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| << | < | > | >> |Pagina 11L'intero pomeriggio di quel sabato di giugno i bambini di Sam Pollit stettero all'erta spiando il suo ritorno mentre pattinavano sui marciapiedi sporchi e l'asfalto rattoppato di R Street e Reservoir Road, che delimitavano il prato di Tohoga House, la loro casa. Di solito non avevano il permesso di scorrazzare per le strade, ma Sam era ancora fuori con i naturalisti in cerca di lucertole e salamandre sulle scogliere del Potomac, Henrietta, la madre, era in città, Bonnie, la loro giovane zia e domestica tuttofare, aveva il pomeriggio libero, e l'unica che li sorvegliasse era Louisa, la sorellastra, undici anni e mezzo, la più grande della nidiata. Rigida e ansiosa quando i genitori erano a casa, Louisa diventava indulgente quando i bambini venivano affidati soltanto a lei; le piaceva sentire i loro gridi lontani, mentre leggeva a pancia in giù nel frutteto o, persa in fantasticherie, vagava per la casa. Il sole cadde tra banchi di nuvole dentro i boschi della Virginia; una raganella gracidò e l'aria si fece umida. Mamma che, carica di pacchi, veniva a casa dal tram di Wisconsin Avenue, fu avvistata da vari angoli dai bambini sudaticci; stridendo sui pattini, le corsero incontro e la scortarono fino a casa, eseguendo figure intorno a lei, ondeggiando e ansimando e aggrappandosi alla sua gonna, allegrissimi, nonostante la sua dignitosa irritazione. «Torno a casa e vi trovo a correre per le strade scatenati come matti!». Si riversarono in casa, portando dentro sporco, supposizioni, domande, leggende di altri bambini, e progetti per il giorno dopo, mentre Louie, ricordandosi improvvisamente di patate e di fagiolini negletti, sgattaiolava in cucina dalla porta sul retro. Henrietta prese una lettera dallo scaffale dell'entrata, indirizzata a lei, a «Mrs Samuel Clemens Pollit», che aprì borbottando, con un mezzo sorriso: «Che stupido!». Entrò nella lunga stanza da pranzo per leggerla, mentre Saul, tecnicamente il maggiore dei gemelli settenni, si spenzolava dalla spalliera della sedia, dicendo: «Di chi è, mamma, di chi è?» e il suo gemello, Samuel capelli di paglia, cercava di strapparle la borsetta, ripetendo: «Posso guardare nella tua borsa, posso guardare nella tua borsa, posso guardare?». Quando, finalmente, lei lo udì, gli abbandonò la vecchia e logora borsa di cuoio continuando a leggere, senza prestare la minima attenzione al loro eccitato esame di chiavi e cosmetici, né al primogenito, il decenne Ernest che, dopo aver contato i soldi e averli divisi in mucchietti, diceva saggiamente: «La mamma ha due dollari e ottantadue cents: mamma, quando sei uscita avevi cinque dollari e sedici cents e un francobollo. Cos'hai comprato, mamma?». Sentirono Louisa che entrava cantilenando: «Tè bollente, tè bollente! Fate largo!» e spostarono le natiche di un mezzo centimetro. Louie si fece cautamente strada in mezzo a loro, portando una grande tazza di tè che posò davanti alla matrigna. «È venuto o ha telefonato qualcuno?». «E arrivata la vernice, mamma». Louie si fermò sulla soglia. «È nella lavanderia». «E domani che lui vuol cominciare a imbiancare e mettere tutto a soqquadro?» domandò Henrietta. Louie non disse nulla e si allontanò lentamente. «Mamma, hai speso due dollari e trentaquattro cents. Che cos'hai comprato?». «Che c'è in questo pacco, Mami?» Chiese Evie. «Oh, lasciatemi in pace; siete peggio di vostro padre». Henrietta si tolse i guanti e cominciò a sorseggiare il tè. Quella era la sua sedia e anche quella che preferivano i visitatori. Era a schienale dritto ma comoda, non troppo bassa, e sistemata tra la finestra d'angolo e la panca imbottita che correva lungo tutta una parete. I bambini avevano l'abitudine di mettersi a sedere l'uno accanto all'altro su quella panca a osservare il visitatore, ipnotizzati dalla storia della sua vita. I visitatori apparivano piuttosto goffi, lì seduti, adorni di tutti gli incidenti, le casualità e le mischie della vita, a ridere sgraziatamente e inaspettatamente per battute cretine, a esprimersi con locuzioni demenziali; e tuttavia si credevano importanti, e sembrava che, quando andavano in giro, a loro capitasse di tutto. Avevano nugoli di parenti con i quali discutevano e innamorati con i quali tubavano; avevano denti falsi, occhiali e operazioni. I bambini stavano lì a occhi sgranati e bocche aperte, finché Henny sbottava: «Cosa state, acchiappando mosche?». Quando Henny stava seduta là, al contrario, tutto era in ordine e sembrava che nella casa non ci fosse nessuno; era come la presenza di un vecchio quadro scuro e amico appeso alla parete da generazioni. Ogni volta che Sam era via, specialmente nel pomeriggio, Henny si metteva a sedere là, vicino alla cucina dove poteva prendere le sue tazze di tè bollente e sorvegliare la cottura dei cibi. I bambini, tornando di corsa dalla scuola o dal frutteto, la trovavano lì, tranquilla, magra, stanca, con le lunghe mani olivastre e venate che stringevano la tazza di tè in cerca di calore, o che scivolavano, saltellavano tra lane e ferri da calza, mentre eseguiva una sua decorazione su cuffiette e scarpette per i neonati che continuavano a comparire nel remoto mondo. A volte era allegra e diceva loro nel suo modo elegante, infantile, violento: «Uno sciocco per la fortuna, un povero per i bambini, una spiaggia dell'Est per i granchi, e i negri per i cani» e «Io ho una casettina e un topo non l'ha trovata e tutti gli uomini della città non sono riusciti a contare le sue finestre: che cos'è?". Dopo aver proposto l'indovinello sorrideva maliziosamente, anche se tutti loro conoscevano la risposta, perché Henny sapeva pochissimi indovinelli. Ma quelle amate piccole tintere venivano fuori soltanto quando papà non c'era. | << | < | > | >> |Pagina 132Lei gridò: «Via, Samuel, non essere così stupido. Che sciocchezze! Credi che non sappia cavarmela con Hazel? E con me fin da quando ero bambina... Ma parliamo d'altro. Louisa diventa troppo grande e non la posso più picchiare. Non so come devo comportarmi con lei. Oggi quella stupida di sua zia non le ha chiesto di andare da lei per le vacanze, e io mi dannerò l'anima se ce l'avrò per casa tutto il tempo. Voglio starmene un po' in pace con i miei bambini. Lei ha già preso la tua aria di superiorità. E poi c'è dell'altro, ormai ha più di undici anni e sta diventando una donna. E io mi sento male se penso di doverle dire che cosa le succederà e quel che dovrà passare. Perché deve toccare a me? Perché dovrei fare io tutta la tiritera alla figlia di un'altra? Io non le parlo. È compito tuo o di una delle sue zie. Non posso essere io a farle da guida tra tutte le porcherie della vita».Sam arrossì, con un'espressione curiosa ed eccitata: «Ma perché, è già...?». Henrietta batté il piede con impazienza: «Devi parlarle e dirle come deve comportarsi. Io non posso più picchiare una ragazza così grande. Mi monta il sangue alla testa e per poco non svengo ogni volta che la devo affrontare. E neppure tu dovresti più picchiarla. Non è giusto alla sua età. Non sai quello che fai, tu che ti credi tanto in gamba. Scrivi alla sorella di sua madre e dille che deve occuparsi di lei e anche provvedere a quella faccenda. Io non ho intenzione di farlo». Sam abbassò la testa: «Henrietta, lo devi fare: sei sua madre». «Sua madre!» esclamò Henrietta sprezzante. «Se tu non fossi quello che sei, ti saresti accorto di che lurida carogna sono io. Se tu non fossi quello che sei, non l'avresti trascinata in questa storia: ma fai di tutto purché vada bene per te. Io non posso soffrire quella bambina ma mi spiace per lei, perché vale più di te. Portala via. Non posso affrontare questa faccenda. Mio Dio,» si allontanò da lui «se penso che chiunque lei sia, dovrà fare quello che ho fatto io, provare quello che ho provato io, e scoprire tutte le turpi menzogne che si è sentita raccontare...». Lo guardò. «Ecco perché non m'importa quello che ascolta o viene a sapere sul nostro matrimonio. Lascia che sappia da sé che cos'è, così non penserà mai a me come a una che l'ha ingannata. Io la picchio, ma non le racconto frottole» Sam sospirò: e dopo un breve silenzio, disse: «Va bene, Piccola, naturalmente parlerò a Louie e le dirò di comportarsi bene, di aiutarti per quello che può, di fare il suo dovere a scuola eccetera. Però io non sono la persona adatta, e penso proprio che dovrai essere tu a farle da madre. E l'impegno che hai preso sin dall'inizio e devi assolverlo. Comunque è ancora piccola. Speriamo... lasciamo stare, ancora per un po'!». Henny strillò con impazienza: «Lasciamo stare! Perché non la mandi in collegio mentre sei via, quella povera disgraziata musona? Cosa vuoi che faccia io con la figlia di un'altra? Non basta che ne abbia una mia? Quando penso al suo avvenire mi viene voglia di affogarmi». Sam disse, nel suo tono di profonda comprensione: «Perché non ti sforzi di fare un po' da mamma a Louie?». Henny gli rivolse un'occhiata torva: «Provaci tu!». Sam si morse le labbra: «Sono stato duro con lei, Piccola, sperando che tu ti saresti raddolcita. Le ho insegnato a non farmi moine, a non baciarmi, a non venirmi in braccio come fanno gli altri perché in principio questo ti irritava tanto... ma spero che lei si aspetti ancora da me rettitudine e giustizia! Credevo che si sarebbe rivolta alla donna per avere simpatia e affetto. È naturale. Se fossi stato tenero con lei tu ti saresti rivoltata contro tutti e due». La sua voce tremò. «A che serve parlare di questo? Come farò io ad avere i soldi per le spese di casa? Sai che abbiamo bisogno di uno scaldabagno nuovo». Lui cominciò a spiegarle che avrebbe ricevuto il denaro ogni mese, quasi tutto il suo stipendio, e che lui si sarebbe trattenuto il più possibile nelle spese e che avrebbe ricevuto inviti da amici all'estero, il che gli avrebbe consentito di far durare più a lungo il denaro. Quando sentì di quante persone era composto il gruppo, lei disse in tono canzonatorio: «Suppongo che da buoni scienziati non possiate sopravvivere senza segretarie; suppongo che vi porterete appresso qualcuna di quelle vostre diciottenni di gran classe». La faccia di lui si fece dura: «Henrietta!». «E allora, ve le portate?». «Non rispondo a simili insinuazioni». Lei sbottò in una sonora risata: «La conosco, la tua risposta. E conosco quelli del tuo stampo; tutti voi, da bravi dirigenti, corrompete le ragazze giovani che hanno paura di perdere il posto: è una storia vecchia come Washington». Lui serrò un pugno e lo abbassò sulla toilette; poi, senza perdere il controllo, si volse verso di lei, pallido, e disse con calma: «Forse ho fatto male, ma lo sa il Cielo se sono stato fedele ai miei voti coniugali». Lei ridacchiò: «Allora sei ancora più stupido!». Lui arrossì e le si precipitò contro, prendendola per le spalle e scuotendola con violenza. Lei si torse per guardarlo in faccia: «Tu sai di mentire!». Lui la picchiò con forza su una spalla, dicendo: «Te le tiri proprio!». Subito lei lanciò un grido acuto: «Non toccarmi, disgraziato; non azzardarti a picchiare tua moglie; lo dirò a tutti!». Balzò su dalla sedia e corse verso la finestra che dava sulla Trentaquattresima Strada e aveva di fronte un recinto abbandonato. Non vi erano case a portata di voce da quella finestra, perché la loro casa era l'ultima da quella parte dell'isolato, e non le dispiacque quando si sentì sulla bocca la mano di Sam. Gliela spinse via e sputò, poi si mise a gridare con voce fioca: «Aiuto, aiuto, mi ammazza!». | << | < | > | >> |Pagina 230«Ha avuto notizie dei suoi bambini, signore?» s'informò Wan Hoe.«È meraviglioso,» gridò Sam «telepatia, Wan Hoe; un caso di telepatia» e cominciò a esporgli la sequenza logica che lo aveva portato in quel preciso momento a pensare ai suoi figli. Ancora una volta parlò di loro all'amico cinese: «Qui patisco il caldo, l'umidità e il fatto di sentirmi estraneo - non tanto ai neri quanto ai bianchi - ma soffro soprattutto perché quando mi sveglio sotto il peso delle ondate di umidità che precedono l'alba, prima che la luce dardeggiante mi colpisca gli occhi, non posso invocarli come faccio a casa, chiamare la mia piccola Occhiscura, la mia Evie dagli occhi di fumo, la mia Donnina. Sai cosa faccio io, Wan Hoe? Chiamo: "Uccellula, Uccellula, Uccellula!". (Uccellula è una parola inventata che mi fa venire in mente lei). "Uccellula, vieni a farmi la testa". Allora lei rotola fuori dal letto con un piccolo brontolio che a me piace molto sentire, e se ne arriva trotterellando con la sua lunga camicia da notte di flanella rosa, un po' imbronciata, e dice: "Papi, lasciami stare, voglio dormire!". Ma quando le tendo la mano si avvicina e alla fine mi salta sul cuscino e mi caccia le manine morbide tra i capelli per grattarmi la cute; e allora mi passa l'emicrania, se ce l'ho. Poi sveglio la mia figlia maggiore, Louie, una ragazza che ha una testa notevole, e forse troppi fastidi, ma questo la renderà più assennata in avvenire, e lei prepara il tè, poi faccio alzare i ragazzi, Ernie e i gemelli, e ce ne andiamo in giro per la casa fischiettando, a fare quei lavoretti di falegnameria e di muratura che sono necessari. Questa è una vita felice, Wan Hoe. Piccolo-Sam medita seduto lungo il sentiero, assorto nei lunghi e strani pensieri dell'infanzia, riflettendo su fatti che un giorno tradurrà in pensiero scientifico; e Saul, giudizioso e calmo, se ne va per conto suo a scrutare e dedurre; Ernie, invece, il mio ragazzo-prodigio, diventerà sicuramente un grande matematico (senza essere un intellettuale noioso e pedante, mi auguro) o un fisico». D'improvviso Sam gridò, sorridendo: «Che Dio la benedica, Wan Hoe, lei è veramente un grande amico! Non ho mai avuto amici migliori degli amici cinesi che ho incontrato qui in questi sei mesi, e lei più d'ogni altro. Nessuno sa intendere l'amicizia come il saggio e antico popolo del Celeste Impero». Il viso sensibile di Wan Hoe, un viso liscio da ragazzo che si andava assottigliando con le preoccupazioni della maturità, cambiò più volte espressione e i suoi occhi sorrisero a Sam: «Sono contento che la mia gente le piaccia tanto» «Il nostro paese avrebbe tanto bisogno di gente come i cinesi, così dotati di saggezza e di sagacia e così abili e infaticabili nel lavoro» disse Sam con convinzione. «Secondo me siete il popolo più meraviglioso del mondo». Wan Hoe pendeva dalle sue labbra; e dopo un po' s'azzardò a dire: «Penso, signore, che, se non avesse figli, lei verrebbe a vivere tra noi». «Ne sarei estremamente felice! Ma non potrei sopportare il clima né potrei portare qui tutti i miei figli, Wan Hoe. No, è lei che dovrebbe fare in modo di venirmi a trovare». Wan Hoe scosse il capo con un sorriso di autocommiserazione. Sam, intuendo in parte i suoi crucci, aveva appena cominciato a parlargli dei suoi grossi debiti, quando suonò di nuovo il telefono: era il colonnello Willets, furibondo, che chiedeva dov'era quel figlio di p... e se pensava che lui sarebbe rimasto lì a girare i pollici e a cercarlo quaranta volte al telefono col caldo che faceva. Wan Hoe rispose che Sam sarebbe rientrato presto e non avrebbe mancato di recarsi subito all'albergo di Willets. Riagganciò e parve nuovamente rattristato per non essere riuscito a parlare a Pollit dei suoi affari. Ma Sam non ci pensava già più. Wan Hoe si guardò intorno con circospezione. L'umore di Sam si stava guastando. Sam confermava Wan Hoe nella sua opinione che la gente nata e vissuta al di fuori del mondo asiatico rappresentasse l'infanzia dell'umanità. Alcuni erano degli scriteriati per carattere, brutalità o disprezzo dei subalterni; Sam era uno scriteriato nel concedere la fiducia ai subalterni. Wan Hoe rifletté sulla pubblica amministrazione americana e per un istante si domandò se Sam non fosse stato mandato in Malesia per far fuori lui. Ma adesso Sam doveva ingoiare un altro boccone amaro e sbrigarsi a raggiungere il colonnello Willets nei suoi appartamenti. Ma chi si credeva di essere, chiese a Wan Hoe, quel vecchio bellimbusto uscito dalla sua scorza di socialista vent'anni prima, dopo aver fatto i soldi con l'edilizia? Aveva buttato a mare ogni cosa per arricchirsi, e adesso pensava che tutti fossero in ammirazione dei suoi stivali d'oro: dove andava, voleva sempre essere lui il gallo del pollaio. «Spero di non arrivare mai a diventare un vecchio!» disse Sam. «Forse la nostra vecchiaia rappresenta quel che la vita ha deciso di noi,» disse Wan Hoe «ma mi auguro che nessun dio sia responsabile di questa trappola. Di se stesso ognuno ricorda l'infanzia e non riesce a riconoscersi nella carne sporca, logora e avvizzita, nella vecchia talpa irsuta e puzzolente che è diventato. Vorrebbe urlare: "No, non sono così, sono un bambino fatato con la pelle di pesca e gli occhi azzurro cielo, sono un raggio di sole, canto, ballo, salto; non sono questo vecchio relitto cencioso, scroccone, baro, bisbetico, lamentoso, mistificatore, moribondo". I cinesi sono chiaroveggenti; e direi che sia questo il motivo per cui hanno ammantato la vecchiaia di santità: per impedire ai loro figli di vedere con chiarezza il proprio avvenire. Hanno chiuso loro gli occhi. Vede, quando un uomo sa che un giorno sarà vecchio, ha paura: quando invecchia non gli importa più di nulla: l'amore non conta, contano solo le comodità; l'onore non conta, quel che conta è riuscire ad arraffare qualcosa». «Che strano,» disse Sam sorridendo «io non sono cinese, eppure rispetto la vecchiaia: mi auguro di avere una vecchiaia felice. I miei figli saranno grandi, saranno degli scienziati, le mie figlie saranno sposate e avrò dei nipotini: avrò capelli argentei, non molto diversi da come sono ora. Lei è un tantino morboso, vero, Wan Hoe? Spero di avere una vita lunga e felice». «Lei pensa che oggigiorno sia possibile?» chiese il segretario. Sam lo guardò senza dir nulla. Da certe vaghe insinuazioni aveva dedotto che quel cinese nativo di Singapore fosse un rivoluzionario, appartenente al Kuomintang, un'organizzazione che veniva guardata con sospetto tanto dagli inglesi quanto dai cinesi ricchi. Tuttavia non potevano rimandarlo in Cina, come facevano con gli immigrati. Sam sapeva che Wan Hoe rischiava la rovina. Però si era fatto una regola di non far mai domande sull'attività politica di una persona, soprattutto sui pericoli che poteva correre; così si alzò in fretta per andare dal suo collega. Ma prima dovette spogliarsi dei panni zuppi di sudore, fare un bagno e cambiarsi. Un abito che per caso era stato messo via umido, era lì appeso nell'armadio pieno di macchie di muffa. L'odore di muffa non se ne andava più da quell'armadio. | << | < | > | >> |Pagina 270«Sam,» disse il vecchio Charlie all'altro capo del tavolo «vivi e lascia vivere; non si sa perché siamo quaggiù, ed è buona norma lasciar vivere gli altri finché non veniamo a saperlo!». Bevve un altro sorso di chiaretto, che stava già cominciando ad annebbiare il suo vecchio cervello.Sam era triste e irritabile: «Papà, sai quali sono i miei principi. Le bevande fermentate e alcoliche offuscano la ragione, deformano la morale e sono il disonore degli incontri mondani. Tu sai che io sono fedele ai miei principi, nella buona e nella cattiva sorte. Tu sai, tutti sapete, che io non ho mai avuto dubbi su quello che ritengo essere giusto o no. Perché ti metti contro di me? E proprio oggi! A Singapore ho visto che effetti può produrre l'alcool sul migliore degli uomini in Oriente; i bianchi sono impregnati d'alcool. Chiunque sia incline a un certo tipo di vita e vada laggiù, diventa vittima del proprio fegato; quanto agli effetti sulle donne... be', il nostro angelo dispensatore di grazie si trasforma in una strega, se non peggio! Devi scusarmi». Henny, che lo aveva attentamente osservato durante questo discorso, alla fine fece una breve risata e portò alle labbra il secondo bicchiere. «Henny, posa quel bicchiere o esci di qui: ci sono i miei bambini!». «Samuel!» gridò Bonnie inorridita. «Piccola!» implorò, e Jinny disse: «Sam, Sam, Sam, non rovinare la festa!». «Mi hai sentito, Henny,» disse Sam rosso in viso «mi avete sentito tutti». La risata di Henny crebbe su una nota artificiosa, acuta. La voce le si incrinò mentre diceva: «Ho sentito! Tu non mi sentiresti mai sbraitare a tavola e insultare i miei ospiti... tu e le tue belle maniere dell'alta società di Singapore!». Chiuse gli occhi, rovesciando il capo all'indietro, in quel suo modo sgradevole quanto incredibilmente teatrale, poi sollevò di colpo le palpebre pesanti, rivolgendo di nuovo a tutti uno sguardo velato. «Nelle lettere che scrive a casa parla delle belle signore con cui ha fatto amicizia mentre era via, Lady Battersby, Lady Modore, Lady Bauscia, Sir William Grattamituchetigrattoanchio, e di tutti i suoi simpatici amici tirati a lucido, e questo è il vero modo di sentirsi a casa, per il grand'uomo. Sei appena sceso dalla nave e cerchi già di comandarmi a bacchetta. Forse credi che io sia quel segretario negro che avevi, o la sua moglie negra!». Rise con arroganza e bevve un altro sorso: «Io avrei vergogna di insultare i miei ospiti a una festa in mio onore, specialmente quando tutto è stato pagato di tasca loro, ma questo non lo tocca, lui non lo può bere il vostro vino, lui è troppo puro. E così puro che ha appena lasciato le sgualdrine di Singapore, ubriache fradicie, e viene qui a dar ordini a me come ne dava a quei poveri pezzenti di musi gialli e di negri che il governo gli ha messo a disposizione. L'avventuriero della famiglia». Sam saltò su come una molla, rovesciando la sedia: «Henny, esci di qui!». Anche i fratelli e le sorelle balzarono in piedi per trattenere Sam, tranquillizzare Henny e mandar fuori i bambini. Il vecchio padre si alzò con le ginocchia piegate e posò sul braccio del figlio la mano piena di macchie e di vene turgide. Samuel non si accorse di lui, pensò che fosse uno dei bambini. Henny si alzò adagio, ridendo e scuotendosi via le briciole dalle ginocchia. «Guardatemi! La schiena mi si spezza in due col peso del frutto del mio ventre; non vi rattrista quello che mi è successo a causa della sua libidine? Sono diventata come un pallone da football, buono per essere preso a calci da un mediano, un pallone da campionato americano, per la libidine di quest'uomo puro e perbene che non guarderebbe mai una donna. Non mi compiangete, ridotta come sono per la sua libidine? Mi ha proprio inchiodata e sistemata per le feste, per essere ben sicuro che nessuno mi guardasse mentre lui si dava buon tempo con le sue belle signore! Ti assicuro, Samuel, che nessuno mi ha guardata mentre tu eri via. Ma cosa me ne importa?» disse piangendo, rivolta a Jinny che cercava di parlarle e di calmarla: «Cosa me ne importa, Jinny. Sei madre anche tu. Non l'hai fatta anche tu tre volte questa cosa orrenda, per colpa di un uomo? Cosa te ne importa quando viene il tuo momento? Cosa importa a qualunque donna dell'uomo che l'ha ridotta in questo stato? E io sono una tale disgraziata idiota da affrontare un'altra volta questo massacro per un uomo simile, che si è rotolato nel fango di Singapore per otto mesi con le sue puttane d'alto bordo, lasciando me nei guai. Spero proprio di non uscirne; spero che questa sia l'ultima volta che vedete questa disgraziata, stupida e derelitta che non sono altro, che casca sempre nella stessa trappola; spero di morire. Sono certa che morirò. Prego Dio che mi faccia morire. Non posso più combattere. Non sono una di quelle tigri che lottano tutta la vita. Non sono né un granatiere né una vecchia maestra della malora che passa la vita a berciare. Guardate come mi insulta! Non è ancora tornato a casa che mi insulta davanti a tutta la banda al completo! Lasciatemi andare; perché vi attaccate a me, tutti quanti? Cos'ho fatto? Come sono finita qui? Lo so bene, a forza di piagnucolii, moine e promesse. A voi sembra un uomo meraviglioso; ma se sapeste che cos'è per me: è qualcosa di fetido che mi striscia su per la manica della vestaglia; qualcosa di lercio, una macchia di sangue o d'acqua sporca sulle mie sottane. Ecco che cos'è, con tutte le sue arie e non-toccatemi e son-troppobravo-per-bere. Il piccolo Gesù di latta! Oh, lasciami perdere, Jinny! Cosa ne sai tu di lui? Lasciami perdere, sono una gran stupida a lasciarmi andare così». Il vecchio disse: «Figliolo, figliolo, va a parlarle: non devi dimenticare in che condizioni è; una donna non è un uomo», e Bonnie sussurrò al padre: «Sam è stanco morto, lascialo stare, anche lui» mentre i bambini sbalorditi e spaventati stavano fermi come sassi ai loro posti. Solo Essie sogghignava, la figlia di Jinny, una ragazza impertinente che si prendeva gioco di tutti e che era l'orgoglio di Jinny. Disse a Louie, per farla arrabbiare: «L'ho sempre saputo che in casa tua litigano come cani e gatti: zia Henny fa fare una vita d'inferno a zio Sam!». E rise. A questo punto Jinny, rossa come le bandiere del primo maggio, arrivò alle spalle del suo orgoglio e le diede un ceffone sulle orecchie che la fece indietreggiare urlando fino al corridoio, anche se aveva già dodici anni. Questo attirò l'attenzione di Henny che, vergognandosi molto per la scenata che aveva provocato, urlò a Louie: «Cosa fai lì, grassa come un maiale, mezzo sdraiata sul tavolo? Tira via quel pancione dalla tovaglia e cerca di non somigliare tanto a quell'essere untuoso di tuo padre!» e rise come una forsennata. | << | < | > | >> |Pagina 382La mente di Louie ribolliva giorno e notte, e ogni spiritosaggine di Sam, ogni suo stupido vaniloquio o scherzo innocente la faceva ardere di un feroce desiderio di vendetta. Ogni volta che era sola in casa con lui, sussurrava al suo indirizzo (a distanza tale da non essere udita): «Mia è la vendetta, tutto ripagherò». A questo si contrapponeva la sua terribile passione per Miss Aiden, infantile nella sua ingenuità, adulta nella sua sfrenatezza. A scuola era in paradiso, a casa era in una camera di tortura. I bambini si soffermavano spesso a osservarla e pareva sapessero che lei ora viveva in un suo strano mondo, ma Sam pensava che fosse «in uno stato più confusionale che mai, anziché più lucida come lui aveva sperato ». Per sfuggire a Sam scappava spesso di casa col suo libro, generalmente Shelley (desiderava sposare un uomo come Shelley, soltanto uno come Shelley), leggeva e imparava. Per alcune settimane si era astenuta dal leggere I Cenci, dramma famoso, perché l'argomento le sembrava sgradevole, ma quando finalmente cominciò a leggerlo le parve che (a parte l'ambiente lugubre e fastoso) Beatrice fosse in una situazione come la sua. Il pomeriggio del sabato precedente Henny era andata in città con la bambola per la povera Cathleen, e lei aveva imparato:... Io ahimè non vissi su questa terra che pochi e tristi anni, e il mio fato era ordito in tale modo che primo un padre cambiò gli attimi del risveglio della vita in lacrime, ciascuna delle quali avvelenava le dolci speranze della giovinezza... (Shelley, I Genci, atto V, scena II) Era pomeriggio inoltrato quando videro Louie che tornava dalla spiaggia: un sole d'oro sanguigno incorniciava l'erba, le foglie e i capelli di Louie lavati di fresco. «Ecco dove se n'era andata Lulu tutta sola, rimuginando i suoi pensieri» disse Sam ai gemelli, sdraiati sull'erba vicino a lui sul lato occidentale della casa. «Sempre a pensare, sempre a fantasticare; è proprio un peccato che non abbia avuto la sua mamma per qualche anno: sarebbe stata migliore. Sapete, credo di aver fatto male a lasciarla parlare tanto con Bonnifero, quando la povera Bonnifero era qui, perché Bonnifero aveva la stupida idea di fare l'attrice e adesso Lulu non fa che parlare da sola» e la chiamò tutto allegro: «Nasoblù? Stai parlando da sola o stai declamando poesie?». Louie si fermò a guardarli e disse molto fieramente: «Sto recitando una poesia, se proprio vuoi saperlo». «Vieni, recitala anche a noi, Lulu» disse Sam stirandosi. Louie, senza indugiare, si avvicinò a loro e declamò il discorso di Cenci: ... Dio! Ascoltami! Se questo ingannevole pezzo di carne di cui facesti mia figlia; se il mio sangue, se questo demonio... che sorse da me come da un inferno, era inteso che fosse destinato a qualcosa di buono... Sam la guardò fisso, stringendo un po' gli occhi, ma si sentì rassicurato dal libro che lei aveva in mano, proprio quello che le aveva dato lui; Louie continuò: ... se la sua fulgente bellezza venne accesa per illuminare il buio mondo... Sam ripeté adagio: «Se la sua fulgente bellezza venne accesa per illuminare il buio mondo», e attese pazientemente che Louie continuasse, sempre con la bella bocca dalle labbra sottili atteggiata a un sorriso. Louie s'arrestò e disse di nuovo con fierezza: «Stai ridendo di me!». Si avviò per andarsene. «Rimani, Lulu» la pregò Sam. «No, non rido affatto di te. Sciocca d'una Lulu» gridò Sam, molto stupito. «Lulu, il tè lo prendiamo nel soggiorno». Quando lei entrò col vassoio tintinnante e lo posò a un'estremità della lunga tavola, Sam e i ragazzi erano davanti a una candela accesa ed Ernie, che era molto bravo in fisica, stava spiegando loro che al centro della fiamma c'era un punto freddo: se mettete lì un fiammifero, disse Ernie, non si accende. I bambini, ridacchiando per l'eccitazione, cominciarono a passare le dita attraverso la fiamma per sentire il punto freddo. Ernie vi tenne il dito fermo per un momento e lo tirò indietro con un comico strillo, e poi Sam tese il grosso indice giallastro, lo espose alla fiamma e lo ritrasse soffiando e facendo una grande parodia della sua sofferenza. Lulu rimase ferma a guardare la pallida fiamma della candela che fluttuava accanto al polveroso raggio di sole che entrava dalla finestra. «Prova, Lulu,» disse Ernie rivolgendosi a lei «prova anche tu, Lulu», perché Ernest si preoccupava sempre che tutti fossero persuasi dei suoi esperimenti. Intanto i bambini facevano stupidamente andare avanti e indietro le dita, ridacchiando e leccandosi le mani. Accennando un sorriso, Louie tese il mignolo della sinistra e lo tenne fermo sulla fiamma. I bambini si fermarono a guardarla esterrefatti a occhi spalancati, e Sam, che sulle prime, come al solito, aveva sul volto un sorrisetto di scherno, la guardò interrogativamente, e d'improvviso gridò: «Lulu, non fare la stupida!» mentre Tommy diceva: «Ehi, ti fai male» ed Ernie: «Basta, Lulu». Nella stanza c'era puzzo di carne abbrustolita. Louie ritrasse il dito e lo fece vedere per un attimo, carbonizzato, poi con calma uscì dalla stanza e andò a medicarselo con l'olio. Evie e Piccolo-Sam strillavano, e gli altri erano terrei per la paura, mentre Sam continuava a ripetere rabbiosamente: «Lulu è testarda come un mulo: Lulu non ha due soldi di buon senso in quella testaccia». Si alzò e andò sulla porta della cucina a chiedere in tono irato: «Lulu, non ti fa male?». «Non mi fa male» disse lei, ostinata. «Non è possibile».
«Nulla mi fa male se non voglio» gli rispose lei. Lui si allontanò con passo
pesante, stringendosi nelle spalle, terribilmente imbarazzato. La bambina era al
di là della sua comprensione. Decise che non avrebbe mai lasciato che Ernie gli
sfuggisse di mano a quel modo. Quanto a Evie non l'avrebbe mandata alle scuole
superiori. Aveva deciso che era stata l'istruzione superiore a «intaccare il
buon senso di Lulu», come diceva lui adesso alla sua famigliola in tono
vagamente lamentoso, e che era disposto a mangiarsi un cane se mai l'avessero
sorpreso a fare di Donnina una povera disgraziata intrattabile.
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