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| << | < | > | >> |Indice1 l. Le stagioni dell'acqua 10 2. Draghi, ninfe e madonne 15 3. L'acqua: pregiudizi e seduzioni 25 4. L'acqua, magica e misteriosa 32 5. Pidocchi, pulci ed escrementi: compagni di vita 43 6. Dallo stupore ai «gionalieri lavacri» 55 7. L'acqua fa male 60 8. L'ossessione dei pori e la pulizia asciutta 68 9. L'acqua e i pericoli morali 83 10. L'acqua e il mondo dei minimi 101 11 L'acqua negli acquedotti 113 12. L'acqua per mantenersi in salute 123 13. Il "verbo" igienico 129 14. Le paure del mare 135 15. La fiducia nel mare 144 16. Il mare come moda 155 Tavole 187 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 1l. Le stagioni dell'acquaCon efficace sintesi lo storico Jean-Pierre Goubert, specialista in storia della salute, ha dedicato una lunga monografia (La conquéte de l'eau) alle implicazioni sociali e sanitarie dell'acqua negli ultimi secoli. Goubert ha anche evidenziato l'impatto dell'elemento-acqua sull'immaginario collettivo e sulla cultura dei popoli occidentali, soffermandosi sulle numerose valenze che l'acqua assume nel corso del tempo e che interessano, in maniera privilegiata, il corpo umano. Dall'età cosmologica, in cui guaritori e maghi celebrano il culto delle fontane magiche e sacre, all'età della cristianità, in cui l'acqua battesimale monda il corpo dai peccati, ma in cui l'acqua, che lava i corpi, assume anche una riprovevole connotazione erotica e sessuale, fino a una terza fase, culminante nel XIX e XX secolo, in cui l'acqua diventa appannaggio dei sapienti, si laicizza nel sapere di geologi, ingegneri, chimici, fisici, medici, che ne studiano la composizione, il contenuto di gas e le proprietà curative. Da Antonio Cocchi, che nel trattato Dei bagni di Pisa del 1750 si sofferma sul colore, il calore, il peso specifico dell'acqua; ad Alessandro Bicchierai che nel 1788 pubblica l'opera Dei bagni di Montecatini, sugli effetti e le proprietà mediche di quelle acque minerali; a William Brownrigg, Henry Cavendish, Joseph Prestley con Directions for Impregnating Water with Fixed Air, del 1772, a Sir John Pringle e Hilaire-Marin Rouelle del celebre mémoire intitolato Observations sur l'air fixe et sur ses effets dans certaines eaux minerales, fino agli Opuscoli fisici e chimici di Lavoisier, del 1774. Hervé Maneglier in una Storia dell'acqua ha descritto, dal canto suo, i rapporti che l'uomo ha intrattenuto con l'acqua, individuando, secondo la sua definizione, quattro ere: primaria, quella delle acque lustrali; secondaria, quella dell'addomesticamento delle acque per l'irrigazione agricola; terziaria, quella in cui «i pozzi individuali ebbero la meglio sugli acquedotti collettivi»; quaternaria, nata alla fine del XIX secolo, «con la scoperta del comfort e la nozione di potabilità, derivata dal lavoro di Pasteur». Usando volutamente il "termine geologico" di ere, Maneglier intende sottolineare come, «pur succedendosi nel tempo e accatastandosi le une sulle altre, le successive ere non si sono reciprocamente annullate. Le diverse stratificazioni hanno lasciato ognuna le proprie tracce». Anche se fin dall'età medievale l'acqua è stata usata per la lavorazione della seta, della carta e delle pelli e ha mosso le pale e le macine dei mulini (gli impianti molitori di tipo idraulico sono originari in area franca attorno al Mille e, quindi, importati in Italia settentrionale e centrale da parte dei monaci cistercensi, tanto che le chiuse bolognesi del Reno e del Savena risalgono al XII secolo), solo negli ultimi duecento anni, con l'avvento delle lavorazioni industriali, del vapore, dell'elettricità e del concetto di igiene, essa ha conquistato il mondo e dal mondo è stata conquistata. Beninteso in termini attuali, se anche gli statuti trecenteschi di Rimini, prevedendo il taglio della mano destra per chi danneggiava i condotti dell'acqua, in fatto di conquista e di difesa non scherzavano. Come non si scherzava nei confronti dei presunti untoti delle acque durante i secoli della peste; così avviene ai lebbrosi, che all'inizio del XIV secolo in Aquitania sono accusati di aver avvelenato i pozzi della regione e condannati al rogo; e così avviene agli ebrei in Provenza, Linguadoca, Delfinato, Savoia e Alsazia, nel 1348. Certo egizi e sumeri sapevano benissimo come incanalare a fini irrigui l'acqua del Nilo, dell'Eufrate e del Tigri; altrettanto esperti si dimostrarono i romani nella costruzione degli acquedotti e lungimiranti le loro teorie per rifornire le città, come dimostra un testo di Sesto Giulio Frontino, De aquaeductu urbis Romae. Eppure di acquedotti (quelli romani dureranno nel tempo con straordinaria efficacia) si riparlerà in maniera organica soltanto nel XIX secolo e, molto spesso, recuperando condotti e manufatti ideati o costruiti proprio sotto la dominazione romana. | << | < | > | >> |Pagina 325. Pidocchi, pulci ed escrementi: compagni di vitaSe vogliamo prestare fede alle testimonianze mediche e letterarie, il rapporto di gran parte della popolazione europea con l'igiene della persona subisce due mutamenti epocali: uno, nel XIV secolo, quando la peste è responsabile di un clamoroso allentamento di certe norme igieniche collegate alla cura del corpo; l'altro, alla fine del XVIII secolo, quando il corpo riscopre pian piano l'acqua e i suoi riti di pulizia. A cominciare naturalmente dalle classi più elevate. E non fu certamente un caso se, in corrispondenza del lento, ma progressivo cammino igienico di questa seconda fase, la mortalità (soprattutto quella infantile) abbia subito un forte declino. Paradossalmente, a sconfiggere certe malattie, fu più decisiva l'azione di acqua e sapone, che l'intervento di medici e medicine. L'igiene, infatti, svolse un'azione determinante sia nelle malattie dell'apparato intestinale (gastroenterite, febbre tifoidea, dissenteria), sia nelle malattie trasmesse da persona a persona dai pidocchi, come nel caso del tifo petecchiale. Eppure avere pidocchi e pulci fu, per secoli, considerato un fatto naturale, perché, si diceva, tutti gli animali li avevano. Una canzone popolare lettone mostra che l'attrazione fisica di una giovane nei confronti dell'innarnorato non è condizionata più di tanto dal parassita, quanto da altri fattori: Per amore morivo di voglia di baciare d mio Gianni ma ogni volta che offrivo le labbra trovavo i pidocchi di Gianni. Pazienza i dannati pidocchi ma il moccolo non mi andava giù. | << | < | > | >> |Pagina 557. L'acqua fa maleUn parsimonioso uso dell'acqua, sia per la pulizia, sia per l'alimentazione, sembra una costante che attraversa tutte le società d'Ancien Régime. E non solo per le difficoltà nell'approvvigionamento, ma per una profonda convinzione culturale, che, almeno fino alla fine dell'ottocento, trovava il suo presupposto inconsapevole nelle malattie gastroenteriche. Ancora in questo secolo, il secolo dell'idroterapia, c'era chi era pronto a giurare che «tutti coloro che bevevano acqua si ammalavano». O chi sconsigliava l'uso dell'acqua pura: La bevanda poi che si deve usare ordinariamente nei pasti sarà di acqua vinata. [...] L'acqua pura per bevanda sconviene, perché è questa troppo poco stimolante, mette troppa mollezza e rilassatezza nei corpi, e troppi sudori facilita. [...] Il vino poi unito a più o meno di acqua, oltre che meglio estingue la sete, meglio ancora aiuta allo smaltimento nello stomaco della cibaria [...] Fuori della tavola e fra giorno, per chi sentisi veramente sete, sarà bevanda migliore l'acqua stessa leggermente vinata, oppure aggraziata da qualche sostanza aromatica o dolcificata. Tale diffidenza, testimoniata fin da una Epistola in cui san Paolo ammonisce Timoteo a smettere di bere acqua e a ricorrere invece al vino, «perché ti curerà lo stomaco e i mali di cui soffri», è ripresa da tutta una serie di frammenti di saggezza popolare che, se esaltano il vino come sangue dell'uomo, o antidoto alle più svariate malattie, attribuiscono all'acqua il potere di accorciare la vita e di provocare tristezza e malinconia. Ma le diffidenze legate all'ingestione di acqua non riguardano soltanto la cultura popolare perché, a conferma di un'effettiva circolarità culturale, un'opera del 1611 del Pisanelli (Trattato della natura dei cibi et del bere) non parla mai di acqua, mentre raccomanda il vino vecchio «per uso di medicine», il vino rosso per fare «sogni grati la notte» e il vino bianco per purgare «le vene da gli humori corrotti». La scuola browniana di inizi Ottocento insisterà ancora sugli effetti terapeutici della bevanda sacra al dio Bacco. Gioverà ricordare che nella concezione medica di John Brown, morto a cinquantadue anni nel 1788, le malattie altro non sono se non un'attenuazione (per il 97 per cento dei casi) o una maggiorazione (solo per il 3 per cento) dell'eccitamento vitale: in questo contesto di astenia diretta (difetto di stimolazione) o indiretta («organismo esaurito da precedente stimolazione in eccesso»), il vino (e non l'acqua!) svolgeva un efficace ruolo di ristabilimento degli equilibri." Anche in questo caso, tuttavia, neppure Brown può vantare un'assoluta originalità! Infatti, a differenza di Ippocrate, Platone e Galeno, i medici medievali erano arrivati a incitare i genitori a concedere ai bambini qualche sorso di vino e ad evitare assolutamente acqua pura e perfino il latte. Le prime parole che venivano insegnate ai bambini, oltre alle consuete mamma e babbo, erano pappo e bombo, cioè pane e vino. Non a caso, poiché il vino era ritenuto in grado di mantenere costante la temperatura corporea e di salvaguardare, fin dalla primissima infanzia, da tutta una serie di malattie. Il vino elimina i cattivi umori (da Pasteur in poi ammazzerà anche i microbi) negli adulti e i vermi nei bambini; e non solo. Proverbi e detti ammoniscono che «dal buon vino ne segue il buon sangue», «due dita di vino sono un calcio al medico», «il vino è il latte dei vecchi», «il vino è il sangue dell'uomo», «il vino allunga la vita, l'acqua accorcia gli anni», «l'acqua fa male, il vino fa cantare». Nella sua autobiografia Antonio Bravi, contemporaneo e conterraneo di Giacomo Leopardi, ricorda di aver sempre bevuto, fin dall'«età infantile», «vino temperato da buona quantità di acqua e di aver sospeso questa abitudine di vita soltanto in coincidenza di un disturbo che gli provocava vertigini. Solo per alcuni mesi però, perché, in seguito alle «frequenti e vive persuasioni altrui», fu convinto a ritornare sulla sua decisione, anche se, in fondo, la sola acqua non gli dispiaceva." La fonte citata testimonia a chiare lettere l'uso abituale del vino fin dall'infanzia e la presenza di parenti e amici che non incoraggiano le abitudini o le scelte che tendono a escluderlo dalla dieta giornaliera. | << | < | > | >> |Pagina 608. L'ossessione dei pori e la pulizia asciuttaDel resto anche la medicina, per lunghi secoli impregnata di idee tratte dalla fisica aristotelica, dall'igiene ippocratica e dai principi medici di Galeno, attribuiva all'umidità e alla freschezza dell'acqua una valenza negativa se usata come bevanda e, se usata per le abluzioni corporali, il potere di «relácher la cohésion des parties» e dunque di aprire la strada alle infezioni dall'esterno attraverso i pori dilatati della pelle. L'acqua, scrive Leonardo, «penetra tutti li porosi corpi». Così, dal XVI secolo in poi (quando la peste è un accidente ciclico che provoca vere e proprie ondate di panico in cui incorrono tutte le generazioni), il timore che i pori della pelle possano aprirsi in seguito a un bagno caldo diventa quasi una ossessione. E non soltanto per la peste, che nel 1546 Girolamo Fracastoro attribuirà a minuscole particelle viventi (seminaria) in grado di riprodursi da una persona all'altra, ma anche per altre forme di contagio i cui timori si propagano nel XVI e nel XVII secolo. Se infatti l'acqua e il vapore riscaldano il corpo, ne dilatano i pori e ne «indeboliscono la natura», nulla vieta di immaginare che possano anche diffondere le malattie sifilitiche e che favoriscano, addirittura, gravidanze senza la penetrazione. Infatti c'era chi sosteneva che «una donna èuò rimanere incinta immergendosi nei bagni nei quali sono rimasti per qualche tempo degli uomini», grazie allo sperma vagante fra i tepori dell'acqua. Più in generale il bagno debilita e quindi espone al rischio di ogni genere di malattie. Chi vuole rischiare lo fa a suo danno e pericolo, ma i temerari sono veramente pochi e a scanso di equivoci cercano di limitare i danni con alcune precauzioni. Per esempio, dopo le abluzioni totali, almeno per due o tre giorni, non escono di casa per non esporsi all'aria malsana; osservano un assoluto riposo per permettere all'organismo di riprendersi dall'indebolimento, oppure fanno precedere i bagni da purghe e salassi. | << | < | > | >> |Pagina 689. L'acqua e i pericoli moraliMa se in certe stagioni acqua e medicina male si accordavano fra loro, l'uso dell'acqua per lavarsi poteva nascondere anche una serie di pericoli morali, come grandi figure della Chiesa, a cominciare da san Gerolamo, si erano preoccupati di rimarcare, sconsigliando, soprattutto le fanciulle, dal fare il bagno «perché avrebbero potuto vedere in tal modo il loro corpo nudo, o almeno di attendere l'oscurità o di chiudere le persiane». San Benedetto, da quanto sappiamo, era solito ripetere che «a coloro che stanno bene di salute, e specialmente ai giovani, il bagno si dovrà concedere assai di rado». Sant'Agnese morì a tredici anni senza essersi mai lavata, forse per non cancellare il crisma del battesimo, ma molto probabilmente anche per non incorrere in inutili tentazioni. Cristianesimo e sudiciume marceranno a braccetto, perché, almeno da san Gerolamo in poi, prevalse il principio che l'uomo battezzato non aveva più bisogno di nessun altro rito purificatore. Come scrive Ramazzini nella Diatriba, «la religione cristiana, che come è noto si preoccupa più della salute dell'anima che di quella del corpo, ha lasciato a poco a poco cadere in disuso i bagni». Se nei culti pagani l'acqua è intimamente legata alla fecondità femminile, il cristianesimo tende ad annullare questa valenza, esaltando la verginità femminile e sublimando la sterilità nel rifiuto del matrimonio terreno perché la donna possa divenire "sposa di Gesù'. Argomentazioni riprese dalla Controriforrna, quando ai penitenti si impose «una continua vigilanza e un allenamento prolungato volto a prevenire» peccati di desiderio, di compiacenza e di dilettazione venerea, anche se si trattava di semplici "atti interni della coscienza" e non di vere e proprie "azioni concretamente compiute". Anche un personaggio come Diderot, nel 1768, è comunque sollecito a intervenire sulla figlia proibendole ogni abluzione totale, nella convinzione che in questa maniera le si sarebbe evitata qualunque tentazione al vizio. Ancora nel 1860 le contadine dell'Alto Palatinato ritenevano che lavarsi le parti genitali fosse un peccato grave; nelle colline piemontesi, fino ai primi decenni del Novecento, fra le donne di campagna sopravviveva la convinzione che «lavarsi di sotto, nei punti delicati» fosse peccato. Quando poi non entravano in ballo i sensi di colpa della religione, subentravano preoccupazioni legate all'attività riproduttiva femminile: più in generale, infatti, e fino ad anni recenti, nelle campagne europee è sopravvissuta la radicata convinzione che l'igiene e il normale uso dell'acqua sulle parti genitali provocassero sterilità. | << | < | > | >> |Pagina 12914. Le paure del mareDalla fme del Settecento anche il mare diventa qualcosa di diverso da quello che era stato fino ad allora: un elemento ambivalente, «pieno di contrasti, [...] esaltato come fonte di vita e di alimento [...] ma sempre [...] anche definito spazio di morte». Ricco di un'ambiguità concettuale che il Medioevo cristiano ha rappresentato come campo di lotta tra Dio e Satana, il mare è stato per secoli, nell'immaginario collettivo, uno spazio che si sottrae alle leggi dell'uomo. Come tale, in grado di suscitare paure e suggestioni simboliche che richiamano la sciagura, il disordine, il «germe della vita e lo specchio della morte», «la fragilità della vita e la precatietà delle istituzioni umane. In proverbi del tipo, "Loda il mare e tienti a terra"; "Ammira il mare seduto sulla stufa"; "Se vuoi imparare a pregare vai per mare", si può scorgere «un riflesso di difesa da parte di civiltà, essenzialmente terrestri, che, d'altra parte, confermava l'eccezionalità di quelli che, malgrado tutto, si arrischiavano lontano dalle rive». Il mare fa paura quando è calmo, perché la bonaccia blocca le barche a vela anche per giorni e giorni e fa paura quando è agitato, perché di fronte e sopra di esso l'uomo si sente "piccolo e fragile". Le popolazioni costiere della Bretagna paragonavano il mare infuriato a un cavallo senza cavaliere, a un cavallo imbizzarrito che saltava fuori del recinto oppure a una giumenta scatenata. La tempesta non era quindi considerata, e vissuta, come un fenomeno naturale: si supponeva che all'origine della sua violenza vi fossero streghe e demoni. Del resto la mentalità collettiva ha spesso ravvisato un forte legame culturale tra mare e pazzia, tra mare e peccato. Nel primo caso è evidente il richiamo agli elementi di incontrollabilità che dominano sia la tempesta marina, sia colui che ha perso il lume della ragione; nel secondo si tende ad accostare la tempesta alla presenza a bordo delle barche di grandi peccatori e di cattivi cristiani, come spesso erano giudicati i marinai, su cui la divinità, attraverso la furia degli elementi, scaricava la propria collera. Il mare, dunque, «luogo della paura, della morte e della pazzia, abisso dove dimorano Satana, i demoni e i mostri». Dal mostro marino dalla «forcelluta coda» che atterrisce i delfini e gli altri pesci, genera tempeste «con gran busso e sommersione di navili», descritto da Leonardo da Vinci, alle gigantesche e aggressive piovre, che, ancora quattro secoli dopo, si materializzano in La mer di Michelet (1861), in I lavoratori del mare di Victor Hugo (1866) e in Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne (1869). Più in generale il mare, fino alle applicazioni dell'acciaio e del vapore alla tecnica navale moderna, è il luogo della sciagura per antonomasia: basti pensare che la marina inglese attesta, per il 1853, la perdita di 832 navi in seguito a naufragi. Di questi rischi, naturalmente, i più consapevoli erano proprio i naviganti, che, a pericolo scampato, affollavano i diversi santuari della costa per ringraziare la Madonna di Montenero a Livorno, la Madonna del Monte a Genova, la Madonna dell'Arco a Napoli, Sant'Antonino e la Madonna del Lauro a Sorrento, Nostra Signora di Bonaria a Cagliari. | << | < | > | >> |Pagina 14416. Il mare come modaAncora nel 1901, la città di Senigallia presenta il suo stabilimento balneare in questi termini: «Situato a pochi passi dal centro della città, in località amena ed abbellita da pubblici giardini, possiede un'ampia piattaforma, numerosi camerini per i bagni di mare, apparecchi di salvataggio e lungo la spiaggia capanne di tela per maggior comodità dei Bagnanti, camere per bagni caldi e freddi, a temperatura e pressioni diverse, di acqua salata e dolce, bagni a vapore, bagni elettrici, apparecchi completi per docciature ed altre operazioni idroterapiche, camera per respirare l'acqua di sale». Come si vede, un vero e proprio inno alle qualità curative dell'acqua marina (ma anche minerali) e una fiducia incondizionata nelle sue virtù, che l'ampliamento delle tratte ferroviarie dopo l'Unità d'Italia aprirà anche alla media e piccola borghesia. Una necessità che il sindaco di Cervia aveva ben in mente già nel 1873, quando con un manifesto invitava nella sua città non «i figli prediletti dalla fortuna, che [avevano] il beneficio di una rendita giornaliera dalle £. 20 in su», ma «il povero impiegatuccio», il «piccolo commerciante» e perfino gli operai: insomma «tutti i poveri diseredati dalla fortuna» che erano riusciti «a riunire un gruzzolo di £. 100, frutto dei continuati lavori per mandare ai bagni la malaticcia consorte, o qualche figliolo». Sempre, comunque, nel rispetto di alcuni principi basilari: la durata, contenuta in quindici minuti, secondo la nota sentenza di Mantegazza che «il bagno breve e fresco è eccitante; il bagno lungo e tiepido è deprimente»; i momenti: mai dopo pranzo e comunque almeno «un'ora dopo un cibo leggerissimo e tre ore dopo un pasto forte»; le modalità: «bagnare prima il capo e il petto, e non rimanere mai colle gambe nell'acqua fresca e il tronco non bagnato al sole». | << | < | > | >> |Pagina 150[...] Così se gli inglesi avevano inventato il mare, gli italiani (e i francesi) provvidero a pareggiare la partita accostando al mare l' invenzione del sole, sorretti in questa intuizione dalla più favorevole posizione di latitudine di Livorno, Rimini e Venezia rispetto alle cittadine costiere della Gran Bretagna.La tintarella, inizialmente riservata ai bambini (malati e non) dopo la grande guerra soppianta definitivamente la «pelle di luna» e i «lattei candori» che fino a quel momento avevano rigorosamente contraddistinto l'aspetto esteriore dei "bagnanti". Questi scoprono la vita di spiaggia al di là del trinomio fino ad allora imperante di respirare, passeggiare e, al massimo, bagnarsi. Le spiagge si animano di gente, di tende e pergolati e c'è chi è pronto a sostenere che la cosa più importante nella cura marina non è tanto l'acqua salsa, quanto «l'azione dei raggi solari». Naturalmente con gli inevitabili contrattempi: «Dopo le zanzare l'altro grande flagello delle vacanze era il temuto coup de soleil. Contro le scottature [i bambini] venivano unti con l'olio o, finché la scatola non era vuota, con la crema Nivea». |
| << | < | > | >> |RiferimentiAblaincourt, Bruhier d', Dissertations sur l'incertitude des signes de la mort et de l'abus des enterrements et embauments précipités, 1745 Aldobrandino da Siena, Régime du corps [Livres de santé], 1256 Alexandrian, S., Storia della letteratura erotica, Rusconi, Milano 1990 Aretino, P., I ragionamenti, Sanpietro, Bologna 1965 Ariès, P., L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 1980 Ariès, P., G. Duby, La vita privata. Dal Feudalesimo al Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1987 " , La vita privata. L'Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1988 " , La vita privata. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1988 Artusi, Pellegrino, Autobiografia, il Saggiatore, Milano 1993 Bachtin, M., L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1995 Baldini, E., Paura e "meraviglia" in Romagna. 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