alcuni degli scrittori neri che
conosco.
J.C.
Poco fa parlava della particolare sintonia che si crea
tra i malati. Lo stesso, diceva, accade tra i vecchi. Ha descritto la polarità
maschio/femmina come una sorta di prigione. Perché, allora, una donna che è
consapevole di essere stata rinchiusa in quella prigione non dovrebbe provare il
desiderio di schierarsi con un certo tipo di femminismo?
S.S.
Certo, non ho nulla in contrario, ma mi dispiacerebbe constatare che si cominci
a segregare la scrittura in base al sesso. Mi sono già trovata in situazioni del
genere. Se un mio film è selezionato da un festival di cinema femminile, di
certo non rifiuto l'invito - al contrario, sono
sempre contenta di mostrare i miei film -, ma l'inclusione
del film è dovuta solo al caso che io sia una donna. Non
credo, tuttavia, che il mio lavoro di cineasta abbia a che
fare con il mio essere donna - ha a che fare con me, che,
tra le altre cose, sono una donna.
J.C.
Una femminista potrebbe rispondere che lei si comporta come se la rivoluzione
avesse già vinto.
S.S. Non credo che la rivoluzione abbia vinto, ma, a mio avviso, è altrettanto utile che le donne accedano a strutture e attività tradizionali, e dimostrino la loro competenza, diventando piloti d'aereo, direttori di banca o generali, o esercitando tante altre professioni da cui io non sono attratta né interessata. È molto importante che le donne rivendichino il diritto di esercitare tali attività. Il tentativo di stabilire una cultura separata è un modo per non cercare il potere, mentre io sono convinta che le donne debbano cercarlo. Come ho affermato in passato, non credo che l'emancipazione delle donne comporti soltanto la parità dei diritti. Comporta la parità dei poteri, e come la si potrà ottenere se non si partecipa alle strutture già esistenti? Una profonda lealtà mi lega alle donne, ma non fino al punto di pubblicare i miei scritti solo sulle riviste femministe, poiché una lealtà altrettanto profonda mi lega alla cultura occidentale. Per quanto compromessa e corrotta dal sessismo, è pur sempre la nostra cultura, e penso che, anche se siamo donne, dobbiamo lavorare al suo interno, per apportare le correzioni e le trasformazioni necessarie. Credo che le donne dovrebbero essere fiere, identificandosi con quelle donne che raggiungono un grado di eccellenza nelle loro attività, piuttosto che criticarle perché non esprimono una sensibilità femminile, o una concezione femminile della sensualità. Sono convinta della necessità di desegregare tutto. Il mio femminismo è antisegregazionista. E non la penso così perché credo che la battaglia sia stata vinta. Le azioni intraprese dai collettivi delle donne sono meritorie, ma non credo che lo scopo a cui mirare sia la creazione o la rivendicazione di valori femminili. Quella sarebbe soltanto una vittoria a metà. Non mi interessa né stabilire né sradicare un principio di cultura, di sensibilità o di sensualità femminile. Mi piacerebbe che gli uomini fossero un po' più femminili, e le donne un po' più maschili. Ai miei occhi, un mondo del genere sarebbe molto più attraente. | << | < | > | >> |Pagina 131J.C. Molti hanno una visione miope e convenzionale della narrativa e della poesia americana e tendono a dimenticare, per citare solo qualche esempio, le opere di Mina Loy, Link Gillespie, Harry Crosby e, soprattutto, quelle di Laura Riding e Paul Goodman. Ho appena finito di leggere Empire City, il grande romanzo di Goodman, e gli straordinari racconti che scrisse agli inizi degli anni trenta, quando aveva ventun anni.S.S. Sono assolutamente d'accordo. Ha citato due scrittori che per me sono stati dei modelli: Progress of Stories di Laura Riding è per me un metro di paragone. Quasi nessuno conosce quest'opera, e nessuno oggi scrive qualcosa che possa reggere il suo confronto. Non solo non si prosegue in quella direzione, non se n'è all'altezza. E sono convinta anch'io che i racconti di Paul Goodman rappresentino uno dei vertici della letteratura americana del XX secolo. Credo che egli avrebbe potuto essere il grande narratore del nostro tempo, ma le sue accese passioni politiche e intellettuali lo hanno indirizzato verso la scrittura saggistica, e la narrativa si è fatta sempre più esile. Ma quei racconti scritti intorno ai vent'anni sono uno dei grandi trionfi della letteratura. A volte, alle quattro del mattino, quando non riesco a dormire, invece di contare le pecore mi invento delle antologie. Tra le mie idee c'è quella di raccogliere in un volume la narrativa breve di scrittori come Laura Riding e Paul Goodman. In ogni caso, sono convinta che questi testi saranno riscoperti e finiranno per trovare il loro pubblico. [In un'annotazione del suo diario, datata 20 agosto 1978 e pubblicata in As Consciousness is Harnessed to Flesh. Journals and Notebooks 1964-1980, Sontag propone «un'antologia di racconti ideali» che include testi come «Kleist a Thun» di Robert Walser, «La distanza della luna» di Italo Calvino, «A Last Lesson in Geography» («Ultima lezione di geografia») di Laura Riding e «The Minutes Are Flowing by Like a Snowstorm» («I minuti volano via come una tempesta di neve») di Paul Goodman.] Devo dire, tuttavia, che a giudicare dalle conversazioni in cui mi capita di trovarmi coinvolta ciò che è stato definito modernismo o avanguardia oggi sembra caduto nel discredito più totale. Sono tutti impazienti di scendere da quel treno, dicendo che non va bene, che è un fallimento, che dobbiamo lasciarcelo alle spalle, che si è rivelato così superficiale - persino Roland Barthes mi ha detto qualcosa di simile. Chi dieci anni fa parlava di Robbe-Grillet e di Godard, oggi parla di Tolstoj e di Colette. A me preme molto contrastare questa tendenza generale. Non mi interessa utilizzare termini come modernismo o avanguardia, che sono parole logore e da accantonare, ma quando mi interrogo su come scrivere narrativa leggo i racconti di Laura Riding e di Paul Goodman, e mi stupisce la misura in cui il progetto di un'opera moderna - il tentativo di sperimentare forme nuove - oggi non sia più neppure difeso. Quando ho cominciato a scrivere, all'inizio degli anni sessanta, difendevo il «moderno», soprattutto in letteratura, perché l'approccio prevalente era molto filisteo. Per una decina d'anni le mie idee sono state sempre più condivise. Ma negli ultimi cinque anni si è verificato qualcosa di peggio che un semplice ritorno a posizioni del passato. Un tempo questo genere di arte non era amato per ignoranza, perché non lo si conosceva affatto. Oggi non lo si ama perché si crede di conoscerlo e ci si ritiene superiori. Perciò ci ritroviamo a difendere Schönberg, Joyce o Merce Cunningham. La grettezza con cui oggi si giudica l'arte moderna è talmente scoraggiante che non ho neppure voglia di entrare nell'arena, utilizzando la forma del saggio. Alla fine degli anni sessanta mi ero davvero convinta che la battaglia fosse stata vinta, ma si trattava di una vittoria assai effimera. Quando qualcuno mi dice che non ama Dostoevskij perché lo trova troppo caotico resto allibita. Mi si potrebbe obiettare che tali reazioni sono dovute a una certa stanchezza: la gente ha bisogno di un po' di riposo. Ma io continuo a domandarmi: «Perché mai dovremmo permetterle di riposarsi?». [ride] | << | < | > | >> |Pagina 150In definitiva, penso che sia necessario distruggere le interpretazioni false e demagogiche... e io mi identifico con un progetto del genere. Nei momenti di maggiore esaltazione, mi considero impegnata nel compito di tagliare delle teste — come fece Ercole con l'Idra, benché sia perfettamente consapevole che lo stesso tipo di falsa coscienza e di pensiero demagogico rispunterà da un'altra parte. Ma lo farò, finché mi sarà possibile, e so che altri continueranno a farlo dopo di me.
Ho detto che compito dello scrittore è prestare attenzione al mondo, ma
penso che compito dello scrittore, così
come lo concepisco per me stessa, sia anche assumere una
posizione antagonistica e combattiva rispetto a ogni sorta
di falsità... sapendo perfettamente, ancora una volta, che
si tratta di un compito senza fine, dal momento che non
si riuscirà mai a metter fine alla falsità, alla falsa coscienza o ai sistemi di
interpretazione. Ma in ogni generazione
ci dovrebbe essere qualcuno che attacca tali cose, e sono
profondamente turbata dal constatare che in gran parte
del mondo le sole critiche alla società vengano dallo stato
stesso. Penso che ci dovrebbero sempre essere individui
indipendenti che si sforzino, per quanto ciò possa sembrare donchisciottesco, di
far cadere un paio di teste, di distruggere allucinazioni, falsità e demagogie,
di restituire complessità al mondo, contrastando l'inevitabile tendenza alla
semplificazione. Ma la cosa più terribile per me
sarebbe accorgermi che sono ancora d'accordo con quello
che ho già scritto e detto — è la cosa che mi renderebbe più
infelice, perché vorrebbe dire che ho smesso di pensare.
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