Copertina
Autore Domenico Starnone
Titolo Via Gemito
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2000, I Narratori , pag. 392, dim. 140x220x25 mm , Isbn 978-88-07-01576-2
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa italiana
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Pagina 11 [ inizio libro ]

Quando mio padre mi disse di aver picchiato mia madre una volta sola durante i ventitré anni del loro matrimonio, nemmeno gli risposi. Era parecchio che non obiettavo più niente ai suoi racconti pieni di avvenimenti, date e dettagli tutti inventati. Da ragazzo lo consideravo un bugiardo e mi vergognavo come se le sue bugie mi appartenessero. Ora, da grande, mi sembrava che non mentisse affatto. Credeva che le sue parole fossero in grado di rifare i fatti secondo i desideri o i rimorsi.

Qualche giorno dopo, però, quella sua puntigliosa precisazione mi ritornò in mente. All'inizio provai disagio, poi un fastidio crescente, quindi la voglia di attaccanni al telefono e gridargli: "Si? Una sola volta? E le botte che mi ricordo io fino a poco prima della sua morte cos'erano, carezze?".

Naturalmente non gli telefonai. Pur recitando da decenni il ruolo del figlio devoto, avevo già trovato il modo di dargli sufficienti dispiaceri. E poi non serviva a niente aggredirlo frontalmente. Avrebbe dischiuso la bocca perplesso, come faceva quando gli accadeva qualcosa di imprevisto, per oppormi subito dopo il tono mite che riservava a noi figli ed elencarmi soffertamente in interurbana le prove inoppugnabili del male che aveva fatto non lui a mia madre, ma mia madre a lui. Perciò pensai: "Si inventi quello che vuole, cosa cambia?".

In realtà mi resi conto che cambiava molto. Cambiavo io, tanto per cominciare, e in un modo che non mi piaceva.

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Pagina 114

Avevo dubbi seri sulla mia reale struttura corporea, specialmente quella sera di marzo. Entrai nella stanza con cautela temendo di vedere nello specchio non tanto l'ombra di Modesta, ma un riflesso che all'improvviso mi rivelasse la mia vera natura.

Non successe. Nell'ambiente fievolmente illuminato dal lumino sul secretè, nel riflesso dello specchio, non c'erano coccodrilli o ippopotami o altri animali pericolosi, progenitori o genitori indegni penetrati a tradimento nella camera e ora in agguato nell'argento del vetro, sotto il letto matrimoniale o in cima all'armadio zeppo di scatole e rotoli di carta disegnata e tele dipinte. Nella camera da letto, tra la tunalètt e la finestra coi vetri vibranti di vento (aperta, chiusa?), c'era un pavone.

Il pavone era enorme. Con la testa crestata sfiorava il soffitto, ne sentivo il fruscio contro l'intonaco mentre la muoveva con lievi scatti. Aveva il petto gonfio di un azzurro violaceo come il mare quando il sole è appena tramontato. E sventagliava una ruota maestosa e occhiuta che dipingeva la stanza di tanti colori quanti mio padre ne lasciava sulla sua tavolozza in camera da pranzo, mescolati con perizia lungo la costa di paste lucide e dense.

Scrivo del bambino che ha visto il pavone. Se ne sta immobile, abbagliato, e tuttavia incocca e scocca disordinaramente lampi di piacere con una energia insospettata. Poi formula due pensieri che custodisco gelosamente da qualche parte nella forma di allora, due sfere d'acciaio nitidissime e mute.

Pensa dapprima, il bambino: gli piacerà; e subito dopo: non gli piacerà. A sun padre, cioè, piacerà o non piacerà quell'animale di così fulgida potenza, che il cuore può restare fermo e tuttavia vivo, e ogni emozione seguitare il suo tracciato vibrante ma senza i guizzi improvvisi che tolgono il respiro? Permetterà che resti lì nella stanza? Parlerà a lungo, appassionatamente dei colori delle penne, dei loro accostamenti, di come sono possibili quegli effetti, delle tecniche più efficaci per rifarli sulla tela (di colori sapeva discutere come nessun genitore di sua conoscenza)? O correrà alla finestra con urla selvagge, ricacciando l'animale oltre il davanzale a pugni calci sputi e pisciate in faccia, nella campagna al di là della strada, da cui chissà com'è venuto? O lo ucciderà facendolo a pezzi come ha fatto con la cicogna che ha portato di recente il terzo fratello? O lo afferrerà per il collo e agirà come ha agito solo due mesi fa, quando, perché la moglie potesse bere un brodo rinforzante dopo le fatiche del parto, è andato a comprare un pollo vivo e poi ha cercato di ucciderlo con un coltello, ma la bestia si dimenava con l'occhio sbarrato e agitava la cresta rossa e contraeva le zampe gialle e si spennazzava per lo sforzo di liberarsi, e lui, il padre nell'esercizio delle sue funzioni sacrificali, era bianco come un morto ma cercava ugualmente di segargli il collo facendo sgocciolare il nero sangue nel lavandino di pietra, e poiché non ci riusciva, lasciava cadere il coltello con una smorfia di ribrezzo, come se gli fosse scappato casualmente di mano, e il pollo si liberava e sprizzava sangue dal collo e scappava ora correndo ora volando ora tornando a correre per la casa (tutti dietro: il padre, il secondogenito di tre anni, nonna Nannina, questo bambino di cinque anni che è il primogenito), prima per il corridoio, poi nella camera da letto su per il corpo sfinito di Rusinè col neonato a lato, quindi ancora per il corridoio e infine in camera da pranzo, dove aveva spruzzato sangue sul tavolo nuovo, sulle tele appena dipinte che giacevano ad asciugare, sui colori della tavolozza, sul davanzale, prima di saltar giù dal secondo piano ad ali spiegate e testa quasi mozza per andare a morire tra i cespugli della campagna là di fronte?

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Pagina 175

"Meno male che non sei venuto come lui" mi ripeteva continuamente mia nonna. E non so più in quale occasione una volta me lo confermò anche mia madre: "No" disse, "non sei venuto come lui", sebbene in altre occasioni preferisse dirmi tutto l'opposto ricorrendo benevolmente alla frase: "Sei più scemo di tuo padre".

Non sapevo ancora come fossi. Diciamo che tendevo a tacere più che a parlare, anche con me stesso. Mi difendevo dalle somiglianze con Federì facendo l'umbratile. Con l'adolescenza erano cominciati i tempi in cui consapevolmente detestavo ogni sua parola. L'avrei cambiato volentieri con un padre perito nel corso di un attentato contro i nazisti; o che, sottoposto alla tortura, avesse preferito morire piuttosto che parlare; o che avesse combattuto versando sangue strada dietro strada per liberare Napoli dal tedesco vile e feroce. Fin sotto i vent'anni gli nascosi i miei pensieri, cercai di risparmiarmi i suoi. E anche dopo, nella seconda metà degli anni sessanta, gli scontri fra noi sono stati contenuti e mai di carattere personale. Discutevamo - ma sicuramente la formula è esagerata - di politica. Avevo, all'epoca, accumulato molte informazioni e, cercando di non urtarlo troppo, prima gli davo ragione (sui comunisti stalinisti soprattutto: allora ero grande ammiratore di Trockij e non mi costava fatica consentire sui crimini di Stalin), poi passavo a dargli sistematicamente torto. A un certo punto, inevitabilmente, lui si arrabbiava, diceva che i libri che leggevo non servivano. "Chi se ne fotte di tutta questa merda" esclamava. Mi spiegava che i libri importanti non erano quelli che parlavano di politica, storia e economia, ma d'arte, di letteratura, al massimo di scienza. "Il resto è propaganda, Mimì" concludeva, "lascia perdere la politica: la storia vera la fanno gli artisti, pensa all'arte e alla letteratura, pensa alle cose che contano veramente."

Col tempo mi ero acquietato, ma lui no. Fino a tre anni fa brontolava ancora le stesse cose per telefono: "Tutto passa, guagliò. La lira cambia di valore e tra poco non si chiamerà più lira. Le sigle dei vecchi partiti già nessuno se le ricorda più. E i nomi dei politici, 'sti scurnacchiati, sono nomi di nessuno. Se te li ricordi, te li ricordi solo per il male che hanno fatto. Perciò pensiamo a noi. Almeno il nome cerchiamo di farlo durare".

Gli rispondevo tra me e me: "Papà, il nome non è che un raschio di gola, uno sbaffo dell'inchiostro". Ma lui non riusciva a rassegnarsi. Voleva che gli dicessi sì, è vero, tutto passa, ma tu resterai, i quadri che hai fatto dureranno per sempre, con la firma in rosso, proprio in basso a destra. Poiché non glielo dicevo, si infiammava, mi costringeva a interurbane interminabili. Chiedeva: "Ti ricordi dei Bevitori, Mimì?". E si lagnava per l'ennesíma volta delle condizioni in cui aveva dovuto lavorare e dei torti che gli avevano fatto i parenti come gli estranei e di tutti quelli che l'avevano ostacolato. Lo ascoltavo e presto, con disagio crescente, ridiventavo bambino. Gli sentivo pronunciare ogni parola come se avesse intorno fumi e fuochi. A un certo punto non l'ascoltavo più e me lo immaginavo in cima al famoso tram rovesciato di chissà quale manifestazione di piazza, col trolley che guizzava, una folla tutt'intorno di facinorosi pronti alle barricate, mentre gridava: "Strunzemmèrd, compagni di questo cazzo, come ci andiamo domani a faticare, se adesso il tram lo bruciate?". Tra la folla ci mettevo tutti i suoi nemici veri e immaginari, anche Mario Alicata, alto e un po' curvo, che lo fissava allibito ma poi scuoteva la testa e si allontanava con la schiena gobba.

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Pagina 178

A casa di mio fratello, sebbene stremato dalla giornata di vagabondaggio, feci fatica a prendere sonno. Mi girai, mi rigirai, riaccesi la luce, la spensi, mi rimisi giù. Fascista, mi dicevo, era una brutta parola, specie in ambiente comunista. Se Lippi parlava di mio padre a quel modo, voleva dire che lo considerava una sorta di visitatore, uno che faceva una capatina di tanto in tanto e di cui si sapeva poco, non un iscritto, non uno stipendiato della "Voce del Mezzogiorno".

Contraddizioni delle storie di Federì. Oggi una cosa pareva vera, domani falsa. Comunista, fascista. Mio padre certo non si sentiva fascista. Si sentiva uno che si curava solo della sua arte e tra l'altro, insisteva, con un cervello grosso così: libero, audace, pieno di grandi idee. Insomma, dichiarava spesso e spavaldamente, se ne fotteva del fascismo e del comunismo e dei monarchici e dei democraticicristiani. Quando entrava in contatto con quella gente, lo faceva solo per capire se erano capaci di apprezzare come pittava. Che avesse avuto cinque anni all'epoca della marcia su Roma e venticinque durante la notte del Gran Consiglio gli pareva una cosa di puro paesaggio, tipo l'ombra di un albero sulla facciata di un edíficio. La sua infanzia, la sua adolescenza, la sua giovinezza erano passate accanto a quell'albero, a quell'ombra, a quella facciata, e allora? Lui, si impennava con superbia, era lui e basta. Le parole erano le sue, le convinzioni erano le sue, le idee che gli nascevano in testa erano le sue, la perizia di pittore era la sua. Si rifiutava di pensare che i fascisti gli avessero lasciato le loro scorie dentro. Non era, strillava, della razza dei Littori che avevano fatto il bello e il cattivo tempo ai Littoríali e ora, come se niente fosse, comandavano dappertutto, anche dentro la Federazione comunista, anche dentro "l'Unità". Non era come Raffaele Lippi. Lippi, si, era fascista. Solo dieci anni prima si sarebbe dato da fare per pittare il ritratto di Mussolini. Adesso si stava dando da fare per pittare quello di Stalin.

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Pagina 313

Adesso Rusinè, per via della malattia di Geppe, si era di nuovo rivolta alla chiesa, soprattutto a un santo martire di origine egiziana, san Ciro, che insieme al suo compagno Giovanni, anche lui santo martire, guariva malattie di tutti i tipi nella chiesa del Gesù Nuovo e in quella di piazza San Ciro a Portici. Diventò molto devota. Vedeva mio fratello intristito, col suo cappelletto di lana in testa per evitare spifferi e umidità, e si rivolgeva al santo perché lo guarisse. Successe cosí che fece un voto. Promise che se Geppe fosse guarito, lui e io avremmo fatto la prima comunione vestiti col saio come san Ciro. Perciò cominciò a mandarci al catechismo.

Mio padre non si è mai pronunciato su quel voto. Ne dedussi già allora che non doveva essere contrario. Del resto, anche se detestava la chiesa e i preti e i grigi bizzòchi sempre a cazzo moscio e le bizzòche nere con la féssa acida, lui stesso si rivolgeva spesso al padreterno e ai santi o per coprirli di insulti o per chiedere qualcosa di urgente in momenti di difficoltà. Era fatto così: le chiese lo intristivano, il ruolo centrale che preti e papi si attribuivano lo faceva arrabbiare, diceva soprattutto che non era tipo da mettersi in ginocchio. Delle manifestazioni religiose gli piacevano solo le feste cittadine e rionali: quella di Piedigrotta, quella di sant'Antonio Abate, quella della Madonna delle Grazie che si faceva proprio nella via Casanova, la via della sua infanzia.

Era un grande spettacolo. Dal balcone della casa di nonna Funzella Fdrì vedeva tutto e, anche in tarda età, ricordava ogni dettaglio. Arrivavano gli operai di buon mattino, scaricavano i pali di legno dipinti di blu, li piantavano ai bordi dei marciapiedi. Era gente che lavorava sodo sotto la direzione di un mastro supervisore della festa, un capo sempre scontento a cui gli operai sibilavano sgobbando, tra smorfie e sudore: figliezòccola, canteremmèrd, mannaggiopatatèm, vienaccà strunz ca tesguarromàzz e altro che il bambino ascoltava con interesse, abituandosi a considerare compatibili la bestemmia, l'oscenità, le Grazie, la Madonna e tutto quello scintillio di colori: il sole che brillava sulla lamiera in cima ai pali blu, le bandiere che ne spenzolavano, le strisce di legno decorato che mettevano in collegamento le coppie di pali, le ampolle di vetro con lucignoli immersi nell'olio che quando, col buio, erano accese, diventavano disegno, figurazione, festa della madonna e dei santi e degli occhi.

Mio padre raccontava con piacere delle feste. La luce elettrica - diceva - c'era già, ma la luminaria in via Casanova si seguitò a farla per un po' come in passato. Ci fu una fase di transizione in cui l'ampolla con l'olio e col lucignolo brillava accanto ai lampioni a gas e allo splendore degli archi voltaici, luce d'olio, di gas e di elettricità, paesaggi con coloritura diversa e diversa illuminazione. Fdrì guardava e imparava: cambia la luce, cambia il colore, cambia l'ombra.

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