Autore Barbara Spinelli
Titolo La sovranità assente
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Vele 100 , pag. 74, cop.fle., dim. 10,5x18x0,8 cm , Isbn 978-88-06-22423-3
LettoreRiccardo Terzi, 2015
Classe politica , storia: Europa












 

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Indice


VII       Introduzione


          La sovranità assente

  3  I.   Un futuro già scritto

 28  II.  I nemici dell'ordine nuovo

 50  III. Ventotene: ricomporre l'infranto


 

 

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Pagina VII

Introduzione


I tre testi, che propongo qui in una versione aggiornata, sono stati scritti prima che entrassi nella politica attiva, come parlamentare europea della lista L'Altra Europa con Tsipras. Sono il tentativo, molto parziale, di raccontare i motivi che mi hanno spinto a compiere questo passo, e ad abbandonare il ruolo di spettatore impegnato che era stato il mio per molti decenni.

Da quando la grande crisi aveva lambito l'Europa, avevamo di fronte qualcosa che era molto piú micidiale e sciagurato di una crisi. Al posto di un'Unione, un campo di rovine che non meritava piú nemmeno il nome di comunità. Al posto della solidarietà e delle difficoltà condivise, la selezione darwiniana del piú adatto, del piú sfrontato. Al posto dell'antico progetto disegnato nel Manifesto di Ventotene, una lotta fra Stati che riscoprivano i vantaggi dell'arroganza, forti delle loro prestazioni economiche, e Stati che venivano relegati in quella che d'un tratto, con il consenso di tutti, venne ribattezzata periferia dell'Europa. Periferia senza piú voce - anche quando fingeva di alzarla come l'Italia - e commissariata di fatto prima ancora che intervenissero le troike europee con i loro ukase-memorandum.

In questa periferia spiccava la Grecia, trattata come cavia da sottoporre alla sperimentazione di una bio-politica che è stata ed è scellerata, perché l'obbligo di ridurre il debito pubblico e tenere a posto i conti dello Stato ha prodotto una confusione perversa tra morale ed economia, e ha cristallizzato in Europa una vera e propria Neolingua, che non solo censura e distrugge i pareri diversi, ma corrompe l'ossatura stessa delle cose. Avere un debito equivaleva a macchiarsi di un reato - anzi di un peccato - ben piú stravolgente dello svuotamento di una Costituzione o di una democrazia (in lingua tedesca Schuld significa le due cose: «debito» e «colpa»). Proporre e tentare politiche alternative era bollato in anticipo come «azzardo morale», prendendo la parola in prestito dal lessico delle compagnie di assicurazione. Protestare contro l'austerità ti trasformava immediatamente in populista, nemico della democrazia e dell'Europa. Indire un referendum popolare sui memorandum delle troike era un delitto di lesa maestà: nell'ottobre 2011 ci provò l'allora primo ministro greco George Papandreou, e nel giro di pochi giorni fu prima zittito (dalla Commissione di Bruxelles, dai partner europei), poi fatto cadere. È guardando a queste rovine che alla fine del 2013 partecipai alla creazione di una lista elettorale che scegliesse come proprio emblema il nome di Alexis Tsipras, il leader della sinistra greca che aveva indispettito i potenti dell'Unione con la sua duplice battaglia: contro l'austerità, e al tempo stesso contro il tradimento del progetto di unificazione europea. A ben vedere sono andata al Parlamento europeo per cambiare le parole, prima ancora che i fatti.

Il Parlamento stesso in cui sono entrata è infatti vittima del Newspeak: continua a esser considerato un organo solo consultivo, un'ombra che cammina e non significa nulla, quando da tempo ha cessato di essere un'ombra. Nel corso degli ultimi decenni i parlamentari europei hanno acquisito poteri legislativi veri, anche se manca, al momento, un'autentica agorà europea che li faccia conoscere ai cittadini e dia loro il senso che lí si parla di loro e delle loro vite. Il 60-70 per cento delle leggi varate a Bruxelles si applica immediatamente negli Stati membri (in linguaggio comunitario non si chiamano leggi ma regolamenti e direttive) ed è oggi co-deciso dal Parlamento europeo e dal Consiglio, su un piano egualitario. I poteri dei nostri rappresentanti in Europa non sono sufficienti, certo. Ma esistono e sono andati estendendosi, da quando il Parlamento fu per la prima volta eletto a suffragio universale nel 1979. Chi lo nega ha lo spirito blasé, e giudica perduta la battaglia prima ancora di farla. Oppure sa di non dire il vero, e difende a tutti gli effetti una menzogna molto comoda per chi comanda.

Le domande poste in questo piccolo volume ci accompagneranno ancora per molti anni: come è stato possibile che l'Europa divenisse oggetto di una detestazione cosí diffusa? che se ne cominciasse a parlare come di un sogno da cui meglio sarebbe risvegliarsi, di un'utopia astratta e senza rapporto con la realtà? L'idea sostenuta nei tre testi è che l'Europa si trovi a un bivio, ma comportandosi come se non lo sapesse. Come se non sapesse che la storia è tragica. Che le civiltà e gli ordini nuovi non nascono per essere eterni, ma possono morire se non se ne ha cura.

Tronfiamente, e pavidamente, i governi tuonano contro gli eurocrati che starebbero distruggendo il sogno europeo. Ma è una scusa per nascondere le proprie responsabilità. La troika che per anni ha vessato la Grecia, Cipro, il Portogallo, l'Irlanda, e che è composta dalla Commissione, dalla Banca centrale europea, dal Fondo monetario internazionale, è una loro creazione. Cosí dicasi del Fiscal compact, frutto di un accordo intergovernativo che sarà sottoposto al controllo parlamentare europeo solo il giorno in cui entrerà nella legislazione comunitaria. Sono gli Stati ad aver deciso di rispondere alla crisi scoppiata nel 2007-2008 uccidendo la vocazione solidale dell'Unione, ignorando le ragioni per cui nacque (la lotta ai nazionalismi e alla povertà), opponendo i paesi forti del centro alle sue nuove «periferie».

È il governo italiano ad aver inserito nella Costituzione il pareggio di bilancio, una volta approvato il Patto finanziario. Le pressioni in tal senso sono state enormi, come testimoniato sia dal testo stesso del Patto (marzo 2012), sia dalla lettera inviata al governo Berlusconi da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, il 5 agosto 2011. Nel testo del Fiscal compact è scritto che le parti contraenti si impegnano ad applicare le regole pattuite «tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente - preferibilmente costituzionale - o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio». Nella lettera della Bce trasmessa sei mesi prima a Roma, viene giudicata «appropriata anche una riforma costituzionale che renda piú stringenti le regole di bilancio». In ambedue i casi l'ingiunzione lascia poco scampo, essendo le «disposizioni di natura permanente» assai simili, nella sostanza, a un vincolo costituzionale. Nonostante questo il Senato francese volle almeno salvare le forme, e prima ancora che il governo firmasse il Fiscal compact si rifiutò, il 24 gennaio 2012, di riscrivere la Costituzione. Non cosí l'Italia, dove alla Banca centrale venne illegittimamente concesso il diritto, esorbitante, di prescrivere manomissioni della Carta. Erano passati appena due giorni dalla lettera della Bce, e Mario Monti annunciava sul «Corriere della Sera» che l'Italia di Berlusconi, considerata semifallita, era già commissariata («Le decisioni principali sono prese da un "governo tecnico sopranazionale" e, si potrebbe aggiungere, "mercatista", con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York»). All'ingiunzione si poteva rispondere con un secco no, giocando sull'ambiguità di avverbi e aggettivi (preferibilmente, appropriata): la raccomandazione era esplicita, ma non presentata come conditio sine qua non. Alcuni sostengono che Monti poteva dire quel no. Ma poteva davvero, essendo proprio lui l'agente del commissariamento?

È colpa infine dei politici nazionali, se siamo tornati a essere il continente dove vige la balance of power dell'Ottocento e della prima metà del Novecento, ossia la lotta e l'equilibrio mutevole fra Stati che si fingono forti e Stati palesemente deboli. Il ritorno dei nazionalismi è l'evento principale di questi anni di crisi. Anche l'ordoliberalismo tedesco, diventato il dogma dei vertici europei (la convinzione che ognuno debba prima fare i propri «compiti a casa», e che il mercato sia in grado di riaggiustarsi con le proprie energie) è una delle tante forme che assume oggi il nazionalismo (vedi il terzo capitolo).

Su questi temi è tale e tanta la confusione che nessuno si meraviglia, nelle capitali dell'Unione, quando si alza in piedi un capo di governo e dichiara finita, in Europa, l'epoca delle democrazie liberali. Proprio questo è successo, il 26 luglio del 2014, quando Viktor Orbán ha pronunciato un discorso a Tusnádfürdó (Băile Tuşnad, in Romania). La tesi del premier ungherese è che la crisi finanziaria giunta in Europa nel 2008 comporterà cambiamenti simili a quelli sopravvenuti dopo la Prima guerra mondiale, la Seconda, e la caduta del muro di Berlino.

Una gara di efficienza e competitività è in corso oggi a livello mondiale, questa la visione di Orbán, e gli Stati che possono vincerla o che la stanno vincendo (Russia, Cina, India, Turchia, Singapore) non saranno necessariamente quelli liberali, e forse neanche quelli democratici. Ragion per cui

[...] vogliamo rompere con i principi e i metodi liberali di organizzazione sociale [...] Lo Stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno stato illiberale, uno Stato non-liberale. Esso non rifiuta i principi fondamentali del liberalismo, come la libertà [...] ma non fa di tale ideologia l'elemento centrale dell'organizzazione dello Stato.

È «sul lavoro e la nazione» che il nuovo mondo va edificato: «uno Stato può esser democratico senza esser liberale». E ancora: «Non credo sia impossibile edificare dentro l'Unione europea un nuovo Stato le cui fondamenta siano illiberali e nazionali. La nostra appartenenza all'Unione non lo esclude».

Il discorso di Orbán è in armonia con lo spirito dei tempi. Anche Matteo Renzi ha cominciato, subito dopo le elezioni europee del maggio 2014, a parlare di «partito della nazione». Partiti siffatti sono organi pigliatutto, dispositivi votati a mobilitare i popoli e a irreggimentarli come per una guerra. Sono comitati d'affari al servizio di quello che Luciano Gallino chiama «autoritarismo emergenziale». In permanenza lanciano il loro appello alle armi. La patria è in pericolo ed è giocoforza entrare nella post-democrazia, dove conteranno la sveltezza delle procedure e l'emarginazione delle opinioni contrarie. Dove la governabilità prevarrà sulla rappresentatività. Ma soprattutto: dove si delegheranno sovranità perché le cosiddette riforme strutturali siano attuate senza rimorsi né esitazioni. E quel che ha perentoriamente chiesto Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, il 7 agosto 2014. Non ha spiegato cosa siano queste riforme, perché ormai tutti lo sanno (all'Italia sono state spiegate sin dalla già citata lettera di Trichet e Draghi: tagli al welfare, abolizione della contrattazione salariale collettiva, riduzione significativa dei costi del pubblico impiego e se necessario degli stipendi, piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali oltre a privatizzazioni su larga scala, ignorando referendum cittadini come quello sull'acqua e i servizi pubblici locali). Draghi non ha precisato verso quale nuovo potere democraticamente legittimato debbano essere delegate le sovranità nazionali. La risposta l'aveva già data nel febbraio 2013: il nuovo sovrano è un «pilota automatico» che impone le riforme indipendentemente dalle vicissitudini elettorali per meglio rispondere al solo plebiscito legittimo, che è quello dei mercati e della finanza internazionale (vedi il capitolo primo).

Tutto questo con quale scopo? Per perpetuare una politica economica che è piú di una politica, piú di un modello. È diventata un dogma, una dottrina, perché tale è l'approdo delle decisioni politiche ed economiche, quando mostrano palesemente di non funzionare e di fallire. La convinzione iniziale resta, ma essendo infastidita dalla realtà sfocia in dichiarazioni di fede che non tollerano confutazioni, e continuano indisturbate a produrre danni. Guido Viale ha descritto bene le perversioni ragionieristiche di una cultura di governo «attenta fino allo spasimo (politico) a centellinare le risorse dedicate al lavoro e al benessere delle popolazioni per proteggere i grandi interessi finanziari che hanno scatenato la crisi e che continuano a beneficiarne»: una macchina che si nutre di guerre e genera guerre. È questa cultura di ragionieri ad aver «aperto una voragine tra l'ideale dell'Europa unita e la difesa, sempre piú debole, delle condizioni di vita della maggioranza dell'elettorato», nel nome di un modello di crescita e di competitività che serve il mercato e non i cittadini. Viale osserva come i vertici europei si susseguano inani, chini su quello che sembra il compito prioritario: occuparsi dei decimi di punto di sforamento del deficit da concedere ai governi di paesi ormai al collasso per via di vincoli imposti da debiti e trattati insostenibili che non vengono mai messi in discussione. È una riedizione - scrive - del «dibattito sul sesso degli angeli che impegnava i governanti di Bisanzio mentre i Turchi la stavano espugnando».

L'ottusa irresponsabilità con cui gli Stati dell'Unione guardano a quel che accade alle proprie frontiere - a Est la guerra in Ucraina, a Sud le ripetute guerre che Israele conduce per impedire la nascita di uno Stato palestinese, oltre all'espandersi di fughe di profughi e migranti verso le nostre coste (fughe interamente in mano alle mafie) - conferma sempre piú l'analogia con Bisanzio che discute di parametri e angeli mentre la città crolla.

Priva com'è di politica estera, l'Europa è condannata a essere serva di politiche che nulla hanno a che vedere con le sue aspirazioni. È uno scandalo (e un paradosso) che nella crisi ucraina sia solo la Russia di Putin a proporre come unica via d'uscita praticabile una federazione, capace di restituire alle minoranze russe la sicurezza che il nazionalismo di Kiev e i suoi squadroni neonazisti tolgono loro in maniera sempre piú radicale e violenta. È uno scandalo che sulla guerra di Gaza scatenata per l'ennesima volta dallo Stato d'Israele, nell'agosto 2014, l'Europa non abbia avuto nulla da dire, se non invocare tregue che lasciano immutata la condizione di prigionia in cui vivono gli abitanti della Striscia, e che banalizzano l'uccisione in massa di civili palestinesi. Stati etnicamente o religiosamente puri come quelli impersonati da Kiev e da Gerusalemme non dovrebbero avere spazio, nella visione politica che gli europei diedero a se stessi dopo il 1945, per fronteggiare e cambiare la lunga storia di sangue che avevano alle spalle.

Altre vie sono possibili. È possibile in politica estera cominciare a usare la testa per pensare, non solo per volgerla verso gli Stati Uniti aspettando quel che farà una potenza che non guida piú nulla perché in declino: tanto in declino che non le resta che l'inerzia, o la riesumazione del dominio esercitato sul vecchio continente durante la guerra fredda. In economia è possibile creare un reddito di cittadinanza universale e provare a ridefinire l'ossificato criterio del pil e della ricchezza nazionale, come chiede Mauro Gallegati nel suo ultimo libro. È possibile non relegare in secondo piano la questione del clima, come hanno invece fatto i nostri governanti illudendosi che il salvataggio della terra aspetterà paziente il suo turno mentre si affronta la crisi economica. Altri paesi sono piú avanti di noi: la natura come soggetto giuridico, e il concetto del buen vivir che echeggia il welfare europeo del dopoguerra, sono stati inseriti nelle Costituzioni dell'Ecuador e della Bolivia (vedi il capitolo primo).

È possibile anche che il Parlamento europeo esca dal suo sonno, e scriva finalmente la Costituzione che i cittadini europei non posseggono e a cui hanno diritto. Che metta l'economia e la moneta al servizio della politica e dei cittadini: non il contrario come avviene oggi. L'ha già fatto una volta, il 14 febbraio 1984, quando un'amplissima maggioranza di deputati votò in favore del progetto di Costituzione presentato da Altiero Spinelli. Per l'«uomo delle possibilità» di cui parlo nel primo testo le sconfitte non escludono le ripartenze. Certe volte sono addirittura la condizione per ricominciare in modo migliore una storia troppo piena di errori.

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