Autore Domenico Starnone
Titolo Lacci
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Supercoralli , pag. 138, cop.ril.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-19479-6
LettoreGiorgia Pezzali, 2015
Classe narrativa italiana












 

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Pagina 5

Capitolo primo


1.

Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie. Lo so che questo una volta ti piaceva e adesso, all'improvviso, ti dà fastidio. Lo so che fai finta che non esisto e che non sono mai esistita perché non vuoi fare brutta figura con la gente molto colta che frequenti. Lo so che avere una vita ordinata, doverti ritirare a casa a ora di cena, dormire con me e non con chi ti pare, ti fa sentire cretino. Lo so che ti vergogni di dire: vedete, mi sono sposato l'11 ottobre del 1962, a ventidue anni; vedete, ho detto sí davanti al prete, in una chiesa del quartiere Stella, e l'ho fatto solo per amore, non dovevo mettere riparo a niente; vedete, ho delle responsabilità, e se non capite cosa significa avere delle responsabilità siete gente meschina. Lo so, lo so benissimo. Ma che tu lo voglia o no il dato di fatto è questo: io sono tua moglie e tu sei mio marito, siamo sposati da dodici anni - dodici anni a ottobre - e abbiamo due figli, Sandro, nato nel 1965, e Anna, nata nel 1969. Ti devo mostrare i documenti per farti ragionare?

Basta, scusa, sono eccessiva. Ti conosco, lo so che sei una persona perbene. Ma per favore, appena leggi questa lettera torna a casa. O, se ancora non te la senti, scrivimi e spiegami cosa ti sta succedendo. Cercherò di capire, te lo prometto. Mi è già chiaro che hai bisogno di piú libertà, ed è giusto, io e i tuoi figli cercheremo di pesarti il meno possibile. Però mi devi dire per filo e per segno cosa c'è tra te e questa ragazza. Sono passati sei giorni e né telefoni, né scrivi, né ti fai vedere. Sandro mi chiede di te, Anna non vuole lavarsi i capelli perché dice che glieli sai asciugare bene soltanto tu. Non basta giurare che questa signora o signorina non ti interessa, che non la vedrai piú, che per te non conta, che è stata solo l'occasione di una crisi che covavi da tempo. Dimmi quanti anni ha, come si chiama, se studia, se lavora, se non fa niente. Scommetto che t'ha baciato lei per prima. Tu non sei capace di prendere l'iniziativa, lo so, o ti tirano dentro o non ti muovi. E adesso sei stordito, ho visto lo sguardo che avevi quando mi hai detto: sono stato con un'altra. Vuoi sapere cosa penso? Penso che non ti sei ancora reso conto di ciò che mi hai fatto. Capisci che è come se mi avessi infilato una mano in gola e tirato, tirato, tirato, fino a strapparmi quello che ho nel petto?


2.

A leggere quello che scrivi, pare che io sia il carnefice e tu la vittima. Questo non lo sopporto. Sto mettendo tutto l'impegno di cui sono capace, mi sto sottoponendo a uno sforzo che nemmeno immagini, e la vittima saresti tu? Perché? Perché ho alzato un po' la voce, perché ho spaccato la caraffa dell'acqua? Devi ammettere che avevo qualche ragione. Sei ricomparso senza preavviso dopo quasi un mese di assenza. Parevi tranquillo, persino affettuoso. Ho pensato: meno male, è ritornato in sé. Tu invece, come se niente fosse, mi hai detto che la stessa persona che quattro settimane fa era ai tuoi occhi priva di interesse — bontà tua, hai deciso che era ora di darle un nome, l'hai chiamata Lidia — adesso è cosí importante che non riesci a vivere senza di lei. Se si esclude il momento in cui hai accennato alla sua esistenza, mi hai parlato come se si trattasse di una comunicazione di servizio a partire dalla quale io non avevo che da dire: d'accordo, vattene con questa Lidia, grazie, farò del mio meglio per non arrecarti altro disturbo. E appena ho provato a reagire, mi hai bloccata, sei passato a discorsi generici sulla famiglia: la famiglia nella storia, la famiglia nel mondo, la tua famiglia d'origine, la nostra. Dovevo starmene zitta e buona? Questo pretendevi? Sei ridicolo, certe volte, credi che basti mettere insieme discorsi generali e qualche tua storiella per far quadrare le cose. Ma io sono stufa dei tuoi giochini. Mi hai raccontato per l'ennesima volta, ma con un tono patetico che in genere non usi, come ti hanno guastato l'infanzia i rapporti pessimi tra i tuoi genitori. Hai usato un'immagine a effetto, hai detto che tuo padre aveva messo il filo spinato intorno a tua madre e che ogni volta che vedevi un nodulo di ferro acuminato entrarle nella carne soffrivi. Poi sei passato a noi. M'hai spiegato che come tuo padre aveva fatto male a tutti voi, cosí tu — poiché il suo fantasma d'uomo infelice che vi ha reso infelici ancora ti tormenta — temevi di fare male a Sandro, a Anna e soprattutto a me. Vedi che non mi sono persa una parola? Per molto tempo hai sragionato con tranquillità saccente sui ruoli dentro cui c'eravamo imprigionati sposandoci — il marito, la moglie, la madre, il padre, i figli — e ci hai descritti — me, te, i nostri bambini — come ingranaggi di una macchina priva di senso, costretti a ripetere per sempre gli stessi movimenti insulsi. Sei andato avanti cosí, citandomi ogni tanto qualche libro per zittirmi. All'inizio ho pensato che mi parlavi a quel modo perché ti era successo qualcosa di brutto e non riuscivi a ricordarti chi ero, una persona con sentimenti, pensieri, una voce sua, e non una pupattola del teatrino di Pulcinella che stavi facendo. Ho sospettato abbastanza tardi che ti stavi sforzando di aiutarmi. Volevi farmi capire che, distruggendo la nostra vita in comune, in realtà liberavi me e i bambini, e che per questa tua generosità ti dovevamo essere grati. Oh, grazie, come sei gentile. E ti sei offeso perché ti ho cacciato di casa?

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Pagina 49

È stato un lavoro faticoso, alla fine ho esaminato gli spazi un po' piú sgombri con soddisfazione. A quel punto ho deciso di passare a selezionare i materiali del mio studio. Mi sono seduto per terra con qualche gemito e ho ammucchiato i cocci coi cocci, i libri coi libri, le carte con le carte e cosí via. All'inizio ho lavorato alacremente. Mi addolorava che non pochi volumi si fossero spaccati in due metà, avessero perso la copertina, si fossero squinternati. Ma pazienza, ho tirato avanti disponendo da un lato i libri in buono stato, dall'altro quelli rovinati. Poi però ho commesso l'errore di sfogliarne qualcuno e sono passato quasi senza volerlo a leggere brani che, chissà quando, avevo sottolineato. Mi sono incuriosito. Perché avevo chiuso in un cerchio certe parole. Cosa mi aveva spinto a tracciare punti esclamativi a lato di un brano che ora, a rileggerlo, mi pareva insignificante. Ho dimenticato che stavo facendo un lavoro di riordino per evitare che Vanda al risveglio si avvilisse, ho dimenticato che di fatto ero lí perché non avevo sonno, perché faceva caldo, perché non mi sentivo al sicuro, perché temevo che i ladri tornassero, ci minacciassero, ci legassero al letto e ci picchiassero. Sono stato preso invece dalle mie sottolineature. Ho riletto pagine intere, ho cercato di farmi tornare in mente l'anno in cui mi ero dedicato a quel libro e a quell'altro (1958, 1960, 1962, prima del matrimonio, dopo?), ho rincorso non tanto la coscienza scritta degli autori - erano spesso nomi dimenticati, pagine invecchiate, concetti ormai fuori dai consumi culturali contemporanei - quanto piuttosto la mia coscienza, ciò che in passato m'era sembrato giusto per me, mia convinzione, mio pensiero, mio io in divenire.

La notte s'è fatta silenziosissima. Naturalmente non sono riuscito a ritrovarmi in nessuno dei freghi, in nessuno dei punti esclamativi (cosa accade alle belle frasi che ci entrano nella testa, come ci muovono, come diventano prive di senso, o irriconoscibili o imbarazzanti o ridicole?), e ho finito per lasciar perdere i libri. Sono passato a rimettere in casse o faldoni fogli e foglietti con schede di lettura, quaderni con romanzi e racconti scritti prima dei vent'anni, tantissimi ritagli di giornali con gli articoli che avevo pubblicato io e con quelli di altri che parlavano di me. A quel gran numero di carte ho aggiunto bobine di trasmissioni radiofoniche, cassette e dvd che mi mostravano in televisione nel mio periodo d'oro, tutta roba che Vanda aveva diligentemente custodito pur non mostrando mai particolare interesse per ciò che facevo. Ed ecco, ho recuperato un bel po' di roba che testimoniava come avevo impiegato una vita abbastanza lunga. Ero quel materiale? Ero i freghi sui libri letti, ero i foglietti zeppi di titoli e citazioni (per esempio questo: «Le nostre città sono allevamenti di bestiame; le famiglie, le scuole, le chiese sono i mattatoi dei nostri bambini; i collegi e le università sono le cucine. Da adulti, nel matrimonio e negli affari, mangiamo il prodotto finito»; o anche: «La comparsa dell'amore è sovvertitrice di ogni buon ordinamento sociale della nostra vita»)? Ero un lunghissimo verboso romanzo scritto a vent'anni, dove raccontavo di un ragazzo costretto a sgobbare notte e giorno per pagare al proprio padre tanto oro quanto pesava e cosí liberarsi di lui e della famiglia d'origine? Ero i trafiletti sul contratto dei chimici che avevo pubblicato a metà anni Settanta, ero gli interventi sulla forma-partito, ero le recensioni di libri che discutevano del lavoro operaio alla catena di montaggio, ero piccole trovate divertenti sulla vita quotidiana nelle grandi città - il traffico, le file esasperanti in banca o negli uffici postali -, ero le osservazioni ironiche che mi avevano dato un po' di fama e, passaggio dietro passaggio, mi avevano mutato in autore televisivo di qualche successo, ero le interviste pensose che avevo rilasciato a questo e a quello, ero la critica negativa di Tizio o quella positiva di Caio a ciò che mi ero inventato per la televisione degli anni Ottanta e degli anni Novanta, ero il mio corpo in movimento su un angolo finto di terrazzo, sotto i riflettori che simulavano il giorno pieno, ero la mia voce di trent'anni prima, dialogante, cordiale, superba? Mi ricordai di quanto avevo sgobbato a partire dagli anni Sessanta, una fatica dura per - come si dice - realizzarmi. Questa era la realizzazione? Un concreto accumulo nei decenni di fogli a mano e a stampa, una traccia fatta di freghi, schede, pagine, giornali, dischetti, chiavette usb, hard disk, cloud? Io realizzato, io fatto reale: vale a dire un caos che dal soggiorno poteva dilagare, se solo digitavo Aldo Minori, fino agli archivi di Google?

Mi sono imposto una disciplina: basta leggere o leggiucchiare. Sono tornato al lavoro di selezione. Ho rimesso dentro scatole di cartone i numerosissimi bloc-notes di Vanda, cifre su cifre, una puntigliosa storia economica della nostra famiglia dal 1962 a oggi, foglietti a quadretti su cui segnava dettagliatamente entrate e uscite, e che forse, se lei era d'accordo, era ormai tempo di buttare. Ho ammucchiato al centro della stanza i volumi di cui dovevo sbarazzarmi e ho sistemato alla rinfusa quelli in buono stato sulle scaffalature che non erano state smantellate. Ho poggiato sul tavolo i faldoni coi ritagli di giornale, le scatole coi quaderni, quelle piene di vhs e dvd. Ho messo i cocci che sono riuscito a radunare in un sacco della spazzatura, il sacco si è tagliato in piú punti, l'ho infilato in un altro. Infine ho cominciato a raccogliere anche le foto, immagini di tempi lontanissimi finite accanto a quelle di tempi abbastanza recenti.

Non guardavo le vecchie foto da parecchio, mi sono sembrate brutte e poco interessanti. Ormai ero abituato a quelle digitali, io e Vanda ne avevamo moltissime nei computer: immagini su immagini di montagne, campi, farfalle, rose in boccio o appena schiuse, mari, città, monumenti, dipinti, sculture, e poi parenti, e ex nuore e ex generi, i nuovi compagni dei figli, e i nostri nipoti fissati in ogni fase della crescita, e ragazzini amici dei nostri nipoti. La vita insomma, mai cosí copiosamente documentata. Il presente, il passato prossimo: quello remoto era meglio lasciarlo stare.

Ho evitato di guardarmi, non mi piacevo da vecchio e non mi sono mai piaciuto da giovane. Ho dato invece uno sguardo a Sandro, a Anna da piccoli. Com'erano belli. Ho rivisto i loro fidanzati e fidanzate dell'adolescenza, giovani simpatici presto spariti. Ho ritrovato amici miei e di Vanda che avevo dimenticato, persone che avevamo frequentato intensamente per poi non ricordarne nemmeno piú il nome o passare a chiamarli astiosamente per cognome. Mi sono soffermato su una foto fatta nel nostro cortile chissà da chi, forse da Sandro. Risaliva ai primi tempi in cui c'eravamo stabiliti in quella casa. Insieme a me e a Vanda c'era Nadar, che all'epoca - ho calcolato - doveva essere già sopra i sessanta, ma se paragonato a com'era adesso, pareva giovane. Quanto si continua a cambiare anche in età avanzata, mi sono detto fissandolo per un attimo. Il nostro vicino, nella foto, era alto, piacevole, aveva ancora un po' di capelli in testa. Stavo per accantonare l'immagine quando mi ha colpito Vanda. Per una frazione di secondo ho avuto l'impressione di non conoscerla e mi sono meravigliato. Quanti anni aveva allora, cinquanta, quarantacinque? Mi sono soffermato su altre foto sue, specialmente quelle in bianco e nero. L'impressione di essere di fronte a un'estranea si è consolidata. L'avevo conosciuta nel 1960, io avevo venti anni, lei ventidue. Di quel periodo mi era rimasto in mente poco o niente. Non riuscivo a ricordare se l'avevo mai giudicata bella, a quel tempo la bellezza mi pareva una volgarità. Diciamo che mi era piaciuta, la sentivo piena di grazia, la desideravo con giudiziosa misura. Era una ragazza molto intelligente, attenta. Mi ero innamorato di lei per quelle sue qualità e perché mi pareva straordinario che, pur avendo tante virtú, si fosse innamorata di me. Due anni dopo c'eravamo già sposati e lei era diventata l'organizzatrice rigorosa della vita quotidiana. Una quotidianità di studio e di lavori saltuari, senza soldi, di ascetico risparmio.

Ho riconosciuto i tratti di quel periodo: aveva vestiti poveri cuciti da lei stessa, scarpe scorticate con tacchi consunti, niente trucco intorno agli occhi grandi. Ciò che invece non ho riconosciuto è stata la sua giovinezza. Ecco dunque ciò che mi risultava estraneo, la sua giovinezza. In quelle foto Vanda sprigionava un fulgore di cui io - ho scoperto - non conservavo alcuna memoria, nemmeno una favilla che mi permettesse di dire: sí, lei era cosí. Ho pensato alla persona che adesso dormiva in camera da letto, la persona che era mia moglie da cinquant'anni. Non mi risultava che fosse stata davvero come appariva in quelle immagini. Perché? L'avevo guardata distrattamente fin dal primo incontro? Quanto di lei avevo lasciato in un canto dell'occhio senza farci caso? Ho ripescato tutte le sue foto dal 1960 al 1974. Mi sono fermato a quell'anno per noi significativo: non erano molte, ci si fotografava poco all'epoca. Testimoniavano di una donna che fin sotto i quaranta era stata attraente, forse persino bella. Ho esaminato una foto a colori rossastri, dietro c'era scritto a matita: 1973. Mostrava Vanda con Sandro, che allora aveva otto anni, e Anna, che ne aveva quattro. I bambini sembravano felici, si stringevano alla mamma che pareva a sua volta contenta, e tutt'e tre mi guardavano divertiti mentre li fotografavo. Il loro sguardo allegro era la traccia della mia presenza, provava che in quel momento c'ero anch'io. Eppure solo adesso mi accorgevo che mia moglie sprizzava un piacere di vivere che la rendeva abbagliante. Ho chiuso in fretta le fotografie in un paio di scatole di metallo. Tutto perduto per sbadataggine. Non avevo mai fatto veramente attenzione a Vanda? E del resto che senso aveva quella domanda, ormai non potevo appurare alcunché. Nella stanza da letto, solo le iridi verdi sotto le palpebre grevi erano rimaste come cinque decenni prima.

Mi sono tirato su, ho guardato l'orologio. Erano le tre e dieci, si sentiva solo il verso di qualche uccello notturno. Ho chiuso la finestra, abbassato le persiane, riesaminato lo studio. C'era ancora molto da fare, ma andava meglio. E stavo per andarmene a letto, quando ho individuato un frammento largo di vaso da fiori che m'era sfuggito. L'ho raccolto e sotto ho trovato una busta gialla, ben gonfia e stretta da un elastico. L'ho riconosciuta subito, anche se non ci pensavo piú da decenni, anche se l'avevo sepolta chissà dove proprio per non pensarci piú. Conteneva le lettere che Vanda mi aveva scritto tra il 1974 e il 1978.

Ho provato fastidio, imbarazzo, pena, e ho pensato di tornare a nascondere la busta prima che mia moglie si svegliasse. O di metterla tra le carte da eliminare e andare subito, adesso, al cassonetto. Le lettere custodivano la traccia di un dolore cosí forte che, se liberato, avrebbe potuto attraversare la stanza, dilagare per il soggiorno, irrompere oltre le porte chiuse e tornare a impadronirsi di Vanda scrollandola, tirandola fuori dal sonno, spingendola a gridare o cantare a squarciagola. Ma non ho nascosto la busta né l'ho buttata nella spazzatura. Come schiacciato da un peso che di colpo tornava a gravarmi sulle spalle, mi sono rimesso a sedere sul pavimento. Ho tirato via l'elastico e dopo quasi quarant'anni ho riletto, ma disordinatamente, qualcuno dei fogli invecchiati, dieci righe qui, quindici là.

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