Autore Corrado Stajano
Titolo Sconfitti
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2021, La Cultura 1506 , pag. 216, cop.fle., dim. 14,5x21,3x1,7 cm , Isbn 978-88-428-3050-4
LettoreLuca Vita, 2021
Classe storia sociale , storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 2020












 

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Indice


        PRIMA PARTE

Chissà chi è la donna alta, secca...    13
Francesco                               16
Sbandieratori                           18
Al soggiorno obbligato                  20
Terra desolata                          24
Mafie                                   26

Il Paese dei corrotti                   29
Passato e presente                      34
Non è la guerra                         38
La movida sognata                       42
Una nuova ondata                        45
La coda del passato                     48


        SECONDA PARTE

Pacem in terris                         51
    L'attendente e il bambino           53
    Serena letizia                      57
    Nostos                              59

Nuto                                    63
    Il giuramento                       65
    I compagni indimenticati            69
    Partigiano                          71
    Il venditore di ferro               73

La chitarra della memoria               77
    Quell'estate ribelle                79
    La canzone nel cuore                84
    Paura della libertà                 86

L'Italia dei preti                      89
    Gli arditi della fede               91
    Tonache nere                        95

Il boom                                 99
    Il mosquito                        101
    La Mina                            107
    Albero degli zoccoli, addio        110
    I padroncini                       114
    Il miracolo in frantumi            118

Piazza Fontana                         121
    La bomba                           123
    Gli operai della libertà           126
    La notte di Pinelli                128
    Il silenzio di Stato               136

Morte di un generale                   139
    La gelida Palermo                  141
    Requiem                            145
    Andreotti sbiancato                149
    Una città di sangue                152
    Cosa Nostra. Con chi?              154
    Sagunto                            157

Falcone                                159
    Il pentolone della mafia           161
    Il maxiprocesso                    166
    Il trionfo della morte             170
    L'angelo vendicatore               172

Lo statista                            175
    La noia del potere                 177
    Affari di giustizia                184
    Povera dolce terra latina          186


        TERZA PARTE

La fossa dei serpenti                  191
    Una stagione all'inferno           193
Finisterre                             201
    La bottiglia della speranza        203


Note                                   207


 

 

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Pagina 13

Chissà chi è la donna alta, secca, con indosso una tunica nera lunga fino ai piedi che cammina a passi cadenzati sotto l'ombrello protettore di un antico tasso. Ha il viso bianco come fosse impastato di calce, di biacca, di gesso o soltanto cosparso di latte, tiene la testa ritta, gli occhi fissi dinanzi a sé, trascina un carretto di legno, vuoto. Un tragico mimo, un fantasma.

Dalla parte della basilica di Santa Maria delle Grazie, poco lontana, si sente la sirena di un'ambulanza che si sovrappone a uno stordimento di campane. La piazzetta e le vie tutt'intorno sono deserte, dai balconi e dagli abbaini spiovono i glicini di primavera. Gli ippocastani, sull'angolo di via Fratelli Ruffini, con i ciuffetti di fiori bianchi, sembrano sentinelle di guardia a una caserma abbandonata. È quasi buio, il semaforo di via Boccaccio assomiglia a un automa diligente, non c'è nessuno in attesa davanti al suo tran tran colorato. Nella farmacia sull'angolo, segnata solo da un filo di luce, si vede qualche cliente entrare circospetto, uno alla volta, imbacuccato, un cappuccio, la mascherina fin sotto gli occhi legata agli orecchi, i guanti di lattice bianco. Potrebbe essere un palombaro, il sub di un mar morto, il mostro di un teatro dei pupi.

[...]

Dov'è nato il virus? Da dove minaccia la terra? Dall'irata candida luna, su cui l'uomo mise piede nel 1969 violandone la vergine crosta? Dal cielo reso impuro dallo smog invisibile, una cappa? Dalle polveri del PM10 - particelle microscopiche che devastano i polmoni -, dal sangue marcio, dall'acqua putrida delle fosse, dalle lacrime del mondo offeso?

Una nuvola nera ha ricoperto la Val Padana, gli Appennini, le Ande, monti, pianure e città di tutti i continenti, gonfiati dalla speculazione edilizia nei posti dove millenni fa i personaggi virgiliani modulavano sul flauto i loro dolci canti all'ombra dei frondosi faggi. O, come scrissero poeti di secoli lontani, è stata la furia di uno Zeus vendicatore a smuovere le briglie del suo carro, a frustare i cavalli per punire l'umanità corrotta?

Ma sono ben reali, orrore e dolore, le colonne di camion mimetici coi soldati al volante che trasportano bare in cimiteri sconosciuti, il rombo della morte.

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Pagina 18

Sbandieratori


Quando si seppe del virus, gli italiani, molti di loro, almeno, giudicarono quel che accadeva usando il linguaggio dell'antica retorica nazionale. Esposero chissà perché le bandiere tricolori sui balconi e alle finestre, cantarono con serena letizia le canzoni patrie. Come mai spuntava la parola patria, misconosciuta, spesso tradita, salvata dalle eterne minoranze?

«Andrà tutto bene»: lo slogan americano aveva varcato l'oceano. Ma, da un giorno all'altro, tutto mutò e l'intero Paese divenne «zona rossa». Chiudevano gli asili, le scuole, le università, gli uffici. I negozi calavano le saracinesche, come i ristoranti, i bar, i cinema, i teatri, i musei, le discoteche, gli stadi, i luoghi del lavoro, del diletto e dell'incontro. Era proibito celebrare la messa e anche i funerali. Resistevano le botteghe di alimentari, i supermercati, le farmacie, le edicole di giornali.

Le Regioni alzavano muraglie non soltanto metaforiche. Gli obblighi - le distanze, le mascherine che hanno tolto mezza faccia a uomini e donne che spesso l'avevano già perduta, i disinfettanti - nell'assenza di conoscenze scientifiche su un morbo misterioso prosperavano. Spesso, nella medesima giornata, si aggiungevano nuovi ordini, del tutto diversi tra loro. Le bandiere che già il primo giorno sarebbe stato preferibile issare a mezz'asta furono ammainate, i canti tacquero. (Le sparute bandiere rimaste alle finestre, forse dimenticate, sembravano avere la funzione di ex voto. Un amuleto, un cornetto, un curniciello contro il malocchio.)

Si cominciò, non subito, a comprendere che il contagio pesava sul mondo e la parola pandemia divenne di uso comune, come le parole focolaio, curva epidemica, terapia intensiva, immunità di gregge, tampone - divenuto, quest'ultimo, la pietra filosofale, introvabile, parcamente usato, scomparso chissà dove a causa dei traffici truffaldini nati subito all'apparire del virus - essenziali per tentar di capire l'esistenza e la violenza del male.

Si scoprirono e si riscoprirono, moltiplicate, le vecchie-nuove professioni sconosciute o dimenticate, quelle dei virologi, degli epidemiologi, degli immunologi, degli pneumologi, degli infettivologi. Dalle loro voci reboanti, chiocce, autorevoli, sicure, poteva dipendere il tuo destino. Si capiva, alle innumerevoli conferenze stampa tv dove i più non riuscivano a nascondere il piacere di mostrarsi, che quegli scienziati non conoscevano quel che stava accadendo. Il virus era un mistero, l'uno diceva il contrario dell'altro, non aiutavano a capire, a spiegare l'essenza del cancro penetrato nel cuore del mondo. Quali erano i modi per difendersi, quali le possibilità di trovare un vaccino salvatore alla cui scoperta stavano lavorando scienziati, laboratori e industrie farmaceutiche di ogni continente in concorrenza tra loro? Il destino dell'umanità era ancorato a quella ricerca.

A furia di puntare nevroticamente gli occhi sullo schermo televisivo, a vedere e a rivedere ospedali, ambulatori, alambicchi, siringhe, barelle, camici verdi, bianchi e celesti di medici e di infermieri che si prodigavano indefessi, si finiva col correre il rischio di perdere il senso del contagio e del suo dramma universale e di restare appiccicati alla piccola quotidianità senza futuro.

Come ha scritto David Grossman: «È più grande di noi, l'epidemia, e in un certo senso non riusciamo a concepirla. È più forte di qualsiasi nemico in carne e ossa che abbiamo mai affrontato, di qualsiasi supereroe che abbiamo mai immaginato. [...] C'è un che di minaccioso nella mancanza di volto di questa epidemia, nella sua aggressiva invisibilità. Senza voler aspirare in sé tutto il nostro essere, che all'improvviso ci appare fragile e indifeso».

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Pagina 20

Al soggiorno obbligato


Il tempo, con il contagio che bussa alla porta, scorre misteriosamente in fretta. Chiusi in casa, al «soggiorno obbligato», si ritrovano oggetti smarriti o perduti nella memoria. Sembrano quadri di Giorgio Morandi, bottiglie colorate, una vecchia bilancia coi due piatti di ottone, un cane di legno - un giocattolo - su un termosifone, due scatoloni oblunghi, forse comprati da un vecchio droghiere, con una scritta a grossi caratteri, «zucchero velo», «amido azzurro», una zuppiera bianca e rosa, un'ampolla dorata dell'olio che avrà più di mezzo secolo, un lume a petrolio color blu, una caffettiera color tortora.

Sul balconcino che dà sul cortile, festoso di fiori che contraddicono l'atmosfera psicoplumbea, margherite gialle, gelsomini profumati, gerani rossi, begonie bianche, campanule azzurre. Al terzo piano le finestre aperte, illuminate giorno e notte, di un signore della finanza, al quarto piano le lenzuola stese ad asciugare di una signora che le cambia quasi ogni giorno.

In cortile la casa bassa, a un piano, del custode Baltazar, venuto dal Perù, qualche macchina e, incastrati nel muro, i busti di terracotta del Manzoni, di Verdi, di Bellini che sembrano guardare stupefatti il mondo.

Le sbarre di ferro esistono soltanto nell'immaginazione del prigioniero per contagio, ma vengono ugualmente in mente le prigioni vissute e sofferte di uomini più o meno illustri. Non lontano da qui, a San Vittore, nel febbraio 1927, fu rinchiuso per qualche mese Antonio Gramsci , prima del processone romano, dove il pm Michele Isgrò pronunciò la famosa e storica frase: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Un veggente. Gramsci morì nel 1937, distrutto nel corpo, non nello spirito. Quel che scrisse seguita, quasi un secolo dopo, a illuminare il mondo che avrebbe voluto migliore.

E poi viene in mente Silvio Pellico, affiliato alla Carboneria, incarcerato nel 1820 nella prigione austriaca di via Santa Margherita, vicina al Teatro alla Scala, la stessa dove, dopo l'8 settembre 1943, ebbe sede, all'Hotel Regina, la Gestapo, luogo di tortura e di morte. Le urla notturne dei prigionieri seviziati, partigiani, ebrei, antifascisti servivano ai nazisti per alimentare il terrore e far sentire in tutto il quartiere il peso funereo del loro potere e della loro ferocia.

Silvio Pellico passò quattro mesi in una cella a pianterreno e poi in un'altra cella in quello che era stato un tempo un monastero di benedettine, come raccontò nel suo Le mie prigioni, in attesa della sentenza e della condanna (a morte, commutata in quindici anni di carcere da scontare nella fortezza dello Spielberg, a Brno).

Lo svegliarsi la prima notte in carcere è cosa orrenda! «Possibile!» dissi ricordandomi dove io fossi, «possibile»! Io qui? E non è ora un sogno il mio? Ieri dunque m'arrestarono? Ieri mi fecero quel lungo interrogatorio, che domani, e chissà fin quando, dovrà continuarsi? Ieri sera, avanti di addormentarmi, io piansi tanto, pensando a' miei genitori.

Vittorio Foa finì in carcere un secolo dopo, dal 1935 al 1943. Uomo di Giustizia e libertà, detenuto politico dei fascisti a Regina Coeli, a Roma, e poi a Civitavecchia e a Castelfranco Emilia: non gli sfuggì mai un lamento, un'autocommiserazione. Gli faceva orrore la tendenza al martirio dei carcerati politici più o meno illustri e lo facevano anche sorridere i lagni e i «belati», come li definì, di Silvio Pellico. Gli piaceva piuttosto Felice Orsini, la sua civile fierezza che traspare nel racconto scritto prima di essere giustiziato. Per Foa, in cella per anni con Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Massimo Mila, il carcere fu un'università. I quattro leggono, studiano. Da Weber a Beccaria a Croce a Swift a Dos Passos a Vittorini. Uno dei quattro, a turno, fa lezione, gli altri ascoltano e discutono.

Quando cadde il fascismo, il 25 luglio 1943, scrisse a casa: «Carissimi, avevo appena imbucato la lettera di lunedì quando ho avuto notizia ufficiale della crisi di governo a Roma e della sua soluzione». Tutto qui, secondo il suo stile. Solo alla fine della lettera ha un soprassalto di orgoglio, un moto di abbandono: «Voi avrete la grande gioia morale di riabbracciare i vostri figli, io avrò la miserabile vanità di sentirmi finalmente riconoscere da tutti che ho avuto ragione. Arrivato al termine della mia lunga esperienza di galera, non trovo in me quella gioia smodata che l'immaginazione presagiva, ma solo un senso di grave responsabilità».


Fortunati coloro che sono morti per una nobile causa, non per una letale gocciolina di saliva o per una lacrima amara che li coglie travestiti da banditi barbaricini, con indosso scafandri, tute col cappuccio da frate, mascherine che cancellano anche gli sguardi, guanti da boxeur, visiere di plexiglass, gambali da pescatori di palude.

Tra gli altri, indimenticati, Piero Gobetti, Eugenio Colorni, Leone Ginzburg, Giaime Pintor, i fratelli Rosselli. E con loro gli amati ragazzi delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Giacomo Ulivi, 19 anni, fucilato nella piazza Grande di Modena dopo le torture subite nel Palazzo Ducale dell'Accademia Militare, dove erano accasermati allora i fascisti della GNR e delle Brigate nere. Aveva in tasca, scritta su un pezzetto stropicciato di carta azzurrina, una poesia del suo professore, Attilio Bertolucci, Insonni: il sonno che riaffiora e con il sonno una speranza, un rifiorire.

«Mi sembrò per la prima volta che quella cosa inutile che è la poesia potesse essere persino utile» disse il poeta quando, dopo la guerra, seppe dalla madre del ragazzo.

Quella di Ulivi agli amici è una delle lettere più belle e pensose della Resistenza: «Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere, pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere!» aveva scritto poco prima di morire.

E un altro ragazzo, Giordano Cavestro, 18 anni, studente di Parma fucilato vicino a Bardi, che così scrisse ai compagni: «Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile. Se vivrete tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care».

Quel mostro è sempre in agguato, con facce differenti, persino liberali, e i compagni ai quali l'eroico ragazzo aveva passato il testimone di rifare «questa povera Italia» non hanno saputo o potuto tener fede al grave compito loro affidato.

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Pagina 59

Nostos


La festa ha un tempo breve. Il ballo è il segno più visibile della vita ritrovata. Si balla dappertutto, nei cortili, nei giardini pubblici, nei capannoni delle fabbriche, nelle sedi dei partiti risorti, nelle aie delle cascine di periferia. Si balla al Castello, al Parco, in uno spiazzo tra le macerie di via Rovello, si balla all'Arco della Pace ornato da un grande ritratto di Filippo Turati, con il suo barbone, si balla al ritmo del boogie-woogie e delle nuove canzoni, «Brazil», «Dove sta Zazà», «Amigos vamos a bailar», «Munasterio 'e Santa Chiara», accompagnati dalle fisarmoniche, dai grammofoni a manovella, persino dai battimani degli amici tutt'intorno alla pista più o meno immaginaria. I cantanti sono quelli dei dischi del passato prossimo, Alberto Rabagliati, Nilla Pizzi, Nino Taranto, ma è mutata l'aria, la paura è una memoria perduta, i tram hanno ripreso a circolare fino a mezzanotte. Ballano gli inglesi, più composti degli americani, scatenati, fanciulleschi. Qualcuno, figlio di immigrati, inframmezza la sua parlata con la reminiscenza di dialetti nostrani, soprattutto del Sud. Sono venuti a liberare la patria che ripudiò i loro padri costringendoli a cercar lavoro di là dall'Oceano. Regalano sigarette, cioccolato. I bambini sono affascinati dalle jeep, gli sembrano giocattoloni, di quelli che si vedono al luna park accanto alle giostre. I camion verdi, senza sportelli, con la stella bianca sul cofano, danno un segno di potenza.

Non è facile tirare avanti, bisogna arrangiarsi. Manca quasi tutto, il pane, lo zucchero, il sale e anche il companatico. Si trovano solo uova e verdura. La carta annonaria è magra, 150 grammi di pane al giorno. I partigiani col fazzoletto rosso o quello tricolore al collo vanno a mangiare quel che c'è nei «ristoranti del popolo», una mensa in via Borgonuovo, un'altra, l'Osteria di Omero, nel quartiere di Brera.

Gli MP, le ronde della Military Police, sono severi, attenti che i soldati rispettino gli off-limits, i divieti. Gli americani cercano sempre donne. Piccoli ruffiani, per poche Am-lire, li accompagnano nei bordelli, al Bottonuto, in via Fiori Chiari, i più frequentati e ambiti. Le «segnorine» sono in gran numero, spesso per sopravvivere, per mantenere i figli.


Adesso è finita. Ma la guerra è una spina che fa male, indimenticata. Il ricordo smarrito di quel tempo riaffiora improvviso come un lampo fuggevole nel buio della notte.

Un compagno di classe si era arruolato nelle Brigate nere. Per stupirci o per umiliarci, forse, veniva a scuola in divisa, il teschio sulle mostrine e sul basco nero, e lasciava, con finta indifferenza, il mitra dietro la lavagna. Il 25 aprile fu ucciso, la testa sfracellata, dalla scarica di un mitra partigiano.

Nella città dove Virgilio indossò la toga virile frequentavo malvolentieri l'ultimo anno del ginnasio, mi piaceva soltanto il greco, il gioco di imparare i verbi irregolari. Passavamo mesi in cantina, il rifugio antiaereo, giù di corsa appena suonava l'allarme, seduti su panchetti o accovacciati per terra. Davvero una scuola d'élite.

Avevo la testa altrove. Passavo le giornate in attesa del postino Pagliarini, un uomo di cuore, con la sua gran borsa a tracolla. Capiva il vivere provvisorio di chi è in attesa di un messaggio, di un qualsiasi segno del padre, dei fratelli in guerra. Vivi, morti, dispersi? Distribuiva la posta due volte al giorno e certe volte, se vedeva la busta di una lettera che, a suo giudizio, poteva essere quella tanto attesa, bussava al portone anche di sera tardi.

Un'altra memoria. Alla fine della guerra si erano moltiplicate le formazioni fasciste, disperati o illusi, figli del disordine. Le Fiamme bianche, gli avanguardisti di una volta, erano i più noti. Con loro altri corpi bambini, quelli che il Duce, com'è uso di tutti i capi, nel dicembre 1944 abbracciava, baciava. Arrivò da Salò, la capitale della sua Repubblica, accolto dagli applausi, per lui ingannevoli, dei milanesi; parlò reboante e osannato al Teatro Lirico e anche dal balconcino di piazza San Sepolcro, applaudito lungo le strade, al Cordusio, in via Dante, davanti alla caserma della sua «pupilla», la sanguinaria Legione Ettore Muti, marchiata di torture e di atroci delitti, dove, nel Quattrocento, visse il manzoniano Francesco di Bartolomeo Bussone, contadino, soldato di ventura, condottiero, capitano generale, conte di Carmagnola (il paese natale), gran guerriero tra Milano e Venezia, conquistatore di paesi e città, accusato di tradimento, decapitato nel 1452 in una piazzetta di Venezia. Il Piccolo Teatro di oggi.

Nostos è la parola greca che sta per «ritorno a casa» e la sua forma plurale, Nostoi, era il titolo di un poema dedicato al ritorno a casa dei re e dei condottieri greci che avevano combattuto nella guerra di Troia. Anche l' Odissea racconta la storia di un nostos benché spesso divaghi dal tortuoso viaggio di Odisseo verso Itaca.

È il tempo dei nostoi nostrani quel 1945, il ritorno a casa degli Odissei che spesso non trovano più né Penelope né un tetto sotto cui dormire. È anche il tempo avventuroso dei soldati e degli ufficiali italiani che negli anni hanno mutato nemici, prima gli americani e gli inglesi, poi i tedeschi, e hanno risalito la penisola, da Capo Passero alle Alpi, trovando, i più fortunati, la moglie che li ha attesi paziente e i piccoli figli che spesso non li riconoscono.

Devono ricominciare a vivere in un Paese semidistrutto, senza lavoro, le speranze frantumate, privi di futuro.


Non si sapeva quasi nulla di quel che era successo nel mondo in fiamme. Si aveva qualche notizia dai parenti scampati o fuggiti, dagli amici degli ebrei arrestati, deportati, uccisi dopo le leggi razziali del 1938 firmate dal re Vittorio Emanuele III. Il manifesto programmatico della Repubblica Sociale Italiana, scritto da Mussolini con la collaborazione di Nicola Bombacci e di Alessandro Pavolini, decretava che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica».

Le prime notizie sui lager le portò qualche superstite, un cadavere che faticava a stare in piedi, vestito di stracci. Arrivava, chissà come, da luoghi dai nomi sconosciuti, Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Terezin, Treblinka, Bergen Belsen, Gusen.

Il primo giorno, la prima notte del ritorno, il superstite parlava, parlava affannoso. Poi si chiudeva in un sordo silenzio. Quel doloroso mutismo forse aveva per lui il significato che anche i famigliari, gli amici, il prossimo ansioso di sapere non potevano capire quel che aveva visto e sofferto, uno degli orrori più terribili della storia dell'uomo. Con la dolorosa dissennata vergogna di essere vivi.

Lo diceva dolorante Primo Levi. La parola shoah era ancora una parola sconosciuta.

Si veniva invece a sapere ciò che era accaduto in posti non lontani, a Fossoli, in Emilia, dove la polizia di sicurezza nazista, con i subalterni repubblichini di Salò, aveva infierito in un lager di lavoro coatto e anche di sterminio. Ebrei e prigionieri politici vi transitavano prima di partire per i lager del Terzo Reich, ma non pochi erano stati assassinati nel campo, anche neonati, bambini, ragazzi. Per rappresaglia.

Si era poi venuti a conoscere anche della Risiera di San Sabba, a Trieste, dove i nazisti facevano funzionare un lager con orgiastica ferocia. Ma passò del tempo prima di sapere che in quel luogo mortale era installato anche un forno crematorio.

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Il mosquito


La memoria, si sa, può affiorare da un minuscolo segno, uno sguardo, il colore di una nuvola, il particolare di un affresco, lo spigolo di una casa, il camminare di uno sconosciuto, un fiore. (Non esistono solo i biancospini rosa proustiani.)

Il ricordo del miracolo economico, il boom, che, dal 1958 al 1963 ringalluzzì l'Italia marcando la rottura con un tragico passato si racchiude per me - una bizzarria nel magma dei ricordi - in una parola, mosquito. Una bicicletta con un minuscolo motorino dietro la sella, sopra la ruota posteriore. Un'invenzione meccanica e anche psicologica: la conquista di un'autonoma piccola velocità, rispetto al pedalare spesso stancante sulla vecchia amata bicicletta custodita da ragazzi come un tesoro. Lo era. Sognato anche la notte nel terrore che l'avessero rubata, la Maino nera, la Ganna color nocciola, la Legnano verde oliva, la Bianchi celeste come il manto della Madonna.

In spagnolo mosquito significa zanzara. Fu il piccolo padre della Vespa, la regina panciuta. «Chi Vespa mangia le mele» recitava l'incomprensibile slogan pubblicitario mentre la nuova carrozzella intasava rapidamente le strade delle città.

La Lambretta, poi, dal nome del fiumiciattolo milanese, costruita secondo il modello del Meccano, un mattone d'acciaio sopra l'altro, priva delle fantasiose curve femminee della rivale. Nacquero due fazioni di appassionati tifosi, si affrontavano nei bar e ovunque a decantare le qualità e la superiorità dell'una sull'altra, la velocità, la forma, i consumi. Possedere lo scooter significava salire di un gradino nella scala sociale, ampliare gli orizzonti della vita.

Ma fu la Seicento, l'auto della Fiat, il gioiello comparso nel 1963, a esaudire i sogni degli italiani: portatrice di un altro modo di vivere, riscattava lo statico passato. Divenne il simbolo delle sognate gite domenicali, del déjeuner sur l'herbe, dei picnic, del week-end di cui venivano pronunziati i nomi con riverenza. Portava con sé oro, incenso e mirra come i re magi. Il jukebox, musica e ballo, canzoni per tutti con una moneta; la lavatrice, il frigorifero, non più la ghiacciaia di legno foderata di zinco, vista fin da piccoli in un angolo della cucina, sono le conquiste del boom. E poi la tv. Il servizio pubblico, inaugurato a Milano nel 1954, fu l'altro dono al popolo sovrano dei consumi, premiato il 26 novembre 1955 con l'esordio di Lascia o raddoppia? Ogni giovedì, alle 9 della sera, si affollano i bar, i circoli, le case ospitali dei più fortunati che posseggono il televisore, per vedere lo spettacolo definito autorevolmente «il più celebre quiz della storia della televisione italiana, capostipite di tutti i successivi giochi».

Mike Bongiorno, che governa la trasmissione, è un dio in terra. Fioriscono gli imitatori, gli spettacolini ispirati al suo quiz, in città o in campagna, nei circoli, negli oratori, nei condomini e, nella buona stagione, nei giardini e nei cortili.


Si cerca dappertutto manodopera. Nelle stazioni vengono appiccicati sui ponteggi vicino ai binari i manifestini delle aziende bisognose di braccia. La grande emigrazione avviene soprattutto dal Sud verso le città industriali del Nord. Gli emigranti della speranza partono dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Puglia, da Avola, da Scicli, da Favara, da Locri, da Melissa, con sbrindellate valige di fibra, verso l'ignoto. Con le loro mani e grandi sacrifici avevano cominciato a costruirsi al loro paese la casa, il sogno degli italiani. Non salirà, incompiuta, oltre i piani bassi. Resteranno, lungo le strade del Sud, file di costruzioni informi, non finite, abusive, mattoni forati e cemento a buon mercato, con gli spunzoni di ferro dei piloni traballanti nel vuoto.

Sperano un giorno di tornare, anche per coltivare i pochi tumuli di terra che non hanno voluto vendere. Quei loro fazzoletti incolti spiccano ancora oggi, giallastri, aridi, fettucce o triangolini abbandonati dentro il mantello di Arlecchino che li circonda di terra colorata e fruttifera.


È la Fiat, Torino, il miraggio. Soldati in guerra divengono operai in pace e si adattano a vivere nella grande città, in orripilanti tuguri, nelle soffitte, nei sottoscala. «Non si affitta ai meridionali» si minaccia sui portoni delle case. Di quei meridionali la Fiat Padrona ha assoluta necessità, ma non muove un dito per far sì che gli immigrati vivano decentemente.

Il razzismo nostrano è antico. Lampedusa, Porto Empedocle, Pozzallo sono i nomi della speranza di chi anche oggi viene di là dal mare. Identico il miraggio, identica la morte.

Se la classe dirigente fosse stata e fosse più umana e più colta, se conoscesse la storia e non dimenticasse i milioni di italiani che nei secoli lasciarono paesi e città per una vita migliore, per un tozzo di pane! Se le masse sorde e ostili - i sovranisti, i populisti, i demoni dell'anima oscurantista - cercassero di capire le semplici parole di papa Francesco: «Anche Gesù era un migrante».

Le città, Milano soprattutto, sono lucenti. Cordoni di lampadine fanno da cornice alle vetrine dei negozi, festoni colorati, dondolanti da un lato all'altro delle strade, creano fantasiosi giochi luminosi. I quartieri sono in lizza tra loro nella gara contro il buio, come nei paesi il giorno del santo patrono, con i fuochi artificiali e la costosa banda - quella della Marina, quella dei Carabinieri - per il rituale concerto serale in piazza.

[...]

C'è nell'aria eccitazione, fermento. Dev'essere l'odore dei soldi. La lira è stabile, nel 1960 vince l'Oscar del Financial Times. Anche le casalinghe giocano in Borsa, la Mecca. Sale, sale. Diventano appassionate frequentatrici di piazza Affari.

Per loro è come acquistare in una tabaccheria una schedina del Totocalcio e vincere. Una manna. Divengono esperte come agenti di cambio, sono venute a sapere tutto quel che serve, come al mercato rionale, sugli sbalzi dei titoli, sulle oscillazioni, sulle fluttuazioni, sulle speculazioni al rialzo. Il listino di Borsa è il loro messale. Sembrano ridiventate ragazze quando giocavano a bandiera o ai quattro cantoni.

È la stagione dei designer, dei sociologi, degli architetti che spuntano come il prezzemolo. Fioriscono le ricerche di mercato, le tavole rotonde, il marketing, le campagne pubblicitarie. La seconda casa al mare è il miraggio del ceto medio, la barca per chi ha qualche soldo in più.

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Pagina 107

La Mina


Si balla, si canta, si fa festa. I dancing si diffondono ovunque.

«Legata a un granello di sabbia», «Una rotonda sul mare», «Pinne fucili e occhiali», «Sapore di sale»: Nico Fidenco, Fred Bongusto, Edoardo Vianello, Gino Paoli.

Ma è Mina, la Mina, la voce dell'Italia del boom, una voce inquietante. Era nata nel 1940, l'anno dello scoppio della Seconda guerra mondiale, dei soldati che partivano per il fronte, la Francia allora, le mollettiere sui polpacci, il pan biscotto delle mamme nello zaino. Erano gli anni delle carte annonarie, delle scarpe con le suole di sughero, delle auto con i parafanghi pitturati di bianco, dei vetri delle finestre protetti da striscette di carta incrociate tra loro, dei primi bombardamenti aerei.

Alta, quando mise i primi tacchi Mina si spaventò, le pareva di essere una gru. Con indosso un cappotto arancione che si faceva ogni giorno più corto andava su e giù per corso Campi, a Cremona. Abitava in una bella casa borghese, suo padre dirigeva un'azienda nel piacentino, sua madre non s'era accorta per nulla che sua figlia aveva una voce «dirompente e lancinante», «una voce eletta», come scriverà la studiosa Rina Gagliardi che la paragonerà a Maria Callas: «Ad accomunarle non è soltanto la straordinaria ricchezza della voce, capace di espandersi, in entrambe, su tre ottave e di raggiungere grandi livelli di virtuosismo. È la tensione interpretativa, quella che Verdi chiamava la "parola scenica", a rendere unico il loro modo di eseguire un brano musicale».

[...]

Si abituò presto ai brusii. Arrivò il piccolo e poi il grande successo, «Tintarella di luna», «Grande grande grande», «E se domani», «Parole parole». La ragioniera mancata era diventata una stella, la colonna sonora dell'Italia del boom. Canterellavano e fischiettavano le sue canzoni i garzoni dei salumieri e gli intellettuali sofisticati.

Già famosa si stancò dell'Italia, abbandonò i palcoscenici, i concerti, gli stadi e le tv, restò fedele soltanto ai dischi che ogni anno invasero il mondo. Andò a vivere a Lugano, una migrante di lusso. Certo, le sue «Mille bolle blu» e le sue «Zebre a pois» non si accordavano troppo con la famosa canzone di Pietro Gori:

    Addio Lugano bella, o dolce terra pia,
    scacciati senza colpa, gli anarchici van via.
    Ma partono cantando con la speranza in cor.

E ancora:

    Ed è per voi sfruttati, per voi lavoratori
    che fummo imprigionati al par di malfattori,
    e pur la nostra idea non è che idea d'amar.

Un altro mondo.

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Pagina 123

La bomba


Sono difficili da dimenticare quei giorni della strage di piazza Fontana, venerdì 12 dicembre 1969. Per un caso ero entrato nella Banca non molto tempo dopo l'esplosione. Di ritorno da Roma, alla Stazione Centrale avevo preso un taxi. In piazza Fontana, mi disse il tassista, era appena successo qualcosa di grave, lo scoppio di una caldaia alla Banca dell'Agricoltura e si parlava di molti morti. Gli dissi di portarmi alla banca, non più a casa.

In piazza Fontana c'erano solo qualche ambulanza e qualche macchina dei carabinieri e della polizia. Non si vedeva ancora nessuno venuto a curiosare nell'aria nerastra.

«Macché caldaia, è una bomba, ci saranno trenta morti» mi disse qualcuno. Non c'erano ancora blocchi, servizi d'ordine. Dal portone cominciavano a uscire barcollando i sopravvissuti, informi ossessi che si scontravano con i barellieri di corsa in senso contrario. Entrai senza difficoltà nella grande sala a pianterreno. Una macelleria dell'orrore. Il sangue colorava la polvere dei vetri frantumati e il legno dei mobili ridotti in briciole e continuava a colare. Vidi subito un braccio appiccicato a un muro e una testa rotolare sul pavimento. Brandelli di cadavere spuntavano da ogni parte. Qualche corpo meno straziato era finito oltre il bancone delle casse a forma di ferro di cavallo dove gli impiegati, una parte di loro almeno, erano riusciti a salvarsi buttandosi a terra come in trincea.

Qualcuno gettava in un mucchio gambe, braccia, teste, pezzi di cadavere trovati via via nel salone. Nessuno gridava, era il momento del silenzio innaturale che viene sempre dopo la tragedia. Non provavo sentimenti, non avevo reazioni, non mi ponevo domande, mi sentivo confusamente prigioniero di un'atonia paralizzante. Non mi veniva in mente niente, riflessioni, pensieri, giudizi. Come se fossi azzerato nell'anima. La coscienza, anche dopo un massacro, affiora con lentezza. Ero invece smisuratamente attento ai particolari più minuti che possono anche essere rivelatori, guardavo con fissità, come un automa, una mano recisa, una macchina da scrivere schiacciata, una scarpa. Mi trovavo, ma lo compresi dopo, in un ambulacro di morte difficile da immaginare anche per chi avesse la macabra fantasia di inventare la fine del mondo andato in fiamme.

Tra le macerie e i resti umani captavo qualche notizia. Sembravano voci recitanti le parole che sentivo, dialetti mescolati, di tonalità diverse. A esprimersi, a mozziconi di frasi, erano gli ultimi sopravvissuti rimasti dentro la banca, impiegati, commessi, agricoltori.

La bomba era scoppiata con un gran tuono e un bagliore arancione. La borsa con l'esplosivo - si saprà dopo che si trattava di dinamite a base di binitrotoluolo, dall'odore di mandorle amare - era stata messa sotto il tavolo di legno in mezzo al salone. Dove ora c'era un buco profondo, epicentro della strage. I frammenti della bomba erano schizzati sui banchi degli impiegati seminando cadaveri, smembrandoli - diciassette morti e un centinaio di feriti -, ma questi numeri veritieri si sapranno durante la notte e nei giorni, mesi e anni successivi, dopo un macabro alternarsi di voci.

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Pagina 128

La notte di Pinelli


La notte di Pinelli. Via Brera 11, la casa di Carlo Dossi , lo scrittore scapigliato delle Note azzurre, dove allora abitavo. Un angolo di Storia: in cortile, incastrate nel muro, due palle di cannone e una granata, dono del feldmaresciallo Johann Joseph Wenzel Radetzky von Radetz, 1848, le Cinque giornate di Milano. Uscendo dal portone, nella vietta sulla sinistra, l'obbrobriosa facciata costruita negli anni del fascismo per completare il gentile settecentesco palazzo Cusani, sede del Comando di Corpo d'armata.

In quelle stanze, a pianterreno, dopo la Liberazione del 1945, si riunì lo Stato maggiore partigiano di cui era a capo Luigi Longo , «Gallo», che durante la guerra civile spagnola era stato commissario politico delle Brigate internazionali, e durante la guerra di Liberazione a capo del Corpo Volontari della Libertà del Nord, oltre che alto dirigente del Partito comunista. Si discute di Mussolini che i partigiani hanno appena arrestato sul lago di Como. «Vai tu» dice Longo a Italo Pietra, comandante delle Brigate partigiane dell'Oltrepò entrate per prime a Milano il 27 aprile 1945. Pietra dice no, sa bene che cosa significa quel «Vai tu», quali conseguenze potrebbe provocare nella sua vita, anche al di là della politica che conosce profondamente. Non è prudenza la sua, è rifiuto di un ruolo al comando di un plotone di esecuzione, che non sente gli appartenga. Longo, allora, ripete la richiesta a Paolo Murialdi, il vice di Pietra nella divisione garibaldina di cui ebbe in precedenza il comando. Sotto il tavolo - è vicino a lui - Pietra gli dà un calcetto. Un altro no. «E allora vai tu» dice Longo a Walter Audisio, il famoso colonnello Valerio, ragioniere di Alessandria, comunista dal 1931, confinato antifascista, dirigente militare delle Brigate Garibaldi. Che parte per la sua davvero storica missione.


Come si legano il feldmaresciallo Radetzky, conte von Radetz, la fucilazione di Mussolini a Dongo, la morte nella questura di Milano del ferroviere anarchico Pino Pinelli? I fantasmi del passato, la memoria che spicca come una scintilla da un magma misterioso, quasi un'astrazione. Appare, scompare, ritorna, folletto ballonzolante. Le presenze oscure, certi segni, soprattutto i luoghi come in quella notte la casa di via Brera 11, sono fonti della memoria che affiorano dall'aldilà della mente e del cuore.

Che cos'è la memoria? È vero che trasfigura i ricordi? Che cos'è la Storia? Che cos'è la coscienza storica?

[...]


Torniamo in Questura, il vecchio collegio Longone dei barnabiti dove studiò anche Alessandro Manzoni. Con noi c'è ora anche un giornalista del Giorno e una giornalista dell' Unità.

Il questore Marcello Guida indice una conferenza stampa. E se non fosse una notte tragica si potrebbe definire la scena di un macabro romanzo sceneggiato. L'uomo, un tipico notabile meridionale, vestito di grigio, il viso roseo, la cravatta azzurra in sintonia con le calze e con gli occhi tondi come biglie, siede accanto ai suoi funzionari, Antonino Allegra, il capo dell'Ufficio politico, il giovane commissario Luigi Calabresi, il capo di gabinetto Gustavo Palumbo, un tenente dei carabinieri, Savino Lo Grano.

Non sembra una stanza di questura, un ovattato salotto, piuttosto, con quadri dell'Ottocento alle pareti, mobili antichi, bandiere e divani. Non c'è nulla, là dentro, che faccia pensare al dramma.

Il terrore sinistro di quella notte sembra un'invenzione, non si direbbe che non lontano da qui un uomo è caduto da una stanza dell'ufficio politico, al quarto piano, ed è morto nel cortile. È entrato vivo, cittadino italiano incensurato, dal portone della Questura, con il suo motorino Benelli 48 cc, ed è uscito morto.

Si ha una sensazione di normalità, persino di euforia. (L'accaduto, in verità, era per i questurini un fatto liberatorio, un evento non tragico, fruttuoso per le indagini in corso sulla strage, favorite, risolte - dovevano pensare - da quella tragica morte.)

Cominciò Guida, disse che era un attento lettore degli articoli della Cederna, un suo ammiratore.

La giornalista, che si passava da una mano all'altra un paio di occhiali, imbarazzata e sconvolta, non finse neppure un cenno di ringraziamento, mentre Guida le si rivolgeva con l'eleganza dei personaggi della corte di Ferdinando II di Borbone. L'intruso là dentro era proprio il morto, Giuseppe Pinelli , «anarchico individualista», 41 anni, ferroviere di periferia. Intelligente, sveglio, era riuscito a raggiungere il grado di «caposquadra manovratori», il più alto per chi era entrato nell'organico delle ferrovie con la quinta elementare.

«Esponente anarchico, responsabile del circolo Ponte della Ghisolfa» disse il questore «gravemente indiziato di concorso in strage: aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l'interrogatorio per andare a riferire ai superiori. Nella stanza si stava parlando d'altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo, e si slanciò nel vuoto.» Il suicidio - aggiunse Guida - era una evidente autoaccusa.

Ci fu un momento di silenzio, poi qualcuno chiese chi era Pinelli. Rispose Calabresi: «Sembrava un uomo non capace di ricorrere ad atti di violenza, un uomo tranquillo, ma i suoi rapporti, le sue implicazioni politiche dovevano far rilevare il contrario». Chiesi io qual era stata l'ultima domanda fatta a Pinelli, quali le ultime cose dette e se esistevano i verbali degli interrogatori. Nessuno rispose, ma senza mostrare imbarazzo. Ripetei la domanda, il questore disse soltanto che l'interrogatorio non comprometteva altre persone. Domandai se il fermo dopo le 48 ore era stato convalidato dalla magistratura. Il questore rispose di sì.

Chiesi a Calabresi perché non era sceso in cortile a vedere un uomo che pochi minuti prima era vivo nella sua stanza. Nessuna risposta. Rifeci testardamente la domanda, accolta anch'essa con il silenzio. Mi sembrò già allora un agire umanamente inqualificabile. Era mancato anche un barlume di pietà.

Capii più tardi che tutti i funzionari dell'Ufficio politico, dopo la caduta, si erano subito riuniti nello studio del questore Guida per concordare la versione da dare ai giornalisti.

«Come era avvenuto il salto?» chiese qualcuno di noi cinque. Guida diede una confusa risposta: «Gli si è detto che erano successe alcune cose. Gli si è fatto il nome di una certa persona. Eravamo in una fase di contestazione di indizi. Evidentemente, a un certo momento, si è trovato come incastrato. Allora è crollato psicologicamente. Non ha retto...».

Il nome di una certa persona era probabilmente quello di Valpreda: fu detto a Pinelli che era lui l'autore materiale della strage di piazza Fontana? Un saltafosso.

Davvero l'anarchico aveva prestato fede a quel che gli stavano dicendo i poliziotti e in quella stanza non grande, con cinque uomini intorno, si era gettato nel vuoto senza che nessuno cercasse di trattenerlo?

L'anarchico non era al suo primo interrogatorio. Era un veterano della Questura. Responsabile della Crocenera anarchica aveva raccolto in tanti anni un archivio di notizie sui metodi polizieschi internazionali. Conosceva tutte le tecniche, i trabocchetti, gli inganni della polizia con gli arrestati colpevoli o innocenti. Sapeva dei verbali falsi, delle fotografie truccate, delle chiamate di correità attribuite ai compagni più fidati del reo.

Poteva credere senza sospetti, Pino Pinelli a quel che gli veniva detto su Pietro Valpreda diventato, per decisione poliziesca, «l'assassino di piazza Fontana»? Davvero l'anarchico era impallidito nel sentire quell'affermazione che lo coinvolgeva nella trama della strage?


La conferenza stampa del questore finì verso le tre di notte. Sostammo a discutere a lungo nella notte sui marciapiedi di via Fatebenefratelli, per nulla convinti di quel che avevamo ascoltato, un'autodifesa d'ufficio che faceva acqua da ogni parte.

Cominciava il caso Pinelli, un nome allegro per una delle vicende più cupe e dolorose del Novecento.

Sconfitti anche in quell'occasione nonostante il tormento, la passione, i tentativi di conoscere la verità.

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Pagina 177

La noia del potere


Maggio 1994. Nell'aula di Palazzo Madama il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non riesce a nascondere l'incommensurabile noia. Sembra capitato li per caso. Guarda i legni dell'aula, così diversi tra loro, il mogano, il giallo paglierino, il noce; guarda distrattamente i senatori sui loro sedili rossastri, le loro teste; guarda le tribune dove si affaccia qualche curioso venuto a vedere la democrazia; guarda in su, al cielo dell'aula, il soffitto ottocentesco con i fregi pompeiani e le decorazioni neoclassiche, celestine, color della cenere, sbircia le quattro figure sugli angoli, il Diritto, la Fortezza, la Concordia, la Giustizia. Anche qui la giustizia, un incubo, un castigo, un'ossessione.

Dà l'impressione di uno col tempo contato, uno che ha ben altro da fare, fuori, il presidente; e invece è costretto quasi fosse imprigionato, a sorbirsi inutili chiacchiere, mentre di là dal portone scorre la vita, scattano gli indici del valore del dollaro, del marco, delle monete di tutti i paesi del mondo; i calcolatori fibrillano, e i suoi nemici staranno tramando contro di lui, soprattutto nei palazzi di giustizia e della grande finanza. Sembra un po' sfatto, anche, dopo tante ore di immobilità, senza le cure delle truccatrici che gli rifanno la faccia e dei parrucchieri che abitualmente devono colorargli il capo sparuto, attenti che la tinta non scivoli giù a goccioloni. Un poco allegro spettacolo di varietà.

Ma è proprio lui? Viene il sospetto. L'uomo dall'oscuro passato, il miliardario dalle misteriose origini seduto ora sullo scranno ornato da uno degli orpelli più elevati del potere?

È lo stesso uomo nato dal niente, l'affarista rapace su cui gravano le ombre dei traffici del mondo e la cappa dei misteri, annoiato sotto le lapidi che ricordano l'Unità d'Italia e la nascita della Repubblica?

I cittadini elettori hanno scelto la sua povera politica priva di cultura e si sono rispecchiati in lui, sperando di avere il medesimo destino, di ricco vincitore nelle difficili trame della vita.

I ministri allineati in lunga fila risuscitano la memoria di Lombroso. A guardarli vengono in mente il bandito Gasparone, Jack lo squartatore, Verzemi, lo strangolatore di donne, il brigante Musolino.

Sembra di essere capitati nel baraccone di una fiera di paese dove si tirano ai pupazzi le palle di stracci.


Il discorso del presidente per ottener la fiducia sembra destinato agli ispettori di vendita della sua azienda, con l'intento di strizzar l'occhio a amici e nemici, uomo della provvidenza anche lui. Annuncia che ci sarà un aumento delle interessenze, via le tasse, via subito quella di successione, guadagni copiosi, soldi, soldi.

[...]

Un uomo che si è fatto da sé, come si usa dire, cantante di pianobar sulle navi da crociera, aveva in repertorio autori noti, Charles Trenet, Gilbert Becaud, Charles Aznavour, Edith Piaf. È andato lontano. Con protettori compiacenti e complici che l'hanno tenuto in grembo. Mancano i lumi per sapere come furono gli inizi del boss. I finanziamenti indispensabili per i suoi esordi imprenditoriali restano sconosciuti. Chi gli ha dato i soldi necessari e a quale titolo? È un giovane intraprendente, svelto nelle scelte, furbo come una volpe. Non aveva dato prove d'eccezione delle sue qualità di palazzinaro, ma era evidentemente l'affidabilità a contare, per gestire grandi quantità di denaro, un naturale garante, silenzioso, muto, anzi. Compare, scompare, si inabissa sotto una crosta di sigle e prestanomi. È lui stesso un paradiso fiscale ben protetto. Ogni tentativo di saperne di più si arresta davanti a una Finanziaria di Lugano, Aktiengesellschaft für Immmobilienanlagen in Residenzentien Ag., rappresentata da un avvocato d'affari svizzero. E, si sa, gli svizzeri, da sempre, si tappano col cemento la bocca pur di non dir parola sui soldi delle loro banche e sui loro affari.

Acquista proprietà immobiliari e grandi estensioni di terreni fabbricabili, costruisce interi quartieri a Brugherio, a Segrate. Cita Luigi Einaudi come un antenato. Inorridirebbe. Durante la replica, il giorno della fiducia al Governo, ha citato anche, un'enciclopedia, Adamo Smith, Elio Vittorini, persino Raffaele Mattioli. Avrebbe riso, con la sua ironia beffarda, il sommo banchiere umanista. Pace all'anima loro che non possono neppure difendersi dalle lusinghe. (Il ghost writer ha esagerato un po' nell'arduo proposito di offrire un'immagine civilmente colta del padrone.)

È un uomo della destra più retriva, un anticomunista «epilettico», come l'avrebbe forse definito Emilio Lussu che comunista non era. Politicamente vicino alla destra democristiana diventa il grande amico o socio di Bettino Craxi, socialista di complemento, anche lui all'assalto. Del suo partito, per ora.

Uomo del mattone, diventa l'uomo della tv. Comincia l'avventura con Telemilano, a circuito chiuso per i condomini di Milano 2, un suo quartiere, un'oasi di lusso. Giuseppe Fiori, autore di un'intelligente biografia, Il venditore , ha tentato di fissare i tratti salienti della sua personalità, la spregiudicatezza, l'ambiguità, il passo sicuro nel dedalo dei segreti, la furbizia, il senso del clan, l'attitudine ad accentrare e il gusto del comando, lo smisurato concetto del proprio io, il ritenere impossibile non avere sempre ragione, l'attrazione costante per i gesti accattivanti, la cordialità esibita, il desiderio di piacere a tutti.

[...]


Il totale del debito è di circa 50 miliardi, «sono in istruttoria nuovi mutui per circa 42 miliardi».

Altro che libero mercato, un dio in terra. Altro che spirito della concorrenza e fede nell'etica del capitalismo. Com'era materna e utile quella loggia che il boss ama chiamare un «club di gentiluomini». Non sa o finge di non saperlo che i giudici istruttori di Milano Gherardo Colombo e Giuliano Turone sono arrivati alla P2 indagando sulla mafia, sul finto rapimento di Sindona in Sicilia, sull'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli? Non sa che la scoperta della P2 ha provocato la caduta del Governo Forlani, è coinvolta fino al collo nel caso Moro, i 55 giorni del sequestro e la sua tormentosa fine, non sa che i suoi tutori visibili o mascherati hanno sulla coscienza, se ne possedessero una, inconfessabili intrichi con il malaffare politico-criminale, compresa, tra l'altro, la tragedia della strage della stazione di Bologna? (La magistratura, dopo più di quarant'anni, sta ancora indagando su altri misteriosi mandanti di alto livello.)


Il Tycoon è simile a un rullo compressore: Telemilano, Reteitalia, Publitalia, la Fininvest nutrita da Canale 5, Italia 1, Retequattro, e poi la squadra di calcio del Milan, Il Giornale, la Mondadori, l'Einaudi, ahimè.

Con le protezioni politiche e non soltanto politiche, con l'abilità che sa usare nel garbuglio dei soldi è riuscito a costruire il suo impero mediatico beffando le leggi, un inciampo.

[...]

La cassaforte si rimpingua. Le leggi utili ora il Tycoon se le fa da sé o, meglio, provvede a farlo la corte dei suoi avvocati, che gliele cuciono addosso come sarti di gran nome. Le famose leggi ad personam, una vergogna nazionale, capaci di imbrigliare le norme dannose per il suo interesse privato, cancellandole, vanificandole.

La democrazia, in Italia, ai tempi dei governi Berlusconi, dal 1994, è morta, è davvero morta. Una repubblica delle banane.

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Pagina 184

Affari di giustizia


Servirebbe un libro d'oro massiccio, salmi e preghiere, un libro d'ore, visto il personaggio cui genuflettersi, o un registro da droghiere di gran mole, meglio, per annotare gli affari di giustizia, protagonista il padrino d'Italia Silvio Berlusconi, uomo tra i più ricchi del Paese, quattro volte presidente del Consiglio (1994, 2001, 2005, 2008).

Nel 2013 è passata in giudicato la sentenza del processo per falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita in cui è stato condannato a quattro anni di reclusione. Decaduto dalla carica di senatore, ha chiesto di poter scontare la pena, ridotta a un anno, mediante l'affidamento ai servizi sociali in un ricovero per anziani a Cesano Boscone, vicino a Milano, quattro ore al giorno, una volta la settimana. Se la cava con poco. Ma giuridicamente è un pregiudicato.

È lunga e corposa la lista dei suoi processi, delle istruttorie, delle indagini che lo riguardano. Alcuni ancora in corso come il Ruby ter (2015), corruzione di testimoni; le escort di Bari (2014); il Movimento italiani nel mondo (2014), finanziamento illecito ai partiti.

È in istruttoria (2013) la causa per la corruzione di due senatori, Antonio Razzi e Domenico Scilipoti; è sotto inchiesta (2018) per il processo che collega la mafia alle stragi del 1992-1993.

È soprattutto protagonista di una lunga catena di processi conclusi con la prescrizione: il Lodo Mondadori (1995-2001), per corruzione giudiziaria; l'Alt-Iberian (1996-2000), 22 miliardi al PSI di Craxi; i bilanci consolidati Fininvest (1988-1996; 2001-2004), il falso in bilancio dell'intero gruppo; i bilanci Fininvest (1988-1992; 2001-2004); il giocatore di calcio Gianluca Lentini (1995-2005), un altro falso in bilancio; David Mills (2000-2018), un celebre avvocato inglese, corruzione di un testimone di rilievo che doveva deporre nel processo per tangenti alla Guardia di Finanza; Unipol (2012-2014), rivelazione di segreti d'ufficio; Sergio De Gregorio (2013-2017), corruzione di un senatore: tre milioni di euro per farlo approdare nel partito di Forza Italia.

Un paio di volte è stato anche amnistiato: Macherio (1999), appropriazione indebita, frode fiscale e falso in bilancio a proposito di un terreno. Poca cosa, infine. Una bugia: falsa testimonianza sulla quota per l'iscrizione alla P2.


Odia i giudici, Berlusconi, si sa. Ma dovrebbe invece erigere un monumento alla Dea prescrizione e alla malagiustizia: non assolve, infatti, la prescrizione. Estingue il reato perché è passato il tempo fissato dalla legge. Colpevolezza o innocenza dell'imputato restano senza risposta anche se l'imputato ha la facoltà di rinunciare alla prescrizione per tutelare il proprio onore e dimostrare che è innocente. Ma non risulta che Berlusconi l'abbia mai fatto.

[...]


Un affarista da romanzo di Balzac, con una fedina penale di tutto riguardo. Abile, impudente. Quando divenne presidente del Consiglio, nel 1994, e andò al Quirinale con la sua lista dei ministri, chiese che Cesare Previti, suo avvocato e complice di una vita avventurosa, diventasse ministro della Giustizia. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, disse bruscamente di no.

Lo zimbello del mondo. Com'è stata vilipesa e derisa la povera Italia berlusconiana, così amata nei secoli per il suo passato di storia e di cultura. Fu la manna per i grandi giornali stranieri, Der Spiegel, Le Nouvel Observateur, Le Figaro, Liberation, El País, Le Monde, Financial Times, The Independent, El Mundo, Moskovskij Komsomolec riempiono pagine e pagine annichiliti per il destino dell'Italia naufragata. The Economist, poi, gli dedicò per tre volte la copertina, come a una diva:

- 28 aprile 2001: «Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy»;

- 8 aprile 2006: «Basta. Time for Italy to sack Berlusconi»;

- 11 giugno 2011: «The man who screwed an entire country».


Non è certo uno sconfitto e non si sente tale, Silvio Berlusconi, come molti dei protagonisti di questo libro, con il loro ardore perduto.

Ha persino la speranza di diventare presidente della Repubblica, di far lui le consultazioni dal Salone delle Vetrate al Quirinale o almeno di essere nominato senatore a vita e di tornare a frequentare a Palazzo Madama le sale dove visse il Caravaggio, ospite del cardinal Francesco Maria Bourbon del Monte. C'è anche chi, il segretario del partito della Lega, lo propone ufficialmente e sembra felice di dare ascolto ai desideri dell'immacolato statista.

Il Paese dell'eterna commedia dell'arte. Il Paese dei campanelli. Il Paese dei balocchi.

Sconfitta è stata l'Italia, «dolce terra latina».

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Una stagione all'inferno


Quante sono nel «fiocco della vita» le silenziose lune che sorgono e muoiono contemplando i deserti, il mare, le montagne, i paesi, le città? Per un lungo anno sono tramontate su un mondo nebuloso, malato di un morbo mortale, popolato di uomini smarriti, un esercito sconfitto.

I più erano certi che la scienza, con i suoi immaginifici saperi, i suoi laboratori zeppi di alambicchi, le scoperte salvatrici, avrebbe vinto la partita, distrutto subitaneamente il male. Ora si ritrovano delusi, sgomenti e fragili.

Di nuovo è carnevale, il compleanno del contagio. Bambini travestiti da Zorro giocano a gettarsi addosso stelle filanti e coriandoli che finiscono a colorare i marciapiedi e la piazza di Santa Maria delle Grazie deserta di turisti. L'allegria mascherata.

La neonata ondata del Covid-19 impaura più della prima, creando interrogativi che si moltiplicano inquietanti. Soltanto il vaccino di cui non si smette di discutere fa da stella cometa, salvator mundi. Sarà sufficiente un'iniezione, o meglio due, del farmaco miracoloso a liberare l'umanità dall'angoscia? Qual è la fonte del male?

Nella Peste di Camus sono i topi morti, a Orano, a provocarlo, ma ora tutto è irreale, metafisico, un'astrazione crudele. Come nasce il Covid-19? La sua fonte è un mistero. Il portatore è un animale, un pipistrello, come a Wuhan, in Cina? Un pangolino africano, le scimmie di Bali, un vitello squartato, un'arnia di api, una lucertola senza coda? Oppure viene dall'uomo, dal cemento inquinato dove una volta fiorivano giardini, dove sorgevano foreste?

Uomini e donne diventati, così come son conciati, irriconoscibili mostri con indosso mascherine, face shields, cappucci, passamontagna, gualdrappe e barracani camminano con passo incerto nelle strade svuotate delle città e osservandoli si ha una sensazione di paura repressa e di provvisorietà della mente e del cuore.

Le mani sono portatrici del morbo, è vietato anche un toccamento fuggevole, un abbraccio. Le persone si salutano sfiorandosi i gomiti. Sembrano, a vederlo fare, scene di un teatro surreale o un ballo in maschera, tra ironia e tragedia.

I divieti, gli stop and go si susseguono, cancellati subito dopo da ordinanze, decreti che impongono l'opposto. I bar, i ristoranti chiusi, i musei, le biblioteche, i teatri serrati tolgono ogni possibilità d'incontro, di dialogo, di chiacchiera. Il silenzio della repressione.


A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. [...] Garzoni e giovani licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi del capitale; de' padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina.

Non è la cronaca nera di un giornale di oggi, ma una pagina manzoniana sulla peste del 1630. Anche allora le interpretazioni del contagio furono difformi. Per i preti la peste era un fulmine scagliato da Dio per punire i mortali peccatori; secondo i medici la corruzione dell'aria era provocata dal putridume venuto su dalla terra marcita; a giudizio dei più dei cittadini furono invece gli untori a diffonderla, sulle muraglie delle città, sulle pusterle, con i loro unguenti infernali: «Era giallo e duro come l'oglio gelato nel tempo dell'inverno» confessò ai gendarmi un uomo costretto a parlare dopo feroci torture.


Le città distinte tra loro, a tempi alterni, in zona gialla, arancione, rossa, secondo la conta dei morti, la mutevole pericolosità del contagio, il numero dei posti letto in terapia intensiva degli ospedali, sembrano far rivivere l'Italia ottocentesca divisa in staterelli: il Regno delle due Sicilie, il Granducato di Toscana, il Regno di Sardegna, lo Stato pontificio e l'Impero absburgico di cui la Lombardia fu parte integrante e in cima, ora, alle classifiche del male. Responsabili l'ignoranza, l'incompetenza politica e culturale dei suoi amministratori, abili nell'incensarsi, incuranti del loro non sapere, privi di una salvifica autocritica, eredi partecipi dell'antica retorica e della supponenza nate dall'odor dei soldi - il bene sommo -, accumulati con la ricchezza degli opifici e con la capacità nel gestire ingegnosi commerci nell'intero mondo.

[...]


La crisi è interrotta da un cupo ed emozionato messaggio del presidente della Repubblica, uomo timido, schivo, di poche parole. Devono avergli bruciato il cuore quella sera del 21 febbraio 2021 quando ha dipinto la cruda immagine di un Paese alla ventura, lacerato dal dramma sanitario, sociale, economico-finanziario. È un SOS a se stesso e agli italiani sulla gravità della situazione e sull'incapacità di capire della politica. Non vuol sciogliere le Camere, spiega con minuzia, e il giorno dopo affida l'incarico di formare il Governo a Mario Draghi, economista d'alto livello culturale, allievo prediletto di Federico Caffè , maestro anomalo di libertà, keinesiano senza incrinature, l'uomo che nel 1987 scomparve una mattina di primavera dalla scena del mondo e di cui non si seppe più nulla nonostante le appassionate ricerche.

Negli anni Draghi è diventato l'uomo della Grande Banca, padrona delle sorti spesso magre dei popoli. Come presidente della Banca centrale europea è riuscito a salvare l'Euro pericolante ed è diventato l'italiano più conosciuto nel mondo dei soldi e chi ne possiede, infatti, esulta.

Si forma il «Governo di unità» vagheggiato quella sera dal presidente della Repubblica, un governo di emergenza senza «alcuna formula politica», nato dalla paralisi progressiva del parlamentarismo. I ministri economici vengono scelti oculatamente secondo le loro qualità di uomini della finanza che il capo del governo ben conosce. Il loro compito primario è quello di risolvere il problema nodale del Recovery fund, trascurato dal precedente ministero: avrebbe dovuto documentare e completare, e non l'ha fatto, le motivazioni dell'uso dei 248 miliardi destinati all'Italia dalla Comunità europea che ha la necessità e il dovere di saperlo, pena la perdita del gran sussidio.

I politici cedono le armi, ma non si zittiscono le chiacchiere, i bisbigli, non si smussano le mai morte trarne di partito, le micragnose prerogative, i personalismi da pochi soldi, i diritti senza doveri. Il nuovo capo del Governo non conosce quella giungla.

Una repubblica casalinga, una Weimar del Duemila con la sua pericolosa «democrazia contrattata»? Un mantello di Arlecchino, piuttosto, coi colori naturalmente discordanti, erede di un tempo da dimenticare per i suoi comportamenti non esemplari. Il governo Draghi è composto, oltre che da economisti, da uomini e donne riapparsi come fantasmi, dopo che nei decenni passati fecero regredire il Paese seppellendo le regole elementari della democrazia, preoccupati soltanto dei propri interessi privati o di bottega. Si sperava che fossero spariti per sempre, e invece sono ben vivi con i loro dissidi e le loro basse manovre subito riapparse.

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La bottiglia della speranza


Le ambulanze hanno ricominciato a ululare come bestie ferite. Rompono i giorni e le notti. Le curve del contagio salgono di nuovo. Due milioni di morti hanno già riempito i cimiteri del mondo, mezzo milione in Europa, più di centomila soltanto in Italia. Il nemico occulto ha sfondato il fronte, una Caporetto che non ha alle spalle una linea del Piave. Negli Stati Uniti i morti sono quasi mezzo milione, i caduti di una guerra mondiale, un morto ogni venti secondi, manca anche il legno degli alberi per costruire le bare.

Un'ansiosa attesa rompe le menti, la paura ha preso corpo, l'immagine della bella estate inventata per infondersi coraggio è lontana.

«Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca» diceva l'antica canzone veneziana quarantottesca.

Si può amaramente ricordare il verso di un poeta, Nelo Risi:

Sotto il cielo d'Italia fatto a scacchi.


Il contagio è davvero la nuca di una grossa testa del tragico Novecento, parte integrante del secolo passato, l'ultimo anello di una catena di quel che è successo dopo i disastri e i capricci della Seconda guerra mondiale, più di sessanta milioni di morti, venticinque milioni soltanto nell'Unione Sovietica, dove l'Armata rossa si svenò per difendere la patria e per sconfiggere il nazismo.

Dopo i lager di Hitler, i gulag di Stalin; dopo la Shoah, l'odio assaluto, vergogna del mondo, inimmaginabile - è passato quasi un secolo - se si ripensa ancora oggi all'orrore di quel che allora accadde; dopo la minaccia della distruzione nucleare, con le bombe atomiche custodite negli hangar degli aeroporti del mondo, anche in Italia, anche oggi, sempre pronte a esplodere. Un universo devastato.

Dopo il crudo dopoguerra, il difficile ritorno a casa di milioni di uomini; dopo la rinascita economica coi suoi barlumi di benessere; dopo la Guerra fredda che per decenni divide il mondo in due e svilisce l'umanità. Dopo la strategia della tensione, di nuovo la morte, tante esistenze spezzate dalle stragi, Piazza Fontana, la stazione di Bologna. Dopo il terrorismo con gli asfalti delle città insanguinati all'alba. Dopo le efferate esecuzioni della mafia, organizzazione centenaria criminal-politica che prospera in un Paese dell'Europa colta, non dell'Africa più nera, padrona o quasi, in indecenti combutte istituzionali, di quattro regioni italiane, portatrice di degrado, assassina di valorosi uomini dello Stato che si sono battuti per un'Italia migliore.


Il Covid-19, il nemico invisibile, è l'ultimo dei simboli capace di completare il tragico quadro del Novecento, l'epidemia che ha provocato e sta ancora provocando la morte di milioni di uomini e di donne. Ha paralizzato società affluenti, economie, modi di vivere. Ha creato povertà, disoccupazione, miseria. Ha cancellato l'idea di futuro dell'umanità, è davvero la nuova ultima furia del nostro tempo funesto.

Vengono in mente la peste, il colera, la spagnola, i contagi del passato. Ma il Covid-19, con le sue varianti, inglese, brasiliana, sudafricana, indiana, è un mistero. Un refolo di aria malata, una folata di vento che colpisce a morte il cuore?

[...]

Nell'ultima scena di Napoli milionaria Eduardo De Filippo fa dire ad Amalia, la moglie di Gennaro Jovine, tramviere disoccupato, protagonista della commedia: «Come ci risaneremo? Come potremo diventare quelli di una volta? Quando?».

Gennaro le risponde con il suo tono di pronta saggezza: «S'ha da aspettà, Amà. Ha da passà 'a nuttata».

La battuta è stata detta, ridetta, banalizzata. Ma il respiro di un'ora priva di certezze è rimasto intatto. Quanto sarà lunga quella notte che è la nostra notte?

L'Italia si è rotta sotto i suoi mille campanili, nei paesi, nelle città, in un tempo che sembra non finire mai, travagliata da una crisi profonda.


Chi può donarci in questi anni desolati, nel «fuoco della vita» che ci resta, un barlume della speranza smarrita?

La bottiglia finora non è arrivata dal mare. «L'onda, vuota, si rompe sulla punta, a Finisterre.»

Milano, 18 marzo 2021

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