|
|
| << | < | > | >> |Indice7 Bobo chi? IO SONO BOBO 13 1. Bobo e la satira 23 2. Bobo, la prima volta su Linus 37 3. Bobo e la famiglia Staino 47 4. Le radici di Bobo 69 5. Le donne di Bobo 95 6. Nascita di una vignetta 102 7. Gli anni dell'Unità 108 8. Nattango e i suoi fratelli 133 9. Dalla scuola ai film: anche Bobo cambia 145 10. Tango e l'ultima visita di Paz 150 11 Staino e la sinistra parlamentare 165 12. Il futuro di Bobo |
| << | < | > | >> |Pagina 7BOBO è rimasto lo stesso, identico. Nel suo mondo tutto è uguale, le stanze e chi le frequenta. Ilaria è ancora una bambina con l'aria stralunata e i capelli lunghi, lui ha la stessa barba di quarant'anni fa, gli occhialetti tondi fuori moda, le maniche della camicia arrotolate e quell'aria paffuta che lo rende perfettamente compatibile con le tavolate da salsiccia alla griglia della festa dell'Unità, o con le serate casalinghe in poltrona a leggere un giornale o a guardare la Tv. BOBO è la sinistra di partito, un solo partito, il Pci, declinato in tutte le sigle successive: PDS, DS, PD. I suoi mugugni, i dubbi e le incertezze hanno attraversato la storia di quella sinistra, a volte anche un po' più a sinistra, adesso un po' dalla parte di Renzi. BOBO è di quelli che vorrebbero tanto identificarsi in una bandiera, riconoscersi nel guscio di un'ideologia indossata nella militanza quotidiana, ma è disallineato per natura, è di quelli che avvertono lo scricchiolio del disagio nel vedere le cose diverse da come le vede il coro. Magari di poco, di quel poco che basta ad avvertire lo scarto fra se stessi e il mondo. BOBO è un pensiero libero e inquieto, per questo è stato dalla parte di Togliatti, di Ingrao, di Berlinguer, di Occhetto, di D'Alema, di Veltroni, di Renzi, senza mai essere di Togliatti, di Ingrao, di Berlinguer, di Occhetto, di D'Alema, di Veltroni e di Renzi. Ha visto nel '68 la rivoluzione e un mondo migliore imminente, a un passo, ma poi ha dovuto fare i conti con tutto quello che è successo dopo, la strategia della tensione, le bombe sui treni, piazza Fontana, gli anni di piombo, la fine degli anni di piombo, la fine del comunismo e il crollo del muro di Berlino. Si è fatto mille domande dentro la sua casa sulle colline di Scandicci e non sempre ha trovato delle risposte. BOBO non ha un cognome, ha soltanto un nome da portare a spasso e anche questo significa un'identità diffusa, un qualcosa di comune a tanti. La sua visione del mondo e della politica lo ha condotto a mille spaesamenti, fughe da fermo e ritorni disciplinati e quasi sempre un po' sconfitti. BOBO è il ceto medio silenzioso a cui Sergio Staino un giorno ha dato voce – la sua –, corpo e famiglia – la sua. Da allora è entrato nelle nostre case, attraverso la finestra della prima pagina dell' Unità o dai fogli di Linus, o dal Venerdì o dall' Espresso, o da altre testate in cui è comparso questo personaggio che, come ha scritto un giorno lontano Antonio Tabucchi, è «un po' Keaton, un po' Chaplin». Un po' tutti noi, pieni di buone intenzioni che guardiamo dal basso chi sta in alto. Sergio Staino è Bobo, non si può raccontare Bobo se non attraverso la vita, gli incontri e le passioni del suo disegnatore. LAURA MONTANARI E FABIO GALATI FIRENZE, APRILE 2016 | << | < | > | >> |Pagina 13Parliamo di satira, cominciando dall'ultima ferita: l'attentato a Charlie Hebdo, a Parigi. Quando ho saputo della strage, ho pensato subito al mio amico Georges Wolinski e mi sono detto: «Meno male che lui non va mai in redazione». Poi via via arrivavano aggiornamenti sempre più drammatici, io stavo lì davanti alla TV a chiedermi cosa stesse succedendo, perché un gruppo di disegnatori fosse diventato all'improvviso un bersaglio del terrorismo. Chi era per loro uno come Wolinski? So chi era per me. I due grandi geni della satira francese contemporanea sono stati lui e Jean Marc Reiser. Avevano una visione aulica e totalizzante della satira. Wolinski lavorava per Charlie Hebdo più per affezione che per altro. Era in polemica con la satira ufficiale, tipo quella di Plantu su Le Monde, considerata poco provocatoria, per capirci. Poi è arrivata la notizia che c'era anche Wolinski fra le vittime. Già, lui e tutti gli altri erano morti. Sono rimasto fermo e in silenzio per un po' a pensare. L'obiettivo di Wolinski e degli altri non era la provocazione nei confronti dell'Islam, ma soltanto la voglia di ricordare l'intelligenza dell'illuminismo nei confronti delle religioni. La qualità di ciò che usciva su Charlie Hebdo lasciava abbastanza a desiderare. A me non sono mai piaciuti particolarmente, non trovo utile sparare sugli emblemi religiosi. La satira può colpire tutto, però deve avere un senso. Se colpire una divinità serve a un discorso che poi può minimamente far aprire uno spiraglio di intelligenza nelle persone, allora si fa. Ma non era il loro caso. Tu credi in Dio? Io sono ateo. Difendo la laicità dello Stato, abbiamo fatto molte lotte per togliere il crocifisso dalle scuole (e ancora non ci siamo riusciti del tutto). Ma ci sono tanti preti con cui sono andato e vado d'accordo. Ne posso citare uno: padre Ernesto Balducci della Badia Fiesolana, mi piaceva il suo pacifismo e l'attenzione agli ultimi. Nelle vignette mi capita di usare Dio, di solito lo faccio in maniera simpatica. Ancora di più Gesù. Non riesco però a capire come tanti amici riescano ad essere credenti. Certe volte vorrei esserlo anch'io, perché penso che se uno è credente davvero vive meglio alcuni problemi della vita, soprattutto la scomparsa di persone care. Ma io non riesco a farlo. Torniamo a Charlie Hebdo. Ecco, mi domando: il senso di attaccare Maometto, di disegnarlo in forma orrida, a cosa serve? Noi disegnatori dobbiamo aggredire l'ipocrisia, la satira ha questa funzione, colpire la falsa coscienza. La nostra forza è l'allusione. Mentre l'informazione storiografica e scientifica ha l'obbligo di riportare la verità provata, la satira può alludere malignamente. Una cosa che si intuisce e non si può provare, può essere sottolineata dalla satira. L'ipocrisia in senso religioso non la trovi invece nella divinità. Puoi trovarla in chi utilizza la religione per il proprio potere. L'anticlericalismo anarchico non se la prende con la divinità, ma con chi della divinità si fa scudo per mascherare i propri interessi. Pare di capire che la satira di Charlie Hebdo non ti piaccia. Mah..., è difficile e anche doloroso giudicare adesso, dopo quello che è successo. A me sembra che le vignette dei danesi – quelle pubblicate su Jyllands-Posten nel 2005 da Kurt Westergaard — come la maggior parte di quelle di Charlie Hebdo (non tutte, alcune erano molto belle) spesso si lasciassero andare a questa forma gratuita di offesa. L'offesa serve solo a gratificare chi già la pensa come te. Se fai una vignetta per dire «quanto è cattivo Berlusconi» fai contento chi è contro di lui, fai incazzare chi è per lui, ma la realtà dopo quella vignetta non si modifica di un millesimo di grammo. Se invece ci metti un'ironia intelligente, che fa capovolgere a qualcuno un pezzettino di giudizio, allora ha più senso il nostro mestiere. Non condivido la scelta di dare un premio di qualità, come hanno fatto in America, a Charlie Hebdo per via del sacrificio drammatico dei suoi redattori: certo, è diventato un caso emblematico, ma non per questo è un bel giornale. Lo difenderemo perché, seguendo Voltaire, difenderemo sempre la possibilità di esprimere le proprie opinioni, ma da lì a premiarlo per la qualità ce ne corre. Tanto che oggi la rivista è in crisi, e si vede. Anche se ricordo qualche vignetta memorabile, come quella che pubblicarono quando il pontefice Benedetto XVI lasciò. In prima pagina c'era uno splendido disegno di Ratzinger che abbracciava una guardia svizzera e se la portava via insieme alle valigie dicendo: «Finalmente liberi». Ma secondo te perché li hanno colpiti? Prima di tutto perché i terroristi sono dei vigliacchi e pensavano, abbastanza a ragione, che quelli di Charlie Hebdo fossero indifesi. Lo abbiamo visto anche negli attentati successivi, quelli del 13 novembre 2015 a Parigi e poi a Bruxelles nel marzo successivo: chi hanno colpito? Dei ragazzi che erano a un concerto, della gente che aspettava di cenare nei ristoranti, altri che camminavano per la strada, i passeggeri della metropolitana, i viaggiatori che si trovavano in un aeroporto... persone che non potevano difendersi. Possono aver colpito Charlie Hebdo sperando che le offese satiriche servissero per giustificare quell'attacco. Come ha detto il Papa in una delle sue peggiori performance: «Se uno mi offende la madre gli do un pugno». Troppo semplicistico questo modo di rispondere, una professione di violenza non degna del Papa. Quelli di Charlie Hebdo si sono trovati all'improvviso a rappresentare, forse loro malgrado, l'intelligenza presente nell'Occidente. Allora la satira deve avere dei limiti? No, non ci sono limiti per la satira. Chi pone limiti al romanzo o alla poesia? Vivono di emozioni e di sentimenti. Per la satira è la stessa cosa: racconta le cose magari in forma grottesca, non rancorosa, tenta di farti ridere. Non puoi mettere dei limiti. Il limite dipende da dove devi andare: se inserisci il brano di un romanzo pornografico dentro un libro per le scuole medie, probabilmente qualche problema te lo crei. Se lo pubblichi con una qualsiasi casa editrice in cui sia chiaro che è un romanzo pornografico e uno va e se lo compra, qual è il problema? Il disegnatore ha tutto il diritto di esprimere l'idea, l'emozione che sta vivendo, e lo fa. Il limite è in chi lo diffonde, e come lo diffonde. Se tu hai un piccolo giornale come Charlie Hebdo, che si rivolge a un gruppo specifico di lettori, interessati a quel tipo di espressione, non c'è nessun problema. È diverso, ad esempio, se un rappresentante dello Stato, è successo con Calderoli, prende la maglietta con la vignetta realizzata dai danesi su Maometto e se la mette per andare in televisione: allora diventa la sfida di un rappresentante dell'Italia nei confronti dell'ideologia religiosa di un popolo. Dopo aver visto milioni di persone in piazza per Charlie Hebdo cosa hai pensato? Il corteo contro il terrorismo è stato emozionante, bellissimo. Una manifestazione di popolo, non tanto in difesa della qualità della rivista, quanto in difesa della libertà di espressione. Se si colpisce il più debole è per dare una lezione a tutti. Quindi secondo te l'unico limite per la satira è dato dal lettore che decide se leggere o meno? Certo. È un fatto soggettivo di libertà individuale, no? | << | < | > | >> |Pagina 31Dal punto di vista grafico, qual era il retroterra di Bobo?Sono arrivato a pubblicare le mie vignette in età abbastanza avanzata, avevo trentanove anni. Per una vita avevo letto fumetti e molta satira. Avevo provato a fare vignette anche per i marxisti-leninisti quando ero un militante. Non era facile perché nella vignetta devi saltare dei passaggi logici, non puoi essere didascalico. Prendiamo, per esempio, un esponente politico noto per avere posizioni molto conservatrici sulla famiglia e sul matrimonio. Si scopre che nella vita privata si comporta in maniera diversa. Nella vignetta devi arrivare al punto, non spiegandola, ma fornendo una conclusione che sia comprensibile solo perché si riallaccia a elementi noti collettivamente e che non devi essere costretto a ricordare. Com'erano le tue vignette per i marxisti-leninisti? Per loro ogni cosa doveva rispondere alla rappresentazione emblematica che ne dava il partito. L'operaio doveva avere sempre il casco, essere un bel ragazzo fiero. Invece il capitalista doveva essere rappresentato come una figura ingobbita, losca e debole. Una volta, quando ci fu l'intervento cubano in Angola, noi marxisti-leninisti lo criticammo molto perché la giudicammo un'interferenza per conto dell'URSS. Allora io avevo disegnato Fidel Castro nella giungla con un machete che procedeva aprendo un varco da cui passavano i carri armati sovietici. Fatta questa vignetta, molto didascalica, che poteva far ridere solo chi era marxista-leninista, loro mi dissero: «Eh no, ma i trotzkisti dove sono? Devi farli in forma di scimmie sull'albero che applaudono». E io allora gli misi i trotzkisti. Era difficile, molto difficile... Io d'altra parte ho sempre disegnato. Ma questo, insieme alla barba, era uno dei contrasti insoluti con i marxisti-leninisti. La barba? Come faceva a diventare un problema politico? Secondo le direttive che venivano dalla Cina e dall'Albania, il vero compagno non doveva avere la barba. Io invece l'ho sempre portata. In Albania c'erano cartelloni enormi che indicavano quali erano le fattezze del piccolo borghese controrivoluzionario: era un giovane con i capelli lunghi, le scarpe con i tacchi, i jeans a zampa d'elefante, la barba, un sassofono in una mano e la pistola nell'altra. Esclusa la pistola, era il ritratto di un qualsiasi militante nordeuropeo dei marxisti-leninisti. Alla frontiera avevano messo un soldato sarto e un soldato barbiere per ripulire le delegazioni che arrivavano soprattutto dall'America e dal Nord Europa. I militanti entravano in una baracca e uscivano tosati, con i jeans non più a zampa di elefante, le ragazze con le minigonne allungate. L'altro motivo di contrasto era il disegno. Durante le riunioni non riuscivo a prendere appunti. Ci provavo, poi iniziavo a disegnare e loro se la prendevano a morte. Mi ricordo che ci fu un congresso in cui volevano escludermi, ma la base mi votò lo stesso. E allora il segretario mi disse: «Va bene, sei nel comitato provinciale, ma da questo momento basta disegni!». Certo Linus era un'altra cosa. Sì, a me piaceva molto. Poi era esploso il fenomeno Giorgio Forattini, che aveva portato la satira nei giornali quotidiani, una novità per gli anni Settanta. In certi periodi ricordo che aspettavamo La Repubblica la mattina proprio per leggere la vignetta di Forattini, che è il massimo che può capitare a un disegnatore politico. Lo stesso succedeva per le copertine dell' Espresso di Tullio Pericoli ed Emanuele Pirella. Sono quei momenti magici in cui l'elemento satirico diventa rappresentativo di un movimento di massa molto largo. Oggi sarebbe impensabile, mancando una mobilitazione collettiva di quel tipo. I grossi movimenti populisti invece non amano la satira, basano la loro fortuna sulla cattiveria, sull'incazzatura, sulla paura. Basta pensare a Beppe Grillo. Era un grande attore satirico, è diventato l'ombra di se stesso. È un cattivo maestro che recita la sua parte e incattivisce chiunque gli si avvicini. La satira non può piacere a questa gente, perché la satira è leggerezza, è intelligenza, è creatività, è autoironia, fa autocritica. Se vuoi fare grande satira devi innanzitutto essere ironico verso te stesso, non puoi distruggere l'enfasi immaginativa del tuo avversario se prima non distruggi la tua. Il mio Bobo ha fatto questo percorso qui. Ma credo che tutti gli autori satirici più dialettici, non di propaganda, seguano questa strada. La propaganda è più facile. La bellezza dei nostri Ellekappa, Bucchi, Vincino, Altan è legata al fatto che la maggior parte delle volte che li leggi, hai un pezzettino di sguardo, di ragionamento, di riflessione che non avevi prima. Quindi, appena sono arrivato a pubblicare su Linus, il primo desiderio era di conoscere tutti gli autori che avevo letto negli anni precedenti e che avevo amato. Crepax lo conobbi il giorno stesso in cui mi presentai a Del Buono. Gli altri sono andato a cercarli uno per uno. Altan era al Lucca Comics con la bambina, la Chicca, per cui aveva cominciato a disegnare la Pimpa. Con lui ci siamo trovati subito in sintonia. Poi Lunari, Chiappori, Vincino. Tutti avevano visto le prime strisce di Bobo e tutti mi accolsero in modo molto fraterno. Prima che te lo facesse notare Del Buono, tu avevi capito che mancava a sinistra qualcuno che parlasse delle perplessità dei militanti? No, assolutamente. Mi sono messo a disegnare Bobo con lo spirito di chi dice addio alla politica. E non mi sono reso conto che invece cominciavo a fare politica. Fino ad allora non avevo fatto politica, ma propaganda sterile e astratta. Nel momento in cui raccontavo i drammi personali, le contraddizioni, l'educazione della bambina, la politica che credevo di aver buttato fuori dalla porta mi rientrava dalla finestra. La vera politica era quella e tutti lo hanno colto. Hanno visto Bobo come il vero militante, mentre io non mi sentivo tale. È diventata l'autocritica di una generazione. Stavo aprendo delle porte totalmente nuove. Era la prima volta in Italia che si raccontavano le vicende politiche non con i personaggi del Palazzo, ma tramite una famigliola qualunque. Tutto è stato casuale, ho seguito l'istinto, senza riflettere. Sono stato fortunatissimo. Lasciati i marxisti-leninisti ti sei ritrovato a impersonare il militante del PCI preso tra passioni, dubbi e critiche. Diciamo che mi hanno iscritto d'ufficio. Basti pensare che cosa avvenne nei primi mesi in cui pubblicavo Bobo. Era il 1980 e avevo fatto una striscia dedicata a Gustavo Selva, che sul GR2 faceva il suo editoriale, di taglio fortemente anticomunista. Si vedono Bobo e Bibi in cucina, dalla radio esce una musichetta, poi cominciano a uscire neve e vento, cavalli di Frisia, bambini che piangono sbranati dai cosacchi. Tutto l'armamentario della Guerra Fredda. Alla fine si vede la cucina completamente gelata e la radio che dice: «Abbiamo trasmesso l'editoriale di Gustavo Selva». Qualche giorno dopo eravamo in giro per Scandicci e Ilaria mi fa: «Guarda babbo, quelli siamo noi». Il PCI aveva riprodotto tutta la striscia su Gustavo Selva su alcuni manifesti che chiedevano alla RAI un'informazione corretta. Io ho pensato: «Che stronzi, non mi hanno chiesto niente, come si fa? Sono disegni miei». Mi arrivò a casa un rotolo di questi manifesti con una lettera di Fabio Mussi, allora responsabile di stampa e propaganda, che diceva: «Caro Staino, scusaci se non ti abbiamo chiesto il permesso a causa dei tempi strettissimi. Comunque sappiamo che sei un nostro iscritto, quindi sarai sicuramente d'accordo». E io non ero per nulla iscritto al PCI, ma loro mi consideravano automaticamente tale. | << | < | |