Autore György Spiró
Titolo Collezionista di primavera
EdizioneGuanda, Parma, 2012, Narratori della Fenice , pag. 298, cop.fle., dim. 14,3x22x2,5 cm , Isbn 978-88-6088-658-3
OriginaleTavaszi Tárlat [2010]
TraduttoreBruno Ventavoli
LettoreLuca Vita, 2014
Classe narrativa ungherese












 

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Pagina 7

Mica male farsi ricoverare in ospedale prima che scoppi una rivoluzione, starsene a letto mentre la rivoluzione viene repressa e tornare a casa per la convalescenza. Così il destino ti protegge da eventuali decisioni sbagliate nei giorni critici, anzi da qualsiasi decisione, e soprattutto evita che chi decide della vita degli altri prenda decisioni sbagliate sul tuo conto durante e dopo la rivoluzione.

L'eroe della nostra storia, l'ingegnere Gyula Fátray, quarantasei anni compiuti il due settembre, mercoledì mattina, il diciassette ottobre per essere precisi, si recò di buon'ora all'ospedale dopo un giorno di digiuno. Non gli diedero niente da mangiare, solo un po' da bere. E gli fecero tre bei clisteri, mattina, mezzogiorno e sera; l'indomani, il diciotto, il dottor Zoltán Kállai, cugino di sua moglie, lo operò.

I dolori della prima evacuazione dopo un intervento di emorroidi somigliano a quelli del parto, e dunque la pratica medica consiglia di trascorrere la notte in ospedale perché potrebbero insorgere complicazioni. Quattro giorni dopo l'operazione, il lunedì, Kállai venne a complimentarsi per la rapida guarigione e disse che l'indomani poteva tornare a casa.

Ma il mercoledì non era ancora tornato a casa, perché il pomeriggio prima era scoppiato il putiferio.

I malati erano finiti nelle cantine e i feriti dalla strada venivano portati direttamente là sotto. Dal punto di vista strategico, non si poteva dire che l'ospedale Rókus godesse di una posizione fortunata. Era stato costruito prima dei caseggiati residenziali di cinque, sei piani di via Rákóczi e svettava solitario con la sua ampia mole. Più d'una volta qualcuno aveva pensato di raderlo al suolo, ma alla fine era rimasto sempre in piedi. Come avevano fatto i progettisti alla fine del XVIII secolo a non immaginare che Pest potesse diventare teatro di una guerra? Erano uomini anche loro, come chi li aveva preceduti e chi sarebbe venuto dopo, avrebbero dovuto sapere come vanno le cose a questo mondo. Avrebbero dovuto ricordare che la riconquista di Buda cent'anni prima non era stata certo una scaramuccia senza spargimenti di sangue. Mezzo secolo dopo l'apertura dell'ospedale scoppiò la rivoluzione e la guerra di indipendenza dagli Asburgo. Dal monte Gellert la città, compreso il Rókus che allora si trovava alla periferia della vecchia Pest, si bombardava che era una meraviglia. L'edificio fu centrato da parecchi ordigni anche durante la Seconda guerra mondiale e proprio allora, per la prima volta, furono allestite le sale operatorie d'emergenza nei sotterranei. Finita la guerra, fu restaurata solo la grande cappella della facciata sventrata da una bomba, per i lavori completi mancavano i soldi. Undici anni dopo, il lungo muro davanti al Teatro nazionale era ancora crivellato di colpi.

Stavolta l'ospedale si trovò preso tra due fuochi, con gente che cercava appassionatamente di colpirlo sia dalle postazioni al capolinea del tram numero tredici, vicino al troncone arrugginito del ponte Erzsébet fatto saltare durante la guerra, sia dalla stazione Est. I feriti sostenevano che gli ungheresi si sparavano tra loro, ma la maggior parte dei malati e dei medici si rifiutava di crederci.

Ungheresi contro ungheresi? Ma non erano i russi che dovevano sparare agli ungheresi?

A cinquanta metri da qui, davanti al Teatro nazionale, prendono a calci la statua di Stalin! Ma certo! E come ci sarebbe arrivata da via György Dózsa, volando? Ma no, l'hanno buttata giù dal piedistallo e l'hanno rotta tutta! Ci sono pezzi dell'uomo d'acciaio da tutte le parti! Il naso di qua, un orecchio o un dito di là!

Incredibile!

Avevano sparato sul Teatro nazionale, dal viale circolare, ma i segni non erano visibili. Avevano sparato sulla sede del quotidiano del partito comunista, il «Szabad Nép», devastato la tipografia al primo piano e rubato i macchinari. L'ascensore a paternoster bloccato, cabine fracassate, rottami di legno ovunque sul pavimento.

Fuori crepitavano le armi da fuoco, gli scoppi e i boati facevano tremare i muri e il soffitto sulla testa dei malati. Nonostante il rigoroso divieto imposto dalla direzione dell'ospedale, gli infermieri e i pazienti più audaci salivano coraggiosamente al pianoterra e al primo piano e usavano le cuffie appese sopra le testiere dei letti per ascoltare Radio Kossuth, l'unica stazione ormai ricevibile, che all'improvviso si era ribattezzata Radio Kossuth Libera. Poi scendevano a riferire che il governo e il partito lanciavano ordini contraddittori e che andava in onda musica classica a ciclo continuo. Ogni tanto le trasmissioni si interrompevano, saltava la corrente, nelle cantine accendevano candele, lumi, lampade a petrolio, e si operava così.

Martedì sera Gyula Fátray si era appena seduto nel letto – riusciva ormai a stare seduto, un progresso non da poco – e stava cenando con le cuffie cromate di nero in testa, quando sentì un rumore di spari. Veniva da via Sándor Bródy, ma anche dalle cuffie. Lì per lì non volle credere alle proprie orecchie, poi ci credette e si arrabbiò da morire. Non avrebbe mai pensato di dover affrontare un'altra guerra in vita sua. Alcuni intorno a lui tremavano, altri gioivano. Lui sprofondò in un dubbio atroce. Insieme ad altri pazienti ormai sani cominciò a trasportare nei sotterranei malati gravi, letti, tavolini da notte, sgabelli. Lo sforzo fisico gli faceva bene, e trafficando su e giù per le scale era libero di non pensare.

Anche il dottor Kállai correva come un matto avanti e indietro, e ogni volta che gli passava accanto lo sgridava: «Gyuszi, smettila, ti viene un'emorragia!» e poi s'involava con le falde del camice che sventolavano come due ali bianche.

Il risultato di tutto quel gran agitarsi fu che martedì sera gli salì il febbrone. Mercoledì, il venticinque ottobre, il dottor Kállai appoggiò l'orecchio sulla schiena e sul torace del nostro eroe e diagnosticò una polmonite.

«Mio caro Gyuszika, tu non ti muovi da qua, ora non se ne parla nemmeno di tornare a casa! Devi stare a letto.»

«Ma starò a letto anche a casa.»

«In via Rákóczi e sul viale circolare sparano ovunque» tagliò corto il dottor Kállai. «Neanch'io posso tornare a casa. Appena metti fuori il naso ti prendi una raffica!»

Il dottor Kállai abitava a due passi, di fronte all'Uránia, ma non rientrava a casa da martedì sera. Si teneva in contatto con la moglie per telefono. È stupefacente che in una città in guerra i telefoni funzionino, ma a Pest funzionavano.

«Anikó non fa che lamentarsi» disse Kállai sarcastico, «è costretta a scendere le scale e andare a comprare il pane a piedi.»

Anikó era una donna egoista, limitata, convinta di essere molto bella e detestata dall'universo intero. Lei, comunque, la si poteva capire: aveva sposato un ricco chirurgo che ogni santo giorno diventava disgustosamente più ricco grazie ai privilegi della sua professione, e lei poteva coprire di gioielli ogni centimetro di pelle in vista. Perché Zoltán l'avesse sposata invece lo si capiva molto meno. Tra l'altro, prima delle nozze, le aveva dichiarato che non avrebbe mai smesso di dar la caccia alle gonnelle. Anikó, incredula e orgogliosa, gli aveva risposto con uno dei suoi sorrisi gelidi; poi, col passare del tempo, rendendosi conto che Zoltán manteneva la promessa, si era offesa. Non amava suo marito, diciamo pure che ormai lo odiava, però non voleva divorziare perché la bella vita contava più di qualunque altra cosa.

Zoltán le aveva anche detto che non voleva figli, gli erano bastate una moglie e due figlie finite nelle camere a gas. E Anikó non si era impuntata.

Il dottor Kállai lavorava diciotto ore al giorno senza fermarsi un istante, se non operava assisteva; il resto del tempo purtroppo se ne andava in discussioni e votazioni su chi ammettere e chi no nel comitato rivoluzionario. Alla fine il comitato risultò composto per metà da medici e per metà da lavoratori ospedalieri.

Nella cerchia ristretta di amici e parenti il dottor Kállai non aveva mai nascosto il proprio odio verso il regime. Ora, finalmente, poteva dire in pubblico che i comunisti dovevano essere cacciati dal potere. Era entrato nel partito comunista nel '45, ma col passare degli anni le riunioni gli erano piaciute sempre meno, e nutriva forti riserve anche sulla politica anti-intellettuale del partito; tuttavia s'era tenuto la tessera.

«Zoltán è un reazionario» sosteneva Kati, la moglie del nostro eroe, ogni volta che lo incontrava; poi, per stemperare la punta di biasimo di quell'affermazione, aggiungeva: «Già da bambino, era un piccolo reazionario».

Zoltán aveva definito la rivoluzione una svolta storica, ma l'entusiasmo scemò leggermente dopo le prime due sedute del comitato rivoluzionario. Il voto di un medico doveva valere come quello di una donna delle pulizie? Se non era un nuovo caso di dittatura del proletariato, come lo si poteva definire? Con quel sistema i medici potevano finire in minoranza! In ospedale!

La prima riunione fu dedicata alla scelta del nome: dovevano chiamarsi «comitato rivoluzionario» o «giunta rivoluzionaria»? Il dilemma si prese un'ora e mezzo, lui doveva operare d'urgenza ma tutti urlavano e sbraitavano. I sostenitori di «comitato» ne dicevano di tutti i colori agli altri, appena eletti come loro e insieme a loro nel nuovo organismo: traditori, sporchi «labanc», «giunta» calpestava gli ideali del 1848 e le tradizioni ungheresi. Era ripreso il dibattito sulla spinosa questione se curare tutti i feriti o solo gli ungheresi, e se tra questi esclusivamente gli insorti; benissimo, ma come si faceva a stabilire chi era un vero insorto? Bastavano due testimoni o serviva un certificato scritto? E chi lo scriveva? Chi poteva dimostrarlo? I più accaniti oppositori alla proposta di assistere i sovietici feriti, pronti a infrangere persino il giuramento di Ippocrate, erano gli stalinisti di ferro della settimana prima!

«Sai che ti dico» Si sfogò Zoltán, «bisognerebbe espatriare illegalmente. Andare in Palestina a mungere mucche nei kibbutz! Qui del comunismo non c'è un bel niente, le comuni vere sono là! Si zappa la terra e non si pensa più a niente! Qui non c'è speranza! E là i medici li apprezzano!»

Per lui Palestina voleva dire Israele, era abituato a chiamarla così, e gli era venuta la fissa di aver sbagliato a non emigrare nel '45.

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Il ritratto di Matyi l'avevano acquistato tanto tempo prima. Ora in vetrina si potevano ammirare nuovi bimbi ricciuti e ridenti.

In che paese cresceranno quei piccoli disgraziati?

In passato gli occidentali avevano deciso di lasciare ai sovietici quel pezzo d'Europa con gli ungheresi dentro, e non avevano potuto fare altro visto che da queste parti i sovietici erano i liberatori; perché avrebbero dovuto riprenderselo adesso? Avevano incendiato gli animi inutilmente, pensò il nostro eroe, e con quale risultato? Una guerra civile, altri morti, nuova miseria. Abbiamo buttato via decenni di sviluppo. Che quadro desolante.

Ma cosa pensavano di fare quelli che avevano ascoltato i provocatori? Com'era possibile perdere la testa fino a quel punto? Volevano ripristinare il sistema capitalista? Chi erano? Masse popolari che volevano ribellarsi al socialismo, combattere contro se stesse? Impossibile! Erano state traviate con l'inganno.

Le masse non potevano auspicare il ritorno allo sfruttamento del proletariato, perché vivevano nel primo regime della storia umana che non sfruttava il popolo.

Avevano aizzato i peggiori istinti. A un certo punto sembrava che per l'Occidente la cosa più importante fosse riprendersi quel pezzo d'Europa. E invece mentivano, non avevano alcuna intenzione di riprenderselo, volevano solo seminare il caos per nuocere al socialismo. Da una parte le loro radio continuavano a istigare, dall'altra escludevano ufficialmente un intervento armato! Anche loro temevano una guerra mondiale!

Fuggire da quel paese che nonostante i problemi e le difficoltà stava costruendo una società più umana? Scegliere un mondo colpevole di infinite porcherie? Aiutare gli occidentali, lavorare per chi abbraccia l'ideologia dello sfruttamento, dell'accaparramento, dell'egoismo, dell'individuo che si realizza schiacciando il suo prossimo? Lavorare per loro, contribuire ai loro profitti, tradire la Causa? Impossibile. Sarebbe stato come ammettere la sconfitta, oltretutto proprio nel momento in cui si poteva finalmente edificare il socialismo imparando dagli errori del passato. Kati voleva correre dal nemico, si era bevuta il cervello! Una come lei, che si era sempre distinta per il suo ferreo sostegno alla democrazia popolare!?

Si fermarono alla pasticceria L'isola, di fronte al Teatro dell'Armata popolare, ancora chiuso, per gustare una porzione di torta al cioccolato a testa. Sorseggiarono una tazza di caffè e si fecero incartare una fetta di dobostorta per il bambino, che era rimasto a casa affidato alle cure di zia Ancsa. Dopo aver confabulato un po' decisero di comprargli anche una pallina di castagne.

Festeggiarono così di essere ancora sani e salvi dopo tutti gli eventi che avevano passato. Se c'erano due che non avevano nulla da temere dalla repressione erano loro.

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Gyula, il suo nome, non era un nome ebraico ma ungherese, uno di quei nomi che si dà ai propri figli quando si vuole essere molto ungheresi; forse l'avevano scelto anche perché sapevano che significa «condottiero». Volevano a tutti i costi che diventasse un intellettuale. Ci erano riusciti.

I suoi genitori, ma anche quelli di Kati, si indignavano ogni volta che sentivano dire dalla propaganda che gli ebrei erano ricchi, e avevano ragione perché la maggioranza degli ebrei era povera in canna come loro. Odiavano gli ebrei ricchi più di quanto li odiassero i cristiani. Era odio puro, senza coscienza di classe, ma le ragioni di quel sentimento erano comprensibili.

Loro, e nel plurale includeva la moglie, nonostante le persecuzioni, si erano sempre e soltanto sentiti ungheresi. Nel '45 avrebbero potuto andarsene, ma l'idea non li aveva nemmeno sfiorati. Non covavano nei loro cuori desideri di vendetta, e questo lo diceva perché conosceva persone che di sentimenti del genere ne avevano avuti eccome, e avevano commesso gravi crimini contro il popolo ungherese e il socialismo. Provava un unico rimorso, che era felice di poter spiegare: un rimorso nei confronti dei poveri contadini e degli operai. Non perché avesse mai fatto qualcosa di grave contro uno di loro in particolare, ma semplicemente perché i suoi genitori l'avevano fatto studiare, gli avevano permesso di arrivare al diploma sotto quel terribile regime feudal-capitalista fondato sullo sfruttamento del proletariato. La laurea in realtà non gli era servita granché nella vita; non avendo mai adulato gli sfruttatori capitalisti, non essendosi venduto al sistema, non aveva mai potuto svolgere il proprio lavoro da ingegnere. Ai tempi di Horthy aveva fatto l'operaio specializzato fino alla fine, ma tra lui e gli operai veri, come dire, era rimasta una certa distanza, sì, lo ammetteva, e quel senso di estraneità nei loro confronti gli pesava, continuava a tormentarlo.

I suoi genitori erano poveri, ma senza coscienza di classe. E lui si sentiva in debito con loro. Si erano tolti il pane di bocca per farlo studiare. Quando frequentava l'università dormiva ancora su un divano, ai piedi del loro letto a due piazze. Di gente più povera certo ne esisteva, ma definirlo di origini piccolo borghesi tout court, be', era un po' una forzatura. Esistono differenze anche tra un piccolo borghese e l'altro, non di classe, ma di livello. Ci sono piccolo borghesi proletari e piccolo borghesi borghesi. Il marxismo doveva cogliere queste sfumature per compiere distinzioni più raffinate.

Insieme a sua moglie aveva partecipato al movimento clandestino fin dagli anni Trenta, si riunivano nella Casa tredici e nella Casa sette. Quelli che conosceva lui, i suoi amici, insomma, i compagni, vivevano in corridoi accanto ai gabinetti o in fondo ai cortili; la maggior parte non aveva stufe per riscaldarsi, luce elettrica, i più dormivano per terra. Lui era uno dei «Ragazzi del cinque», un gruppo famoso, come possono testimoniare i tanti uomini straordinari che ne avevano fatto parte. Dopo la liberazione aveva chiesto il riconoscimento della sua militanza nel partito clandestino, non era una pretesa campata in aria, ma non gli avevano ancora detto nulla; confidava che prima o poi, al momento giusto, í compagni l'avrebbero accettata. Se invece non l'accettavano andava bene lo stesso, avrebbe chinato la testa senza protestare; in fondo avevano respinto le richieste di compagni ben più importanti e coraggiosi di lui, e lui, sul piano dei sentimenti personali, effettivamente, non era mai riuscito a immedesimarsi con i veri poveri, lo ammetteva, felice di poterlo confessare al partito. La verità era che provava avversione nei loro confronti, non si era mai mescolato, mai amalgamato al cento per cento al loro ambiente e alle loro abitudini. Era come se il suo animo si fosse in un certo senso indurito, gli mancava la pazienza, non riusciva a essere indulgente verso i loro errori, ecco la verità. Anche gli operai erano guardinghi nei suoi confronti, la sua laurea ovviamente guastava parecchio i rapporti. Sua moglie lo definiva un incorreggibile piccolo borghese, naturalmente esagerava, eppure qualcosa di vero c'era. Non riusciva a spogliarsi per intero del suo individualismo, ma si stava impegnando per farlo. Era un problema che doveva risolvere dentro di sé, e l'avrebbe risolto.

Questa è la sostanza del discorso che fece al suo secondo bicchiere di fröccs. Il segretario finì la terza birra, soffiò il fumo fuori dalle narici in modo artificioso e guardò serio in avanti.

Il nostro eroe non riusciva a decifrare i pensieri che attraversavano la testa di quell'uomo che aveva scelto di chiamarsi Alréti, forse un ex alcolista disintossicato, forse caduto in disgrazia e spostato da una posizione di rango elevato a quella fabbrica di medie dimensioni. Forse un ex ufficiale, o un picchiatore dell'AVO. Magari un colonnello radiato dall'esercito per furto o malversazione. Il nostro eroe, come diceva sua moglie, era un'acqua cheta, ma non un incurabile ingenuo.

Forse il segretario del partito era uno che odiava i piccolo borghesi, i borghesi, i funzionari e i non funzionari. Forse detestava gli intellettuali, disprezzava gli ingegneri, gli insegnanti, gli agronomi, convinto che bisognasse tarpar loro le ali, anche se così arrecava danni enormi, perché nel mondo moderno non si poteva vivere senza intellettuali. Eppure sentiva il dovere di esporre sinceramente i propri pensieri, lo doveva a se stesso.

Finito il monologo provò un senso di sollievo, chiese un altro hosszúlépés, «ma stavolta un vero hosszúlépés».

Il segretario glielo portò con il collo e la schiena rigidi. Accese un'altra sigaretta, sorrise; il nostro eroe non riuscì a interpretare quel sorriso. Il segretario stava bevendo la quarta birra, che faceva dodici fiorini; il nostro eroe, il terzo fröccs, tre fiorini e sessanta, come un chilo di pane. Gli sarebbe piaciuto mettere qualcosa sotto i denti, quel vinello acidulo gli aveva allegato lo stomaco e l'esofago, ma il segretario non gli avrebbe mai permesso di pagare, e così decise di tenersi la fame.

Il segretario disse qualcosa riguardo a Benkó, incorreggibile borghese e chiacchierone, «insomma, caro Gyula, tu non gli piaci molto». Accennò a Kis Horváth, altro elemento che non sapeva tenere a freno la lingua e sparlava di tutti, «mi ha riferito cose negative anche su di te ma non l'ho ascoltato». Parlò male dei sindacalisti che adoravano tramare gli uni contro gli altri e non solo; «insomma, per dirla tutta, non sei molto popolare nella loro cerchia». L'unico su cui non disse nulla di brutto fu il nuovo direttore, non lo nominò nemmeno.

Non era piacevole che il segretario gli rivelasse informazioni confidenziali sui colleghi né che i colleghi avessero parlato di lui in modo sgradevole. Faticava a immaginare cosa potesse avergli riferito Kis Horváth, visto che non c'era proprio nulla da dire, anche se ormai in fabbrica manteneva le distanze e quando si incontravano lo salutava con freddezza; da quando era guarito l'aveva trattato cordialmente solo due volte, quando l'aveva riaccompagnato fin sotto casa, in via Balzac, raccontandogli pettegolezzi. Faticava anche a immaginare il fiero, caustico Benkó che spargeva maldicenze sul suo conto. Ma era troppo in buona fede per credere che il segretario del partito desse credito a quelle vigliaccate e riteneva che certe cose non avrebbe neanche dovuto ascoltarle.

I fröccs gli avevano fatto girare la testa. Chiamò un taxi alzando il braccio all'angolo di piazza Kolosy. Il segretario rimase sul marciapiede, con la schiena dritta, e sollevò il pugno chiuso per salutare l'auto che si allontanava.

Era successo quel che doveva succedere, aveva superato l'esame politico, e forse non era stato neppure così goffo come aveva pensato.

Il brutto sentore sarebbe arrivato l'indomani. Come se fosse finito in un letamaio nel quale affondava ogni giorno di più.

E si sarebbe sforzato di levarsi quell'incubo dalla testa.

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Masticò con lentezza per assaporare meglio i bocconi. Da quanto tempo non mangiava più salsiccia arrostita! Eppure non costava tanto. Perché non potevano servirla ogni tanto anche alla mensa della fabbrica? Sarebbe tornato per chiedere un insaccato. Un sanguinaccio. Kati non lo mangiava. In quel periodo non mangiava praticamente niente.

Doveva aspettare che Zoli tornasse a casa. Aveva detto che oggi non era di turno, sarebbe rientrato verso le cinque o le sei. Tanto valeva passare direttamente a prendere il certificato, risparmiando una telefonata e un viaggio. E nell'attesa andare un po' a zonzo.

Via Rákóczi era una vera arteria metropolitana, brulicava di pedoni su entrambi i lati, gente che entrava nei negozi, si incontrava per strada, sciami di studenti universitari, pensionati che chiacchieravano per ammazzare il tempo, donne con le carrozzine, tram al centro della carreggiata ogni quattro, cinque minuti. Indugiò accanto al banco, sorseggiò gli ultimi resti di soda, dopodiché uscì, attraversò la strada e tornò a piedi verso il Rókus. Passando davanti al cinema Uránia prese l'improvvisa decisione di entrare nel caffè lì accanto, l'Erzsike Presszó.

Chiese una tazza di caffè doppio, se la portò al tavolino accanto alla finestra, si sedette, guardò fuori dal vetro.

Gli sembrava di essere all'estero.

Ci era stato una sola volta in vita sua, da bambino, per visitare alcuni lontani parenti, a Košice, in Cecoslovacchia. L'unico ricordo di quel viaggio era la cripta di Rákóczi in un duomo alto, buio. Anche i parenti di Košice si erano dissolti nel nulla; non avendo più i genitori a cui chiedere notizie, si era a poco a poco scordato i nomi. Ma era difficile che dopo la guerra qualcuno si preoccupasse dei parenti lontani... purtroppo erano scomparsi anche quelli vicini... Košice si trovava all'estero, ma lì tutti parlavano ancora ungherese.

All'improvviso sentì entrare un gruppo di ragazzi e ragazze chiassosi, esuberanti, disinvolti, che si diressero verso quell'essere anonimo, rannicchiato tutto solo in un angolo del caffè vicino al vetro a sinistra dell'ingresso, con falcate sicure, parlando ad alta voce, incuranti della sua presenza. Occuparono tre tavoli, ma fu come se avessero riempito il locale. Si mise a osservarli. Ragazze carine, in abiti primaverili nonostante l'aria ancora fresca. Le guardò con insistenza e loro finsero di non sentirsi osservate. Era il loro spettacolo.

Le allieve della scuola di recitazione scese al caffè durante una pausa tra le lezioni disponevano finalmente di un vero spettatore. Un uomo di mezza età, tristanzuolo, con le spalle curve, tutt'altro che un bel fusto, ma erano comunque gli occhi di un pubblico. Accavallavano le gambe, si aggiustavano la gonna, appoggiavano il gomito sul tavolo per valorizzare il décolleté, ravvivavano i capelli con la mano, si lasciavano andare contro lo schienale, raddrizzavano le spalle, parlavano a voce alta con una tonalità più profonda del normale, si inumidivano le labbra con la punta della lingua, mentre il nostro eroe a poco a poco si scordò del perché fosse seduto in un caffè assolato durante il normale orario di lavoro, e subito dopo degli anni che aveva. Si alzò, andò al banco, chiese un secondo caffè doppio. Mentre aspettava continuò a seguire le ragazze con la coda dell'occhio. Una in particolare era terribilmente attraente nel suo semplice abito grembiule bordò: capelli neri di media lunghezza, un taglio insolito della bocca, più pronunciato agli angoli, la voce profonda, vellutata, che talvolta steccava in un acuto infantile. Nel gruppo c'erano ragazze più belle, ma nessuna era così attraente.

Gli servirono il caffè, tornò a sedersi al posto di prima.

Guardò fuori. Il tram sessantasette si era fermato al centro della strada davanti al locale. La piccola folla aspettava sulla stretta pedana di cemento, donne vecchie e giovani con bambini piccoli, passeggini. Starsene a ciondolare tutto il giorno anziché lavorare non era poi così terribile.

E non poteva finire male! Fra poco sarebbe andato a prendere il certificato, domani l'avrebbe presentato, e mille scuse da tutti.

Forse non le avrebbe accettate subito. Dovevano sospirarlo, il suo perdono. Un minimo di rivalsa. Voleva farsi pregare un po'.

Non tutto il male vien per nuocere; senza quel problema da risolvere non si sarebbe mai trovato davanti a quelle ragazze in un caffè al mattino di un giorno feriale, e non avrebbe potuto scoprire quello strano viso femminile così bello, e nemmeno ascoltare quella voce profonda.

Si voltò di nuovo verso le studentesse. Guardavano ammirate insieme ai colleghi maschi alcuni uomini più maturi fermi in piedi accanto al tavolo. Di sicuro insegnanti. Gli sembrava proprio di averli visti da qualche parte con quell'aria da attori. Il nostro eroe non stravedeva per il teatro, a suo tempo sopportava con immensa pena le serate semiclandestine di poesia, e peggio ancora gli spettacoli di euritmia; ma per fortuna, da quando Kati si era offesa con il gruppo degli attori perché non la invitavano mai, gli impegni a teatro si erano diradati.

Per le ragazze era un po' vecchiotto, avranno avuto vent'anni, lui quaranta e passa... Poteva essere loro padre... Be', come se fosse la prima volta che succedeva!

Il cuore gli martellava in petto. Meglio smetterla di bere caffè.

In effetti non era così facile passare ore in un caffè. Non perché qualcuno disturbasse il nostro eroe, anzi la gente quasi non lo considerava, ma per la lentezza con cui scorreva il tempo. Ovvio, era meglio star seduto lì piuttosto che in una cella, perché dopo un articolo del genere chiunque avrebbe tranquillamente potuto ritrovarsi in prigione. Ma anche il caffè poteva essere una prigione. Condannato dai propri guai personali, dal tempo da scialare vagando per la città.

Dopo che gli insegnanti se ne furono andati, i ragazzi si misero a discutere; il locale si riempì di altri clienti, in particolare sfaccendati di mezza età, forse piccoli imprenditori privati, e anziane signore con abiti eleganti. All'inizio il nostro eroe si era divertito a osservare il viavai dei passeggeri alla fermata, da ogni tram scendeva qualche persona interessante, ma a lungo andare si stancò.

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Salì vacillando al secondo piano.

Vali aprì la porta, lo baciò sulle guance, lui sorrise confuso e si scusò mortificato, aveva il difetto di arrivare sempre un po' in anticipo agli appuntamenti.

«Ma figurati, è qua, e ha già finito di mangiare» lo tranquillizzò Vali.

Prese i fiori, li annusò, andò a metterli in un vaso.

Avevano un bell'appartamento, grande, due stanze, salotto, camera per gli ospiti; nel salotto e in camera c'erano vetrine luccicanti di chincaglierie: soprammobili, porcellane, statuine – cani, gatti, uccelli, ballerine –, piatti ornamentali di Herend e Zsolnay, ai muri paesaggi e nature morte, sul divano una fodera costosa, sul parquet un tappeto persiano. La mamma di Vali lavorava a maglia seduta in poltrona accanto alla finestra, Lali Szász, che era seduto su un'altra poltrona, si alzò in piedi con uno sforzo.

«Ciao, Gyuszika» disse con sincera felicità. «Siediti vicino a me.»

Il nostro eroe baciò la mano all'anziana donna, prese la sottile sedia con lo schienale ampio accanto al tavolino da fumo e la sistemò davanti alla poltrona di Lali.

«Gradite del caffè?» domandò Vali.

«Certo, grazie.»

«Lo so, senza zucchero e senza panna.»

Chiese notizie di Pali. Era a Parigi, l'avevano preso all'Accademia di belle arti, con una borsa di studio. Ormai accoglievano ungheresi dappertutto, l'Occidente si sentiva in colpa. Pali era in difficoltà col francese perché in patria aveva studiato tedesco, ma presto l'avrebbe imparato, e comunque bisogna abituarsi, la vita dell'artista è dura da tutte le parti. Lettere non ne scriveva, tanto non sarebbero arrivate. Loro gli mandavano messaggi tramite Vienna, dicendogli di star su col morale, anche se per un po' doveva disegnare mobili o schizzare progetti per qualche architetto.

Non ebbe il coraggio di chiedere come facesse a sopportare l'idea di non poter rivedere il figlio. Vali portò il caffè e disse: «Non lo rivedremo più, ma sappiamo che almeno lui è in un bel posto».

Sorseggiarono il caffè. Lali Szász aveva il diabete, ma mise comunque un po' di zucchero. La luce che entrava dalla finestra rendeva più netti i tratti ammorbiditi del suo viso; così, sotto il sole, con i capelli bianchi sembrava un musicista zigano in pensione; sotto la pappagorgia il violino ci sarebbe stato bene.

Che bello sarebbe stato vivere almeno una volta in un appartamento dove entra il sole! Bastava che gliene assegnassero uno in una via più in là, magari vicino a Csicseri! Da quelle parti le case sono tutte luminose, anche al pianterreno! Sempre che non ti costruiscano qualcosa davanti.

«Ma torniamo a noi, caro Gyuszika, che problema c'è?» disse Lali Szász.

Il nostro eroe prese dalla tasca interna la pagina strap- pata dal «Magyar Ifjúság» della settimana precedente e ripiegata un paio di volte su se stessa; poi la aprì con cura.

«Immagino che tu non l'abbia letto.»

«Non leggo i giornali.»

Gli passò l'articolo.

Lali Szász tolse gli occhiali dalla vestaglia, li inforcò e si immerse nella lettura.

Leggeva con attenzione. Gli altri aspettarono in silenzio. Vali fumava una sigaretta sorseggiando il caffè; la nonna, chiamata così per via di Pali, sferruzzava; il nostro eroe rimase zitto con la schiena dritta. Lali Szász finì l'articolo, restituì il foglio, si tolse gli occhiali, li richiuse nell'astuccio e li infilò nella tasca interna.

«Non è un caso semplice» disse. «Nient'affatto semplice.»

Seguì un silenzio.

«Ho chiesto una rettifica» disse il nostro eroe, «ma non l'hanno pubblicata.»

«È un articolo su commissione» disse Lali Szász, «non pubblicheranno mai una rettifica.»

«Che cosa vuol dire?»

«Incaricano un giornalista di scrivere l'articolo, lasciano passare qualche giorno e poi vanno ad arrestare l'interessato. Il tempo di predisporre un capo d'accusa. L'hanno fatto pubblicare proprio per questo scopo.»

La spiegazione era così spaventosamente assurda che il nostro eroe non la sentì.

«Dovrei chiamare il giornalista? Il numero è sull'elenco... Abita in via Garay...»

«A cosa serve? Lui non c'entra...»

«Come sarebbe a dire? Ma se è stato lui a scrivere l'articolo!»

«Sono al soldo del regime. Ricevono ordini. Una traccia grezza su cui ricamare. E loro eseguono.»

«Ma è solo un cognome, non c'è neppure il nome!» esclamò il nostro eroe.

«Non sono in molti a chiamarsi così in Ungheria» spiegò Lali Szász. «Sei tu di sicuro. Ma anche se si scoprisse che è un altro sarebbe troppo tardi.»

«Tardi per cosa?»

«Se tu sei in galera non c'è bisogno di cercare un altro, quello vero. L'obiettivo è raggiunto, il piano ha funzionato.»

«Ma dai, non dire sciocchezze!»

«È la loro logica.»

«Come ho fatto a finire su una lista di cospiratori controrivoluzionari?»

«Chiunque può finirci.»

«Hai notato quanti cognomi strani, nobili...»

«Molti di origine slava» fece notare Lali Szász annuendo, «con qualche fiero e coraggioso cognome ungherese... Sulyánszky, Csaszkóczy, Désaknai, Szilványi, Bodányi, Mikófalvy, Máriaházy, Bánáty, Zsótér... E in mezzo un ebreo. È la combinazione di moda adesso.»

«Chi è l'ebreo?»

«Tu. Fátray. Si sente lontano un miglio che l'hai magiarizzato.»

«Sono l'unico in questo paese ad aver cambiato cognome?»

«Certo che no!»

«Anche tu... Szász non è magiarizzato?»

«Sì, ero Singer.»

«Allora anche tu potevi finire nell'elenco.»

«Certo. Chiunque.»

Rimase in silenzio.

«Hai detto che non si tratta di un errore.»

«E se anche fosse? Comunque loro non sbagliano mai.»

«Ma non conosco nessuno degli altri!»

«Non importa, vi faranno un processo collettivo.»

«Credi che ci sarà un processo?»

«Come potrebbe non esserci? Gli articoli escono solo quando il processo è già deciso.»

Il nostro eroe scosse la testa incredulo.

«Caro Gyuszika» spiegò Lali Szász paziente, «evidentemente il nostro amico giornalista fabbrica articoli in serie. Una penna di regime non scrive mai un pezzo a caso, se non altro per pigrizia. All'inizio di ogni settimana la redazione riceve una velina con le direttive essenziali, in modo che i giornalisti abbiano il tempo per infarcire gli articoli di particolari succulenti... Il pubblico ama soprattutto i testi lunghi che ripetono i concetti cinque volte, perché alla quarta, quinta volta anche il lettore più stupido comincia a capire... Mi pare di averlo già sentito quel nome... Sulyánszky... secondo me è stato condannato a settembre...»

Lali Szász chiuse gli occhi e appoggiò la testa allo schienale della poltrona. Deve avere in mente decine di dossier, pensò il nostro eroe con rispetto.

«Sì» disse Lali Szász, aprendo gli occhi, «mi pare che il giudice fosse Vida, in secondo grado ha ridotto le condanne di qualche anno... e in primo grado, mi pare, ci fosse il giudice Jónás... Non ci sono state condanne a morte neanche in primo grado, era primavera... perché il processo si è svolto dopo il discorso di Chruščëv... È stata una sorpresa che il giudice non abbia deciso per la forca... All'epoca qualcuno aveva detto che presto sarebbe arrivata la rivoluzione. Era settembre.»

«Sono ancora in prigione?»

«Lo escludo. A ottobre hanno liberato tutti i prigionieri. Sulyánszky e i suoi se ne saranno andati da un bel po'.»

«Io invece non me ne sono andato, come faccio a essere loro complice?»

«Per questo l'articolo è oscuro. Non cita date, niente di concreto... Occupare la torre radio di Lakihegy in caso di Terza guerra mondiale!... Nemmeno chi l'ha scritta può credere a una fesseria del genere. Naturalmente può essere usata come capo d'accusa. Le prove sono superflue, chiunque può essere collegato a un'altra persona, a una qualche organizzazione. Anche se non vi siete mai incontrati, e in un confronto diretto non vi riconoscereste, non importa, nelle piccole cellule clandestine è normale: nessuno conosce gli altri membri, a parte il contatto diretto. Dichiari di non conoscerlo? È peggio, può aggravare la condanna. Non hai fatto nulla? È la dimostrazione che sei un agente in sonno. Ti danno così tante botte che alla fine ammetti di conoscere chiunque, a un certo punto conosci tutti gli abitanti del pianeta. Ci mettono poco a farti confessare che Jenó Sulyánszky era il tuo migliore amico negli anni Trenta, anzi alle elementari, e già allora facevate le spie. Quelli, Gyuszika, sono professionisti. È raro che ti facciano fuori negli interrogatori, anche se talvolta capita, perché in ogni catena di montaggio c'è un pezzo di scarto, ma dopo il primo pugno, sei felice di poter vuotare il sacco, firmi qualunque cosa. Confesserai spontaneamente, anche cantando se vogliono, che l'ordine è arrivato da Radio Europa Libera; i messaggi dicevano dove procurarsi le armi e come aizzare la folla in via Sándor Bródy, perché l'essenziale è dimostrare che non c'è stata un'insurrezione popolare contro il regime, il popolo ungherese è stato ingannato da traditori manovrati dall'Occidente... Se dicessi che in quei giorni eri all'ospedale scoppierebbero a ridere, con una bella manganellata sulle reni.»

«Lo sai, vero, che sono stato operato in quel periodo?»

«No, non lo sapevo.»

«Sono stato ricoverato al Rókus dal diciassette ottobre all'otto novembre. Prima emorroidi, poi una polmonite.»

«Complimenti. E cosa puoi dimostrare?»

«Lali, ero davvero in un letto d'ospedale!»

«A chi vuoi che interessi? L'importante è che lo schema funzioni. Serviva un ufficiale horthysta o un suo discendente, un riformato, un cattolico e anche un ebreo. Se possibile, un ebreo comunista. In questo momento gli ebrei borghesi non sono nel mirino.»

«Ma come facevano a sapere che sono comunista ed ebreo?»

«Ordinano di scovare gli individui con i requisiti richiesti, il partito ha le liste.»

«Quali liste?»

«Quelle con i nomi indicati dagli informatori di fabbrica. Segnalano se sei clericale, ebreo, comunista... A quel punto basta scegliere a caso i nomi da collegare...»

«Hanno una lista di ebrei?»

«Certo. Hanno ritrovato e conservato gli elenchi delle croci frecciate, li hanno sistemati con l'aiuto dei migliori esperti in materia, le croci frecciate arrestate e i sionisti arrestati, e li aggiornano con i nuovi ebrei che nascono.»

«Nella lista c'è anche mio figlio Matyi?»

«Sicuramente.»

«Non ci posso credere! Qualcuno in fabbrica ha l'incarico di tenere una lista degli ebrei?»

«Certo, le persone sono schedate con tutti i parametri. Da voi c'è un segretario del partito? O è lui in persona a preparare i profili... oppure ha dato l'incarico a qualcuno... Hanno a disposizione la vecchia rete di informatori rákosisti e ne hanno costruita una nuova... Adesso tocca a Gábor Földes di Gyór...»

«Lo conosciamo da quando eravamo ragazzi, prima della guerra...»

«Non dirlo troppo forte. Temo che sarà giustiziato.»

«Ma come? Non ha fatto niente di male!»

«Lo so, anzi, ha salvato personalmente due AVO, ma il giorno dopo, mentre lui era assente, la folla ne ha linciati tre. Földes è stato arrestato insieme ad altri due che non c'entrano niente. Li giudicheranno responsabili anche della Repubblica di Gyór, quella farsa dell'indipendenza, con la quale non hanno davvero nulla a che vedere. Come nel tuo processo, anche lì il comunista ebreo, il riformato, il figlio di un horthysta... Non avevano nessun legame tra loro... Li appenderanno tutti e tre. Non ho accettato la loro causa, tanto non ci si può fare niente.»

Al nostro eroe tremavano le mani.

«Non dire così, Lali! Non siamo ai tempi di Rákosi!»

«Ah, no?»

«Processi costruiti a tavolino! Di nuovo i processi farsa!»

«Certo.»

«Sarebbe troppo spudorato!»

«Che problema c'è? Anzi, meglio. Il popolo deve sempre farsela un po' addosso. I processi servono. Bisogna diffondere il terrore; nessuno, nessuna classe sociale, nessuna sottocategoria può sentirsi del tutto al sicuro. Devono inventarsi qualche processo. Prima di passare a Imre Nagy.»

«Processano Imre Nagy?»

«Ovvio. E lo impiccheranno. È l'unico che fa paura a Kádár, Imre Nagy è un moscovita, ha alle spalle metà KGB, mentre Kádár non era un uomo di Mosca. Deve per forza farlo giustiziare. Non può sentirsi al sicuro finché Imre Nagy è vivo. Ma bisogna preparare l'atmosfera per il gran finale con un po' di finti colpevoli.»

«Perché proprio adesso che il potere si è consolidato? Quelli di marzo non tornano! Gli scioperi sono cessati!»

«Caro mio, hanno intenzione di restare quarant'anni. E per durare così a lungo devono partire con fondamenta belle solide.»

«Perché dici queste cose, Lali? Proprio tu, il partigiano, il comunista!»

«Sono fascisti, ridipinti di rosso. Ho commesso l'errore di credere in un ideale. Gli ideali non esistono, caro Gyuszika. C'è solo il fascismo: bianco, verde, marrone, rosso. Ormai sono vecchio e malandato. Non mi resta molto da vivere, ho deciso di difendere le vittime che quegli assassini vogliono giustiziare. Non posso fare molto, le sentenze seguono un copione già scritto, ma quel poco lo faccio. Quando ero giudice militare ho mandato a morte individui che non se lo meritavano. Sono anch'io un assassino. Pieno di rimorsi. È il mio modo di espiare.»

Vali rimase in silenzio. La nonna anche.

Lali Szász bofonchiò qualcosa.

«Bisogna evitare il processo» disse. «Se ti arrestano, sei spacciato. Non devono arrestarti. Giochiamo d'anticipo.»

«Lali, io tra il diciassette ottobre e l'otto novembre ero in un letto d'ospedale! Non potevo assaltare la Radio! Appena ho in mano quel benedetto certificato dell'ospedale posso dimostrare che tutte le accuse sono false! Ho messo in moto le cose per ottenere il certificato... Non è facile, si rifiutano di darmelo, ma vedrai che lo otterrò!»

«Non conta ciò che hai fatto o non hai fatto. A loro non importa.»

«Impossibile! Come sarebbe a dire che non importa?!»

«Gyuszika, non conta! Ma non l'hai ancora capito? Sono fascisti! Le tue prove non valgono un fico secco! Lascia perdere i certificati!»

«E allora che cosa devo fare?»

«Cerca di salvare la pelle! Scappa da questo paese! Prova dal confine jugoslavo! Lì è ancora possibile!»

«E lascio la mia famiglia?»

«Per la tua famiglia è meglio un padre e un marito morto? O uno vivo, anche se lontano?»

«Perché morto?»

«Perché ti impiccheranno, caro Gyuszika, è gente che impicca, quella! È già stabilito! Ti hanno onorevolmente avvertito prima! Ma non hai letto l'articolo?»

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