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| << | < | > | >> |Pagina 3Primo racconto1. L'amore, che dire, se ne parla tanto, ma non credo di aver usato spesso la parola, ho l'impressione, anzi, di non essermene servito mai, anche se ho amato, certo che ho amato, ho amato fino a perdere la testa e i sentimenti. L'amore come l'ho conosciuto io, infatti, è una lava di vita grezza che brucia vita fine, un'eruzione che cancella la comprensione e la pietà, la ragione e le ragioni, la geografia e la storia, la salute e la malattia, la ricchezza e la povertà, l'eccezione e la regola. Resta solo una smania che torce e distorce, un'ossessione senza rimedio: lei dov'è, dove non è, cosa pensa, cosa fa, cosa ha detto, qual era il significato vero di quella frase, cosa mi sta tacendo, e se è stata bene come sono stato bene io, e se seguita a stare bene ora che sono lontano, o se invece la mia assenza la debilita come la sua fa con me, annichilendomi, togliendomi tutta l'energia che invece genera la sua presenza, cosa sono senza di lei, un orologio fermo all'angolo di una strada trafficata, ah la sua voce invece, ah starle accanto, accorciare le distanze, azzerarle, cancellare chilometri, metri, centimetri, millimetri, e fondermi, confondermi, smettere di essere io, anzi già mi sembra di non esserlo mai stato se non in lei, nel piacere di lei, e questo mi rende orgoglioso, mi fa allegro, e mi deprime, mi intristisce, e di nuovo mi riaccende, mi elettrizza, quanto le voglio bene, si:, ciò che voglio è soltanto il suo bene, sempre, qualunque cosa accada, anche se si sottrae, anche se ama altri, anche se mi umilia, anche se mi svuota di tutto, persino della capacità di volerle bene. Che cose assurde possono accadere nella testa, volere il bene senza riuscire piú a voler bene, volere il male pur seguitando a voler bene. A me è successo, perciò ho scansato la parola il piú possibile, non so che farci con l'amor serafico, l'amore confortevole, l'amore che scampanella, l'amore che purifica, l'amor patetico: è per estraneità che l'ho usata cosí poco nel corso della mia lunga vita. Ne ho usate invece molte altre - smania, furia, languore, smarrimento, necessità, urgenza, desiderio -, troppe temo, pesco in cinquemila anni di scrittura e potrei tirare avanti chissà per quanto. Ma adesso mi preme passare a Teresa, è lei che s'è sempre rifiutata di stare dentro quella combinazione di cinque lettere e tuttavia ne ha pretese, e ne pretende ancora, mille e mille altre. Di Teresa ero invaghito già quando sedeva in un banco accanto alla finestra ed era una delle mie allieve piú vivaci. Ma me ne resi conto solo quando, diplomata ormai da un anno, mi telefonò, venne ad aspettarmi sotto scuola, mi raccontò la sua turbolenta vita universitaria passeggiando in una bella giornata d'autunno e all'improvviso mi baciò. Fu quel bacio a dare formalmente inizio al nostro rapporto, che durò in complesso circa tre anni tra esigenze mai davvero soddisfatte di reciproco assoluto possesso e tensioni che finivano in insulti, pianti e morsi. Mi ricordo una sera in casa di conoscenti, eravamo sette o otto persone. Sedevo accanto a una ragazza originaria di Arles che era a Roma da qualche mese e aveva un modo cosí seducente di scombinare l'italiano, che avrei voluto ascoltare soltanto la sua voce. Invece chiacchieravano tutti e soprattutto Teresa, che diceva al suo solito modo generoso cose molto intelligenti con estrema precisione. Io, devo ammettere, da qualche mese avevo cominciato a provare fastidio per quel suo voler essere sempre al centro alzando il livello anche della chiacchiera piú frivola, perciò tendevo spesso a interromperla con qualche ironia, ma lei mi fulminava con lo sguardo e diceva: scusa, sto parlando io. In quella occasione forse lo feci una volta più del sopportabile, mi piaceva la ragazza di Arles e volevo piacerle. Teresa allora mi si rivolse furibonda, afferrò il coltello del pane e gridò: provati a tagliarmi di nuovo le parole in bocca e ti taglio la lingua e qualcos'altro. Ci affrontammo in pubblico come se fossimo soli, e oggi penso che lo fossimo davvero, tanto eravamo assorbiti l'uno dall'altra nel bene e nel male. C'erano sí i nostri conoscenti, c'era la ragazza di Arles, ma si trattava di figure inessenziali, contava il nostro continuo volerci e respingerci. Era come se ci piacessimo senza misura solo per poter appurare che ci detestavamo. O viceversa. Non mancavano naturalmente i periodi felici e ragionavamo di tutto, scherzavamo, io le facevo il solletico fino a che, per farmi smettere, lei non mi dava lunghissimi baci. Ma non durava, eravamo noi stessi i perturbatori della nostra convivenza. Sembravamo convinti che la violenza con cui mettevamo continuamente disordine tra noi ci avrebbe trasformati alla fine nella coppia giusta, ma quella meta, invece che avvicinarsi, si allontanava. La volta che scoprii, proprio grazie a un pettegolezzo della ragazza di Arles, che Teresa s'era mostrata in atteggiamenti fin troppo intimi con un noto macilento accademico scartellato, i denti guasti, gli occhi malati, le dita a zampa di ragno con cui strimpellava il piano per studentesse adoranti, mi prese una tale ripugnanza di lei che tornai a casa e senza spiegazioni l'afferrai per i capelli, la trascinai in bagno, volevo lavarla io stesso in ogni millimetro del corpo con il sapone di Marsiglia. Non gridavo, le parlavo con la solita ironia, dicevo: io sono di ampie vedute, fa' quello che ti pare, ma non con uno cosí disgustoso. E lei si divincolava, scalciava, mi tirava schiaffi, mi graffiava, gridava ecco cosa sei veramente, vergogna, vergogna. Litigammo, quella volta, in un modo che pareva finita, non si poteva tornare indietro dopo le cose che ci eravamo rinfacciati. Tuttavia anche in quell'occasione riuscimmo a riconciliarci. Ce ne stemmo abbracciati fino all'alba, ridendo della ragazza di Arles, del pianista e docente di citologia. Ma adesso eravamo spaventati per come avevamo rischiato di perderci. E fu quello spavento, credo, a spingerci subito dopo a cercare un modo che fissasse per sempre la nostra reciproca dipendenza. Teresa avanzò con cautela una proposta, disse: facciamo che io ti racconto un mio segreto cosí orribile che nemmeno tra me e me ho mai provato a raccontarmelo, e tu però me ne devi confidare uno equivalente, qualcosa che se si sapesse ti distruggerebbe per sempre. Mi sorrise come se mi stesse invitando a un gioco, ma mi sembrò sotto sotto in gran tensione. L'ansia prese subito anche me, mi stupí, mi preoccupò che lei, a ventitre anni, potesse avere davvero un segreto cosí indicibile. Io, che ne avevo trentatre, ce l'avevo, e si trattava di una storia tanto imbarazzante che soltanto a pensarci arrossivo, mi fissavo la punta delle scarpe, aspettavo che il turbamento passasse. Ci girammo un po' intorno, questionando su chi si confidava per primo. - Prima tu, - disse lei, e il tono era quello ironicamente imperioso che usava quando traboccava d'affetto. - No, prima tu, devo valutare se il tuo segreto è orribile quanto il mio. - E perché io mi devo fidare e tu no? - Perché conosco il mio segreto e mi pare impossibile che tu ne abbia uno cosí inconfessabile. Alla fine, tira e molla, cedette, indispettita soprattutto - ritengo - dal fatto che non la considerassi capace di azioni innominabili. La lasciai parlare senza mai interrompere e alla fine non riuscii a trovare una parola adeguata di commento. - Be'? - È brutto. - Te l'avevo detto, ora tocca a te. E se mi racconti una sciocchezza, me ne vado e non mi vedi piú. Mi confidai, prima in modo frammentario, poi in modo sempre piú articolato, non volevo smettere di parlare, fu lei che disse basta. Tirai un lungo sospiro, dissi: - Ora sai di me ciò che non ha mai saputo nessuno. - Anche tu di me. - Non possiamo lasciarci piú, siamo davvero l'uno nelle mani dell'altra. - Sí. - Non sei contenta? - Sí. - È stata un'idea tua. - Certo. - Ti voglio bene. - Anch'io. - Ma io tanto. - Io tantissimo.
Pochi giorni dopo, senza litigare, anzi con un formulario
cortese che non avevamo mai usato tra noi, ci dicemmo che la nostra relazione
era ormai esaurita e di comune accordo ci lasciammo.
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