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| << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo primo1. Una sera Betta mi telefonò piú nervosa del solito per capire se me la sentivo di badare al figlio mentre lei e suo marito partecipavano a un convegno di matematici a Cagliari. Vivevo a Milano da un paio di decenni e spostarmi a Napoli, nella vecchia casa che avevo ereditato dai miei genitori e nella quale mia figlia abitava da prima di sposarsi, non mi entusiasmava. Avevo piú di settant'anni e una lunga vedovanza mi aveva disabituato alla convivenza, ero a mio agio solo nel mio letto e nel mio bagno. Inoltre mi ero sottoposto qualche settimana prima a un piccolo intervento chirurgico che già in clinica sembrava aver fatto piú danno che altro. Sebbene i dottori si affacciassero nella mia stanza sia la mattina che la sera per dirmi che tutto era andato come doveva, l'emoglobina era bassa, la ferritina lasciava a desiderare e un pomeriggio avevo visto piccole teste che, bianche di intonaco, si protendevano contro di me dalla parete di fronte. Mi avevano fatto subito una trasfusione, l'emoglobina era risalita un po', finalmente mi avevano mandato a casa. Ma adesso faticavo a riprendermi. Al mattino ero cosí fiacco che per rimettermi in piedi dovevo raccogliere le forze, artigliarmi le cosce con le dita, chinare il busto in avanti come se fosse il coperchio di una valigia, tendere i muscoli degli arti superiori e di quelli inferiori con una determinazione che mi toglieva il fiato; e solo quando il dolore alla schiena si attenuava, riuscivo a tirar su lo scheletro del tutto, ma con cautela, staccando piano le dita dalle cosce e abbandonando le braccia lungo i fianchi con un rantolo che durava finché non raggiungevo definitivamente la posizione eretta. Perciò alla richiesta di Betta mi venne spontaneo rispondere: - Ci tieni proprio molto a questo convegno? - È lavoro, papà: io devo fare la relazione introduttiva e Saverio ha il suo intervento nel pomeriggio del secondo giorno. - Quanto tempo resterete fuori? - Dal 20 al 23 novembre. - Quindi dovrei stare col bambino, da solo, per quattro giorni? - Verrà Salli ogni mattina, rassetterà, vi cucinerà. E comunque Mario è del tutto autonomo. - A tre anni nessun bambino è autonomo. - Mario ne ha quattro. - Anche a quattro. Ma non è questo il punto: ho un lavoro urgente da finire e non ho nemmeno cominciato. - Cosa devi fare? - Illustrare un racconto di Henry James. - Che storia è? - Un tale torna in una sua vecchia casa di New York e lí trova un fantasma, cioè lui stesso come sarebbe stato se fosse diventato un uomo d'affari. - E tu quanto ci metti a fare le figure per un racconto cosí? Manca quasi un mese, tempo ne hai. E comunque, se entro il 20 non hai ancora finito, ti puoi portare qui il lavoro, Mario è abituato a non disturbare. - L'ultima volta voleva stare sempre in braccio. - L'ultima volta è stato due anni fa. Mi rimproverò, disse che ero in difetto sia come padre che come nonno. Io reagii con toni affettuosi e le assicurai che avrei tenuto il bambino per tutto il tempo che le serviva. Chiese quando pensavo di andare, esagerai nella risposta. Poiché sentivo mia figlia piú infelice del solito; poiché durante la mia degenza aveva telefonato al massimo tre o quattro volte; poiché quel suo disinteresse mi era sembrato un modo per punirmi del mio, promisi che sarei arrivato a Napoli una settimana prima del convegno, in modo che il bambino si abituasse alla mia compagnia. E aggiunsi con finto entusiasmo che avevo molta voglia di fare un poco il nonno, che poteva partire a cuor leggero, che io e Mario ci saremmo molto divertiti. Al solito, però, non riuscii a mantenere la promessa. Il giovane editore per cui stavo lavorando mi assillava, voleva vedere a che punto ero. Io, che non ero riuscito a fare granché per colpa della mia convalescenza interminabile, provai in fretta e furia a ultimare un paio di tavole. Ma una mattina tornai a perdere sangue e dovetti correre dal medico che, pur avendo trovato tutto in ordine, mi impose una nuova visita dopo una settimana. Cosí, tra una cosa e l'altra, finii per partire soltanto il 18 novembre, dopo aver mandato all'editore le due tavole ancora mal rifinite. Andai alla stazione in uno stato di annoiato scontento, la valigia riempita a caso e nemmeno un regalino per Mario, a parte due volumi di favole che avevo illustrato io stesso parecchi anni prima. Fu un viaggio infastidito da sudori di debolezza e dalla voglia di tornarmene a Milano. Pioveva, mi sentivo teso. Il treno tagliava raffiche di vento che opacizzavano il finestrino con rivoli tremolanti di pioggia. Ebbi spesso paura che i vagoni schizzassero via dai binari, travolti dalla tempesta, e constatai che piú si invecchia, piú si tiene a restare vivi. Ma una volta a Napoli mi sentii meglio malgrado il freddo e la pioggia. Lasciai la stazione e nel giro di pochi minuti raggiunsi l'edificio d'angolo che conoscevo bene. | << | < | > | >> |Pagina 664.Non mi divertii affatto. Giocare con il bambino non solo mi aveva spossato ma aveva sottratto energia alle immagini che mi era sembrato di dover fissare con urgenza. Intravederle le aveva rese accessibili e cosí avevano perso il fascino dell'irrappresentabile. Ora se ne stavano come bestiole malate in un'attesa muta e cieca di guarigione o di morte. Perciò l'idea di dar loro la caccia, di provare a tirarle via dal nulla con la linea veloce che mi era venuta per il disegno individuato da Mario, impigrí sempre di piú. Tracciai soltanto linee annoiate, augurandomi di ritrovare la mano. Mi sembrava che l'immaginazione avesse occhi velati. Il corpo vecchio di adesso era troppo distante, ormai, dagli adolescenti abortiti che balenavano per un attimo e poi si rompevano rintronandomi dentro con un brontolio. Eppure sono quelli — pensai — i fantasmi che potrebbero essermi utili. Ostili, pericolosi. Quel mio sgorbio tracciato automaticamente in un angolo di foglio era la loro avanguardia. Impugnava proprio un coltello, e col coltello la smania di usarlo, conficcarlo in corpo a un passante sgarbato, nella gola di mio padre, tra i seni durissimi di Mena quando mi aveva lasciato, nel petto del giovane bello che me l'aveva tolta. Tra i dodici e i sedici anni avevo cercato di continuo un'occasione, volevo trovare un varco per la smania di sangue che mi faceva male al cervello. Se avessi usato anche una sola volta quel coltello, se l'avessi fatto anche soltanto per minacciare, sarei diventato finalmente piú adatto alle vie del Lavinaio, del Carmine, della Duchesca. Non si trattava di una fantasticheria del corpo squilibrato dalla crescita. La fantasticheria a quell'epoca era un'altra, era diventare artista anche se a casa mia non si sapeva cosa fosse l'arte, non lo sapeva mio padre, non lo sapeva mio nonno, nessuno dei miei antenati lo sapeva. Realistico invece era diventare guappo, e sgarrare, e conoscere la galera, e sentirmi nelle mani la capacità di uccidere, e farlo da camorrista, farlo e farlo lungo un tracciato del tutto coerente con le strade per le quali mi muovevo fino a notte fonda, strade di traffici illeciti, puttane, ruffiani. Altro che matite, pastelli, acquerelli, colori. Quella parte fievole di me era fuori luogo. Avevo avuto, durante l'adolescenza, mani pronte per ben altro. Quando il mio genitore mi mandò in officina, non fu malvagio, pover'uomo, diede a se stesso e a me una lezione di realismo. La tradizione delle mie ramificatissime parentele era fare il meccanico. O l'operaio elettrotecnico, come appunto mio padre. O il tornitore come mio nonno. Questo era il probabile e anche il possibile. Montare, smontare, avvitare, svitare, unghie sempre nere, polpastrelli spessi, palmi larghi e duri. O sfacchinare da scaricatore al porto, al mercato ortofrutticolo. O essere garzone di bottega, cameriere, mettere su un negozietto, impiegarmi nelle ferrovie per tutta la vita. O vivere di espedienti e smargiassate e carognate d'obbligo, mostrando di avere donne sempre in testa, non accontentarmi mai di nessuna, collezionarle, accarezzarle, sfruttarle, spaccar loro la faccia se non volevano piegarsi zittemmúte, ah ne avevo la voglia, qualche mio compagno di giochi poi l'ha fatto, in coerenza sempre con lo spazio metropolitano dove eravamo cresciuti. O rifiutare le voragini oscure delle femmine e scivolare nei corpi maschili con la scusa di umiliarli, o solo perché è piú comodo accomodarsi tra azioni e reazioni note, o perché le pulsioni sono confuse, la carne è incerta, passare senza soluzione di continuità dai maschi alle femmine, dalle femmine ai maschi, buchi li e buchi qui, quante inutili distinzioni. Ne avevo fatti di sforzi, in quegli anni, per sottrarmi ai numerosi violentissimi percorsi eventuali del mio ambiente, tutti già interni alle oscenità dialettali che conoscevo fin dall'infanzia: tscommesàng, tomettncúlo, tsguarromàzz. Nel mio corpo era come se fossero in attesa svariati tipi umani, alcuni violenti, altri miserabili. Ce n'erano, per esempio, di attenti alla regola di farsi i cazzi loro. Quando essi prendevano piede, mi veniva in faccia una smorfia di noncuranza, esibivo un'acquiescenza strafottente. Anche per quello avevo una mia disposizione: tacere per non urtare, per non indispettire, e parlare solo per essere d'accordo, per mostrare simpatia, per lodare, per essere amico di tutti, assolutamente di tutti, vale a dire di nessuno, e cosí apparire innocuo, e perciò frequentabile, e intanto accumulare disprezzo per chiunque, e nuocere di nascosto. Ero una folla di variazioni. Poi ecco, avevo cominciato per caso con le matite, coi colori, solo per caso, e ne avevo tratto un piacere sorprendente. Da lí aveva avuto inizio la lunga guerra per fiaccare tutti gli altri miei spiriti e respingerli ai bordi del sangue. Non li avevo piú lasciati bere, e quanta determinazione c'era voluta per resistere alla fondatezza del loro brusio svalutativo: chevvuofàstrunz, parlacommemàgn, tecriredesseremeglienúie, sinupílecúlo, sinuscupettinopocèss. Sarebbe bastata una piccola incertezza, un fallimento a scuola, forse persino una battuta malvagia sulle mie prime manifestazioni d'arte, uno sfottò capace di colpire al cuore, e avrei capitolato. Da una crepa sarebbero entrate l'insicurezza, la disperazione, l'infelicità, e avrebbero annientato l'ometto che volevo diventare: un tipo di parole elevate, sentimenti fini, senso di responsabilità, savia difesa del bene, sessualità a norma, vita assorbita da un'unica grande passione: produrre a ciclo continuo opere, operette, operine, niente mi interessava di più. Ma ce l'avevo fatta, ero riuscito a turare le crepe a una a una, in affanno permanente. Io ero diventato carne, il resto fantasmi. E ora eccoli, stazionavano nel grande soggiorno dell'appartamento della mia adolescenza, l'appartamento oggi mutato in casa di Betta, di Saverio, di Mario. Si erano radunati li con il loro dialetto, i loro modi e desideri scostumati, la loro cattiveria pronta a esplodere per ogni minuscolo conflitto. Non mi perdonavano di aver scelto la piú impossibile delle variazioni e averla difesa contro di loro senza cedere di un millimetro. Li avevo cacciati via, ma mai del tutto. Solo la morte li avrebbe sul serio sgominati, cancellando il mio corpo a cui aspiravano da sempre e che, volente o nolente, li teneva in vita. Sebbene deboli, essi non rinunciavano mai a riaffacciarsi, specialmente il ragazzo col coltello, che però respingevo con un gesto della mano, a occhi chiusi, da persona fine. Quel gesto era il frutto di un disciplinatissimo allenamento. Avevo imparato a sfocare ogni sentimento, ridurre a quasi nulla la reattività, non sentire né amore né dolore, spacciare per comprensione l'assenza di ogni carnale, palpitante affettività. Ada, quando successe che frugai nei suoi quaderni, era morta da anni ormai. Scriveva che era stata colpa mia, aveva imboccato la via del tradimento per provare a se stessa che esisteva fuori di me. Per molto tempo sognai a occhi aperti che era ancora in vita e la scannavo. Ma ogni volta opponevo a quel sogno il gesto educato del rifiuto, e alla fine la spuntai, mi sembrò di capire le sue ragioni, smisi di sognare, passai ad amarne l'ombra come avevo amato la sua persona viva. Forse — pensai — posso illustrare James con questi spettri. Ora fammi andare a vedere cosa fa il bambino, chilluscassacàzz. | << | < | > | >> |Pagina 725.Anche se gli concessi di accendere il gas per scaldare la cena preparata da Salli, anche se gli lasciai un coltello taglientissimo di cui lui si era arbitrariamente appropriato apparecchiando la tavola, i nostri rapporti non migliorarono. - Il coltello lo tieni, ma la carne la taglio io. - No, lo so fare. - Ci credo che lo sai fare, ma quando c'è il nonno la tua carne la taglia il nonno. - Tu non sei mio nonno. - No? E allora chi è mio nipote? - Nessuno. Se Mario non aveva voglia di riappacificarsi con me, ancor meno ne avevo io di riappacificarmi con lui, visto che piú andavamo d'amore e d'accordo, meno lui mi lasciava tranquillo. Ma ero preoccupato perché si avvicinava il momento in cui Betta avrebbe telefonato e non volevo che il bambino la allarmasse, aveva già troppi problemi con la gelosa inquisizione del marito. Cosí mentre lavavamo i piatti del pranzo e della cena - lui, sebbene imbronciato, continuava a considerarsi mio aiutante e mi procurava tutto ciò che serviva, sapone, spugnetta, strofinaccio, precipitandosi come se si trattasse di vita o di morte -, cominciai a spruzzargli un po' d'acqua dicendo ogni volta: scherzetto. Per un poco restò un aiutante ostile, testa bassa ed energico gesto di ripulsa. - Scherzetto. - Basta, nonno. - Scherzetto. - Basta, ti ho detto. - Scherzetto. Poi cominciò a fingere di lagnarsi, ma sforzandosi di reprimere il sorriso. - Mi hai mandato il sapone nell'occhio. - Fai vedere. - Brucia. - Macché, non hai niente. Infine passò a sorvegliarmi di sbieco per capire se volevo davvero giocare e quando se ne convinse, provò a spruzzarmi a sua volta un po' d'acqua dicendo: scherzetto. Cosí, di scherzetto in scherzetto - a forza di scherzare perse l'equilibrio e stava per cadere dalla sedia su cui s'era messo in piedi per aiutarmi, meno male che lo afferrai in tempo -, la tensione tra noi sembrò allentarsi. E ce ne andammo in soggiorno per vedere un po' di televisione. - Cosa, nonno? - Poi decidiamo. - Possiamo vedere i cartoni animali? - Animati. | << | < | > | >> |Pagina 153Solo adesso, in vecchiaia, mi pare condivisibile un concetto che in realtà ho sempre detestato e cioè che la forza della bellezza sta nel non avere motivazioni, nemmeno - scrive James - il fantasma di una motivazione. Ma ormai è troppo tardi, la testa è quello che è. Ho detto a mio genero, tanto per chiacchierare: non ho mai fatto un quadro senza cercare una ragione grande per mettermi al lavoro. E lui, con gentilezza: è giusto, ma se i quadri sono piccoli, le grandi motivazioni non li rendono grandi. È un uomo fatto cosí, la sua aggressività si manifesta con garbo. Una volta - era passato per Milano - m'è venuto di confidargli: credo di aver fatto tutto quello che potevo fare, forse è arrivato il momento di fermarmi. Saverio ha subito acconsentito: sí, è vero, a una certa età bisogna fermarsi. Ci sono rimasto male, ho detto: comunque ciò che ho fatto ha contato, e spero che in futuro conterà ancora di piú. Lui ha ribattuto: sicuramente; non sei un Fontana, non sei un Burri, però sí. Sono stato sul punto di ribattere: che dici, non sai di cosa parli, cosa c'entra Fontana, cosa c'entra Burri. Ma ho fatto finta di niente. Avevo aspirato a ben altro che Burri o Fontana, anche se nessuno l'avrebbe detto, men che meno Saverio. L'ambizione spropositata se ne sta sottotono, si vergogna di sé. Ma in segreto le gerarchie fissate dal mondo le sembrano inattendibili, vuole cosí tanto che non sa assoggettarsi a nessun modello, a nessuna affinità, e anzi persino ciò che ammira lo ammira solo per superarlo. Sí, sí, il fallimento è un corredo essenziale delle vere grandi ambizioni. Si fallisce in funzione della grandezza, non delle piccole mete.La casa è un grande guscio secco, le stanze sono vuote. Il vacante in questo racconto è assoluto. Quando la cosa a cui Brydon dà la caccia passa da fatto mentale a presenza, a immagine fisica collocata in uno spazio fisicamente definito - una casa d'angolo tra una Street e una Avenue -, Spencer ne ha terrore, sospetta che l'altro sia dietro una porta chiusa che invece dovrebbe essere aperta, e pur di evitare il confronto, apre una finestra al quarto piano, è pronto a saltare. Sempre piú spesso la via per salvarci da noi stessi è l'abisso. Detestavo l'appartamento, la forma dell'edificio, il luogo dove sorgeva, tutta la città. Quando i miei genitori sono morti, per un po' ho affittato questa casa e poi l'ho lasciata a Betta che, dopo un lungo periodo all'estero, era tornata a Napoli. Le ho sempre voluto bene, ma distrattamente. Tutti i miei affetti sono stati affetti distratti e ora un po' ne soffro. | << | < | > | >> |Pagina 159Ragazzo di barbiere, un tredicenne che spazzolava peli dalle spalle del cliente. Apprendista in un'officina, tornitore dell'Alfa Romeo, operaio a Bagnoli. Venditore 'e carncòtt e pierepuórc a Porta Capuana. Camurrísta assassino, figlientròcchie, picchiatore, traffichino, politicante che congiunge legalità a illegalità, istituzioni a malaffare, a carcere di Poggioreale. Imboccare la via dei soldi: diventare milionario spaventando gli onesti, corrompendoli, rubando, devastando. O imboccare quella della lagna quotidiana dell'impiegato al bar, tra un caffè e una sfogliatella, recitando la parte di chi poteva fare di piú e per troppa ribelle onestà non ha fatto. O stare alla finestra aspettando che dai vicoli, dalle periferie, le folle dei disperati si riversino per capovolgere il mondo - chi è sopra va sotto - e il sangue scorra a fiumi perché finalmente ciascuno dia secondo le sue capacità e a ciascuno sia dato secondo i suoi bisogni. Questi e altri e altri ancora sono i fantasmi che ora guizzano per le stanze della mia adolescenza. Non ho bisogno, come Brydon, di ricorrere alla metafora della lettera non letta, che se fosse stata letta avrebbe svelato chissacché. Io ho letto tutto il leggibile della mia esistenza e quegli spettri so che mi assomigliano. Sarebbe bello che loro stessi mi considerassero un'ombra vagolante e a vedermi si terrorizzassero, ma non succede. Molto tempo fa, a vent'anni, ho pensato che avrei contribuito a debellare i peggiori cittadini di Napoli e del mondo dando man forte, con le mie operine spietate e speranzose, ai migliori. Non è successo: i peggiori se ne fottono dell'arte, vogliono potere, sempre piú potere, e perciò continuano a spandere soldi e terrore assottigliando il numero di chi non ci sta.| << | < | |