Autore Jón Kalman Stefánsson
Titolo Il cuore dell'uomo
EdizioneIperborea, Milano, 2014, n. 230 , pag. 460, cop.fle., dim. 10x20x2,8 cm , Isbn 978-88-7091-530-3
OriginaleHjarta mannsins
EdizioneBjartur, Reykjavík, 2011
PrefazioneAlessandro Zironi
TraduttoreSilvia Cosimini
LettoreFlo Bertelli, 2014
Classe narrativa islandese












 

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Indice


Queste sono le storie che dobbiamo raccontare                11

In un antico trattato di medicina arabo si dice              15
che il cuore dell'uomo è diviso in due parti, una
si chiama felicità, l'altra disperazione. A quale
dobbiamo credere?

La fibra celeste dell'uomo?                                 107

Nemmeno la vita, quello strumento grandioso,                113
ha un bel suono, né è stata accordata dal Signore

Quella ferita aperta nell'esistenza                         339

Questo maledetto mondo è vivibile finché mi ami             343

Il nostro più grande rimpianto è di non esistere più        431

Dove si ferma la morte, se non in un bacio?                 435


Postfazione di Alessandro Zironi                            447


 

 

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Pagina 13

La morte non è né luce né tenebra, è solo tutt'altra cosa dalla vita. A volte ci troviamo al capezzale di morenti e assistiamo al dileguarsi del soffiò vitale, ogni esistenza è un universo ed è un dolore vederla svanire, vedere il tutto ridursi a nulla in un attimo. La vita di ognuno è ovviamente diversa, per alcuni non è che banalità, per altri avventura, ma ogni coscienza è comunque un mondo che si estende dalla terra al cielo, e come può essere, allora, che una cosa tanto grande sparisca così facilmente fino a diventare nulla, senza lasciarsi dietro neppure una traccia di schiuma, neppure un'eco? È passato molto tempo dall'ultima volta che qualcuno si è unito al nostro gruppo, siamo ombre esangui, ancor meno di ombre, ed è brutto essere morti eppure non riuscire veramente a morire, non è un bene per nessun essere umano. In passato alcuni di noi hanno provato di tutto per cercare di fuggire, si sono gettati sotto automobili sempre più grandi, si sono ficcati tra le fauci di cani rabbiosi, ma le grida erano mute, le zanne dei cani ci trapassavano come aria, com'è possibile essere meno di niente eppure ricordare ogni cosa, essere morti e avere la percezione della vita come mai prima? Adesso puoi incontrarci la sera, accovacciati nel cimitero, dietro la chiesa che sta lì da un secolo, anche se l'edificio non è sempre lo stesso. La nostra chiesa, dove il reverendo Porvaldur ha provato, purtroppo con scarsi risultati, a ottenere il perdono e a vincere le proprie debolezze; la forza di ogni essere umano si misura solo per le sue debolezze, per il modo in cui vi reagisce; quella chiesa in legno rivestita di lamiera ondulata è sparita da tempo e al suo posto ne è stata eretta un'altra in pietra, un materiale venuto dai monti, come le si addice, in posti come questo una chiesa deve essere modellata sulla forma dei monti oppure sul cielo. Gli unici momenti in cui troviamo una parvenza di pace sono quelli che passiamo tra le tombe. Qui ci sembra di distinguere il mormorio dei defunti sottoterra, e un'eco lontana di chiacchiere allegre. Ecco fino a che punto può illuderti la disperazione. Ma questi momenti di requie si sono comunque moltiplicati a poco a poco, sembrano perfino essersi prolungati, le frazioni di secondo sono piano piano diventate secondi. Non siamo veramente felici, ma le parole che stiamo per dirti ci tengono caldo, sono la speranza e finché ci sono parole c'è la vita. Accoglile, e noi esisteremo. Accoglile, e ci sarà speranza. Queste sono le storie che dobbiamo raccontare. Non abbandonarci.

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Pagina 109

Sono così poche le cose di cui l'uomo ha bisogno, amare, gioire, mangiare, e poi un giorno muore. Eppure si parlano più di seimila lingue nel mondo, che bisogno c'è che siano così tante, per esprimere desideri così semplici? E perché ci riusciamo solo di rado, perché la luce che abita nelle parole impallidisce già mentre le scriviamo? Una carezza può dire più di qualsiasi parola del mondo, è vero, ma la carezza svanisce con gli anni e allora abbiamo di nuovo bisogno delle parole, sono le nostre armi contro il tempo, contro la morte, contro l'oblio, contro l'infelicità. Quando l'uomo ha pronunciato la sua prima parola è diventato quel filo che oscilla in eterno tra la cattiveria e la bontà, tra il paradiso e l'inferno. Sono state le parole a recidere le radici tra l'uomo e la natura, sono state il serpente e la mela e ci hanno elevato dalla sublime e ignorante condizione animale fino a un mondo che ancora non comprendiamo. La storia afferma che qui, una volta, quasi al principio dei tempi, la differenza tra parola e significato era a stento misurabile, ma le parole si sono consumate nel corso del cammino umano e la distanza che le separa dal loro significato si è talmente dilatata che nessuna vita, nessuna morte sembra più poterla colmare.

Eppure le parole sono l'unica cosa che abbiamo.

Qui erriamo, pallidi spettri, da quasi mezzo secolo, defunti, invisibili, soli. Altri che sono morti sono stati seppelliti nella terra e non sono più risaliti in superficie. Dev'essere stato doloroso. Le labbra che abbiamo baciato, i capelli che abbiamo accarezzato, le mani che abbiamo protetto, tutto è finito sottoterra per non tornare più, per essere ridotto in niente. Ma noi non siamo sprofondati nella terra, né siamo saliti al cielo. Senza dubbio non ti piacerebbe vederci adesso, moltitudine di esseri smunti e difformi quali siamo. Un tempo l'unico tratto umano che sussisteva in noi era la disperazione, allora abbiamo trovato una soffitta abbandonata in una grande casa, un posto dimenticato dove ci siamo appartati, carezzando la vana speranza che il tempo finirà per cancellarci, noi, gli scarti del mondo, torturati dai ricordi, dai rimpianti e dall'autocommiserazione. A stento ci accorgiamo dello scorrere del tempo, sulla terra si sono susseguite la guerra e la morte, la pace e la quotidianità. Molti anni sono trascorsi in una monotonia immobile, decenni, poi un giorno una gatta nera si è trascinata fino all'angolo più buio del nostro rifugio per dare alla luce cinque gattini. A volte usciva la sera per cercare cibo, ma dev'essere successo qualcosa in una delle sue spedizioni perché la gatta non è più tornata, forse l'hanno investita, e questi gattini ciechi e orfani che ha lasciato sono tuttora le uniche creature vive che abbiano percepito la nostra presenza. Cinque bestiole che avanzavano verso di noi tremanti di terrore, fame e solitudine, nella speranza di trovare calore, conforto, ma non abbiamo potuto procurare loro né l'uno né l'altro; uno era tutto nero con le zampine davanti bianche, ci ha ricordato tristemente il gatto che una volta il capitano di una nave straniera aveva portato al Villaggio. È morto per ultimo, singhiozzando come un bambino per tutta la notte, solo al mondo, senza capire perché quegli esseri di cui percepiva la presenza non facevano niente per lenire la sua solitudine. Ci abbiamo provato, è stata la cosa più dolorosa, ma tra noi e lui c'era quell'innominabile che non riuscivamo a scavalcare, a oltrepassare. Un gattino cieco, nero con le zampe anteriori bianche, è morto e per questo siamo usciti per tornare da voi, ci siamo spinti fuori dal nostro nascondiglio oscuro perché non siamo stati capaci di consolare un gattino morente, è stato un disegno di Dio, o solo il caso che ha voluto che la gatta partorisse e poi sparisse, e la compassione, la sola cosa che possa salvare l'essere umano, è forse la fibra celeste dell'uomo? Ci siamo spinti fuori per tornare da te perché non siamo indifferenti, e perché desideriamo liberarci, e comprendere. Il paradiso è forse il luogo dove non c'è più bisogno di capire, o la definizione si applica piuttosto all'inferno? Questo è il nostro ultimo tentativo, si è aperta una breccia tra noi e te, vite defunte entrano nella tua esistenza, tempeste dimenticate, occhi scomparsi, ti mormoriamo storie piene di sfavillii, distacchi, di sorrisi e di crudeltà, affinché tu ricordi, la nostra è una spedizione contro l'oblio, e nella speranza che dentro a queste storie si nascondano le parole che libereranno tutti noi dalle catene. Anche te.

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Pagina 115

I



Le estati islandesi sono talmente brevi e capricciose che a volte si direbbe quasi che non esistano nemmeno. Qui la neve può coprire fino a metà le pendici dei monti anche in giugno, perfino nell'abitato, e gli uccelli congelare tra i ciuffi d'erba nelle notti d'agosto. Ma niente al mondo è luminoso e limpido come il mese di giugno, i giorni e le notti si confondono, ogni ombra sparisce e il cielo resta di un azzurro eterno anche nel cuore della notte. È forse a causa di questa luce che il tempo sembra infinito e l'estate più lunga di quanto indichi il calendario? Oggi è il centunesimo giorno di giugno, ci viene da dire, mentre il calendario sostiene che sia il 15. Il centunesimo giorno, e la luce dilata lo spazio delle nostre esistenze.


Eppure è soltanto maggio.

Il beccaccino vola in picchiata su prati e torbiere, il fruscio delle sue piume in movimento è una melodia estiva che ci riempie di ottimismo. Il sole si avvicina ogni giorno che passa, ma c'è la neve sui fianchi dei monti, enormi ammassi bianchi, vestigia sanguinanti dell'inverno, la terra è ancora impregnata di umidità dopo la neve e i cumuli in fondo al fiordo si contraggono a vista d'occhio. Il ragazzo corre fin là più volte alla settimana, in un unico scatto indiavolato, dalla casa di Geirþrúδur fino ai mucchi di neve in fondo al fiordo. Percorre quella distanza senza motivo apparente e con uno sforzo immane, gli occhi fuori dalle orbite, spaventa cavalli e pecore, un uomo che corre vuol dire che è il momento della cerca, quindi fuggono a gran velocità non appena vedono il ragazzo. Helga gli chiede di scegliere l'orario in cui c'è meno gente in giro, di primo mattino o la sera tardi, se proprio deve correre a quel modo, e lui preferisce scegliere la sera, prima della lettura, quando la luce si è leggermente smorzata sulla terra, e la fatica della lunga giornata si posa su uomini e animali. Corre fino in fondo al fiordo, dieci chilometri, poi torna indietro, ma non dritto fino a casa, passa al di sopra del cimitero e scende fino a riva, fino alla cala, si siede sempre sulla stessa roccia e guarda il mare, in realtà sulle prime non vede granché per l'affanno, per il sangue che pulsa nelle vene, ma non ci mette molto a riprendersi. La riva è dolce in quel punto, morbida, è una lunga distesa di sabbia nera scoperta dalla bassa marea, e la cintura di rocce alle sue spalle nasconde il paese, la sola casa in vista è la catapecchia sbilenca dove abitano la vecchia Mildríδur e suo figlio Simmi. Simmi esce spesso a salutare il ragazzo con un cenno della mano, felice, come se la vita fosse bella, l'esistenza una valle di delizie, e il ragazzo lo saluta a sua volta, per il resto si accontenta di guardare il mare mentre riprende fiato dalla corsa, il sapore del sangue in bocca si dissolve a poco a poco, guarda il mare che quasi ha smesso di odiare, del resto è inutile, come odiare il cielo per il freddo. Osserva la Vetrarströnd, quel lungo ghiacciaio, l'unico al mondo a essere cosparso di campi e di pecore al pascolo. La neve copre tutto, dai declivi fin quasi alla riva, ma ha cominciato a ritrarsi e l'erba emerge verde sotto quel candore. Qui non esiste la primavera, non è mai esistita in settecento anni; l'estate subentra all'inverno. Seduto sulla roccia, il ragazzo pensa alle vite con cui è entrato in contatto su quella costa bianca, la ragazzina tossisce ancora, a volte guarda i fogli lasciati da Jens, che lei, con i fratelli e la sorella, avrà sicuramente già ricoperto di disegni e di parole, tossirà ancora o è accaduto il peggio, e se ne sta pazientemente coricata mentre suo padre, che ha tanta paura delle parole, le costruisce una cassa, inchioda assi grezze con chiodi e disperazione, costruisce una piccola cassa che contenga la cosa più grande e delicata che il mondo abbia mai visto? Vivi, dice il ragazzo alla pietra, lo dice ogni volta, vivi, lo dice alle onde che lo sussurrano ai pesci che lo ripetono al fondo del mare che lo riferisce agli annegati, vivi, dice al cielo che è sempre troppo lontano per le parole degli uomini. La Vetrarströnd fa ombra a Sléttueyri. Ciò che non vediamo ha la tendenza a sparire, a dissolversi, a ritrarsi talmente lontano dalla quotidianità da non toccare più la nostra esistenza. A volte però succede il contrario, le cose non spariscono affatto, anzi diventano più grandi, diventano incontrollabili, proprio perché la quotidianità non arriva a raggiungerle, niente le ossida. Insomma: lei ha i capelli talmente rossi che si vedono benissimo anche attraverso le montagne. E mica stanno li per scherzo, le nostre montagne, sono massicce e piene di asperità, eppure il colore dei suoi capelli le trapassa senza difficoltà per arrivare fino a lui, e cambia tutto. Cambia la terra e il cielo, tutto si fa rosso, come il sangue. Il mare, il cielo, le nubi, se ci sono nubi, il beccaccino diventa una goccia di sangue in aria, Simmi diventa rosso mentre lo saluta con la mano davanti alla sua catapecchia sbilenca, il casale stesso e il fumo che ne esce, le dita del ragazzo, le parole pronunciate all'aria, si alza per pisciare e il membro è rosso fuoco e l'urina anche, come mai è diventato tutto così rosso, mormorano gli annegati in fondo al mare, ma il ragazzo sospira come un animale ferito e osserva concentrato l'edredone in mare, fissa quel volatile che saltella finché il rosso comincia a sparire e tutto torna come prima, forse solo più misero. Si siede e osserva l'uccello, sa che deve sbrigarsi a tornare a casa per la lettura, Kolbeinn sarà impaziente, maledette corse, maledetto ragazzo, ma ha bisogno di correre, spiega Helga, è così giovane, cerca di tranquillizzare il capitano e difendere il ragazzo, macché bisogno, dice Kolbeinn, è solo libidine, deve trovarsi una femmina, maledette corse, accidenti agli snaturati, ma in mare, poco lontano dalla costa, l'edredone smania per riprendersi il suo colore naturale, si è messo a cianciare senza sosta, come fa da quando abbiamo memoria, che non è poco in confronto alla vita dell'uomo, perché la cosa gli sta tanto a cuore? Recita la nenia sulla vita eterna che cammina a passi lievi sopra la morte, snocciola sapienza antica dalle profondità del tempo? Non dovremmo, prima di avanzare troppo verso la fine, che comunque con tutta probabilità non sarà una fine, perché niente finisce finché la volta celeste sovrasta la terra, e la terra fluttua come una musica azzurra nell'universo nero, non dovremmo imparare la lingua degli uccelli, abbandonare le parole stanche, questi strumenti logori, e metterci a starnazzare e a cantare e a pigolare come loro, quale sapere sulle immensità della vita ci consegna l'edredone? O non fa che ribadire invece un unico verso, quello che ha composto in migliaia di anni, la sua semplice, profonda ode alla vita: Bello mangiare! Bello mangiare! Tace nell'attimo in cui si tuffa sott'acqua in cerca di cibo, mezzo minuto dopo guizza felice in superficie come un tappo di sughero, mastica, deglutisce, guarda contento il ragazzo che si è alzato dalla sua pietra, e ricomincia: Bello mangiare! Bello mangiare!

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Pagina 120

II



Maggio!

C'è così tanto da fare che le giornate non sembrano mai abbastanza lunghe, non ci sono mai abbastanza braccia, non ci sono momenti morti o spazi di silenzio, è gente stanca quella che va a riposare ai piedi dei monti vertiginosi, quella che si sveglia con la luce e si addormenta con la luce. Ovunque grida e movimento, risate e sfide! Sono in pochi a bighellonare e a porsi domande sulla distanza tra l'uomo e Dio, sul grande disegno, su cosa giustifichi l'esistenza umana. Chi gironzola senza una meta in queste settimane di alacrità piene di luce, viene semplicemente messo da parte, tolto di mezzo, non c'è posto per cose del genere qui, e i pensieri si sparpagliano per ogni dove in questa vita dilatata, si perdono nel fermento dei lavori.

La scuola è finita, tutti i bambini vengono coinvolti nelle attività, non c'è posto per i verbi danesi, e meno che mai per le antiche poesie latine, l'atmosfera sul Villaggio vibra, è come trovarsi all'inferno. Gísli, il direttore della scuola, di famiglia influente, non riesce quasi a rimanere in casa, la trepidazione penetra fin li, nelle viscere del vecchio quartiere, nella graziosa, piccola casa di legno con la solita donna che sala il pesce nel seminterrato, quella che gli paga un affitto talmente basso che quasi non è possibile scrivere un numero tanto piccolo, in cambio delle pulizie in casa di Gísli, qualche volta cucina per lui, l'agitazione arriva fin dentro il soggiorno che contiene molte centinaia di libri, la scrivania pesante, nemmeno i poeti francesi mezzi pazzi o gli eroi greci riescono a costringerlo in casa, la concitazione della luce e dell'alacrità lo spinge fuori, dove viene accolto dagli sforzi, dall'agitazione di tutti, dal lavoro, dalla salatura del pesce, dal cielo infinito. Quasi nessuno si concede un momento per scambiare due chiacchiere, e chi fa tanto di drizzare la schiena e massaggiarsi i lombi dolenti, non ha voglia di sprecare il suo tempo a parlare con un direttore scolastico che non lavora, a meno che non decida di parlare di pesce salato, benedetto quel satanasso del pesce salato, costruiamo le nostre vite sul pesce, diavolo se è riuscito a rimbambirci tutti all'infinito, come se mi interessasse quale barca o peschereccio di merda pesca di più, pensa Gísli e si affretta all'Hotel Heimsendir, l'albergo della Fine del Mondo, non si ferma al Sódóma da Ágúst e Marta, ci sono solo marinai che non chiacchierano d'altro che di pesce e di fica e parlano volgare a Marta che a volte risponde con un linguaggio talmente sboccato da macchiare di scuro il cielo azzurro di maggio. Quella Marta che aveva abbracciato il direttore della scuola tre volte quest'inverno, quando era andato a portarle dei libri, sulla mitologia e sulla storia del genere umano, sugli omicidi, i re e le rivoluzioni, aveva abbracciato Gísli e lui aveva potuto stringerla a sé, sentire distintamente i floridi seni, e allora l'aveva stretta a sé un pochino di più. Ma adesso il Sódóma è pieno di marinai e Marta non ha tempo per Gísli o per la storia del genere umano, la luce mi spinge alla fine del mondo, dice a Teitur il padrone dell'albergo che riesce sempre a sorridere con infallibile cortesia, anche se la battuta della luce e della fine del mondo l'ha già sentita più volte dalle labbra di Gísli. Si riesce a dimenticare la vita che pulsa fuori, in quell'albergo, si riescono a dimenticare molte cose tra quei mobili pesanti, e di tanto in tanto si incontrano anche degli stranieri, qualche solitario viaggiatore che nessuno capisce come mai si sia spinto fin lì, ai confini estremi del mondo abitato, capitani di grandi velieri che fanno la spola tra noi e il mondo, capitani di vaporiere, di mercantili del re di Danimarca, e allora a volte si fanno conversazioni vivaci e forse si levano scoppi di risa così violenti che Hulda, la figlia di Teitur, si tiene alla larga, per quanto può. Ma la birra è cara alla Fine del Mondo, tutto è più caro, il whisky, il cognac, il cibo, un rifugio e le comodità si pagano, e se questa estate segue l'andazzo delle precedenti, cosa che farà di certo, qui la vita somiglierà all'inferno, gravata dalla ripetizione, e allora Gísli dovrà rivolgersi alla clemenza di suo fratello, Friδrik, già ai primi di luglio e ottenere un prestito per potersi mantenere, finché il cielo non ricomincerà a oscurarsi e le bacche diventeranno blu sui declivi e i pendii dei monti. È una maledizione, doversi presentare in ginocchio all'ufficio di Friδrik, ma che cos'altro si può fare quando la luce ti punta contro i suoi fucili?

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Pagina 123

III



Se solo fosse inverno, quando le giornate si trascinano come un animale ferito a morte, l'oscurità è così densa che la gente non riesce quasi a spostarsi da una casa all'altra, e le notti così buie che perdi la mano se solo la tendi distrattamente davanti a te, e ci metti ore a ritrovarla. Il buio è piacevole, un rifugio in cui pensare, una caverna in cui strisciare, un letto su cui leggere, anche se, certo, può essere talmente pesante che certe cose si rompono e si fa fatica ad aggiustarle. Il buio comunque è mille volte meglio della luce, che è così leggera da non offrire alcun sostegno, non vi si appigliano né i pensieri né i sogni. Si estende sopra la volta del cielo, chiassosa come un gabbiano nero, e niente di più probabile che ogni cosa vivente sia condannata a cantare lodi alla vita; chi non ha la voce adatta a cantare cerca inutilmente un riparo. L'estate si risolve in un'attesa del buio.

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Pagina 183

X



Le parole non sono pietre inerti né ossa erose e battute dai venti sulle montagne. Perfino le più banali con il tempo possono allontanarsi da noi e trasformarsi in musei che ospitano epoche passate, cose scomparse che non torneranno più. I prati, i campi concimati, sono parole che quasi ci fanno venire un groppo in gola, ci si spezza qualcosa dentro, come quando ritroviamo all'improvviso vecchie fotografie e rivediamo volti spariti da tempo sotto terra, o in fondo al mare. Dove sono i prati, e ci tornano in mente quiete mattine d'estate, così quiete e profonde che sentiamo quasi la voce di Dio, ma ricordiamo anche le contrarietà, i piedi bagnati, il pesce umido, ricordiamo molto bene la fatica, ricordiamo ciò che è sparito e non tornerà mai più, ricordiamo, ed è un dolore, che una volta eravamo in vita, che una volta potevamo stringere una mano, udire domande infantili. Una volta eravamo vivi, una volta avevamo dei nomi che ogni tanto venivano pronunciati in un modo tale da far rinverdire i deserti della vita. Una volta eravamo vivi ma adesso non lo siamo più, ciò che ci circonda si chiama morte. Dove sono i prati?

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Pagina 197

Siamo all'inizio di giugno eppure la penombra domina ancora le montagne. Il tempo è fosco. Il vento rinforza, le pile di merluzzo salato vengono legate saldamente. Non c'è quasi nessuno fuori, in questa furia, eppure la giornata era cominciata bene, l'aria era piena di sole e di promesse azzurre di bonaccia e tranquillità, si sentivano i canti degli uccelli in lontananza, non trovavano alcun ostacolo nell'aria cristallina e immobile. Le mosche ronzavano sui fiori e sulle erbe, il pesce secco copriva la lingua di terra, i recinti dell'essiccazione, e i monti si erano fatti verdi e belli. Nel Villaggio c'era un gran movimento, naturalmente, urla e grida e risate e bestemmie e mani che lavoravano. Lúlli e Oddur si davano un gran daffare nella stiva di una nave il cui capitano era andato a cavalcare con Geirþrúδur, potrei amare questo paese, le aveva detto. Erano andati sulla brughiera per ridiscendere verso un altro fiordo, in una valle di prati deserta.

È bello starsene qui al riparo, aveva dichiarato Geirþrúδur, e lui l'aveva guardata a lungo e poi aveva detto, potrei amare questo paese. Tutto inverdiva e non tirava un alito di vento tra le zolle erbose e i fili d'erba, tra i monti che assorbivano la luce del sole e rifulgevano. In giornate del genere si direbbe quasi che il canto degli uccelli possa sanare le ferite che portiamo dentro. Erano rimasti a lungo sdraiati nell'erba, avevano trovato una conca accogliente, chi trova una bella conca in un'estate islandese non può lamentarsi, ha trovato la beatitudine, cioè, sempre che le mosche lo lascino in pace. I fili d'erba oscillavano quasi impercettibilmente, come schiere di grandi uomini rispettabili, e il canto degli uccelli sanava le ferite. Potrei facilmente amare questo paese, aveva detto il capitano, e poi aveva aggiunto, potrei facilmente amare te. Gli uomini dicono le cose più incredibili prima di soddisfare il loro desiderio o mentre lo soddisfano, poi ogni sussurro, le frasi ansimate, le promesse smisurate si rivelano superficiali e di poco conto non appena tutto è finito, il godimento è concluso, il membro non è più eretto e vibrante di desiderio e di voglia di vita ma pende flaccido, un lembo di pelle ciondolante tra le cosce. Quel momento però era già passato da un pezzo quando le aveva detto che avrebbe potuto amarla. Si erano sdraiati e quasi strappati di dosso i vestiti che li intralciavano, era stata passione sfrenata, frenesia, il cielo ne era stato testimone, i fili d'erba l'avevano avvertito, le montagne percepito e gli uccelli nelle vicinanze se ne erano spaventati, erano stati come animali selvatici, erano stati belli, ma adesso era tutto finito. Avevano fumato, bevuto qualche sorso dalla fiaschetta, osservato i fili d'erba, il cielo, i monti, gli uccelli, e il capitano aveva detto che avrebbe potuto amarla.

Posava la testa sul suo grembo e lei gli scostava i capelli dalla fronte, dagli occhi, quegli occhi limpidi, e da quel viso forte e bello, gli carezzava le labbra che sapevano baciare così bene, che sapevano dire le parole che fa piacere ascoltare. Lo so, disse. E tu, potresti amarmi? le aveva chiesto, pregato, supplicato. Una donna innamorata è vulnerabile, aveva detto lei, e io non posso permettermelo, e poi sei sposato, tu ami tua moglie, quindi continua a farlo. Sei crudele? No, ma la vita può esserlo. E allora quel grande straniero si era un po' intristito, quasi come un bambino, quel capitano di un fiero veliero che Lúlli e Oddur erano occupati a svuotare mentre lo stesso capitano se ne stava disteso tra le zolle d'erba con Geirþrúδur, sotto il cielo azzurro. Ti ha lasciato abbracciarla? aveva insistito Lúlli, costretto a tampinare l'amico per ottenere una risposta, e finalmente Oddur gliel'aveva data, con un sorriso.

Non si possono amare due donne? le aveva chiesto. Immagino di sì, aveva detto lei con le sue lunghe dita tra i folti capelli del capitano, forse è ancora più facile se c'è un oceano a separarle. Ma tu non mi conosci, John, sono un diversivo nella tua esistenza, una piccola avventura in un lungo viaggio, una piccola avventura dai capelli scuri che ti aspetta qui alla fine del mondo, tra montagne così alte e scoscese che nessuno ci vede. Non potresti amarmi se mi conoscessi, se stessi insieme a me tutti i giorni, il mio cuore è un organo che batte perché non sa fare nient'altro. Sono il mare, John, e come il mare offro la libertà solo per qualche istante, ti invito a un'avventura, a un piccolo peccato, ma chi si arrischia troppo lontano su un mare del genere non trova nient'altro che solitudine e morte.

Un beccaccino aveva emesso il suo verso li vicino, il piviere dorato gli aveva risposto con il suo canto doloroso. Sei così infelice? Glielo aveva chiesto a voce bassa, con prudenza. Devi conoscere la felicità per sapere che cos'è l'infelicità, e non guardarmi così, non ho bisogno di essere consolata, non c'è niente per cui debba essere consolata, la vita è una vittoria o una sconfitta, e io voglio vincere a modo mio. Com'è possibile vincere senza felicità, aveva chiesto il suo capitano, John Andersen, alzando la grossa mano verso Geirþrúδur, le aveva carezzato gli occhi, l'aveva carezzata come si fa con le persone a cui teniamo molto, e lei gli aveva preso la mano, gliel'aveva morsa dolcemente con i suoi denti da carnivoro, te lo dirò domani, o te lo sussurrerò, adesso comincia a rinfrescare. E avevano alzato entrambi lo sguardo al cielo, l'azzurro si era scurito, il maltempo che ora frusta la casa di Friδrik si stava avvicinando. Ma se vuoi, aveva aggiunto, e se puoi di nuovo, io sono pronta. Solo se mi autorizzi ad amarti, aveva detto lui.

Ti autorizzo, ma lascia qui l'amore, quando riparti a bordo della tua nave, lascialo qui, tra le montagne.

L'amore non è un oggetto che si può lasciare e riprendere.

Sì, un amore come questo, aveva detto sbottonandosi. Si era sbottonata la blusa rivelandogli il seno bianco, quel seno che poteva contemplare all'infinito, che lo perseguitava anche in alto mare, fino all'Inghilterra, quel seno, quella pelle, quell'odore, quelle lunghe gambe che si allacciavano a lui, e i capelli neri come il carbone che fluttuavano come la notte sul verde dell'erba e della brughiera, quelle parole roche che gli mormorava all'orecchio, solo se mi autorizzi ad amarti, aveva sussurrato felice, aveva sussurrato disperato, non porterà altro che dispiaceri e morte, aveva sussurrato lei a sua volta, poi gli aveva tenuto la testa all'indietro con forza, in modo che non potesse più vederla in faccia, non potesse vedere gli occhi scuri che guardavano il cielo. Il cielo che cominciava a guastarsi. Il cielo che è così lontano che a volte è come se avesse condannato l'uomo alla solitudine. E adesso questo cielo è pesante e irrequieto, carico di scure nubi precipitose. Su di noi incombe una tempesta minacciosa, eppure è estate. Eppure è giugno, che può essere talmente luminoso che è come se vedessimo il fondo dell'esistenza, come se vedessimo l'eternità in lontananza, immensa e benevola. Una burrasca, eppure è giugno, potrebbero anche trattarci un po' meglio.

Il vento smembra il mare e tutto ciò che non è stato assicurato saldamente vola via, carriole, pale, promesse, scusa, ma non ti amo più, il vento mi ha strappato l'amore e l'ha portato via con sé. I cavalli sparsi nelle brughiere, anche nei punti più esposti, volgono le groppe al vento che frusta a sangue, si lasciano malmenare da quel malumore in attesa che scemi, lo sguardo fisso, impazienti di poter tornare a pascolare. La pioggia li percuote con furia, colpisce la grande finestra del salotto della casa di Geirþrúδur, sono seduti li tutti e quattro, il ragazzo sotto la lanterna, ha bisogno della luce per vedere le pagine, dov'è finita la luce, chi l'ha presa, riportatecela, non meritiamo di essere trattati così.

Deve forzare un po' la voce perché la trinità senta, perché ogni parola dev'essere afferrata, perché questa è la letteratura, è la regola, è così che dev'essere, scrivere è una guerra e forse gli autori conoscono più sconfitte che vittorie, è così che vanno le cose, gli aveva assicurato Gísli, perso nelle sue spiegazioni, gli occhi che ardevano come se fosse davvero vivo. Aveva letto le cinque pagine che il ragazzo aveva finito di tradurre dal romanzo del signor Dickens, A Tale of Two Cities. It was the best of times, it was the worst of times. In quella storia ci sono pochi errori, poche sconfitte, il che rende il lavoro del traduttore più arduo ma più appagante. Il ragazzo non aveva detto niente, aveva tenuto davanti a sé le cinque pagine, in alcuni punti abbondantemente annotate da Gísli, la sua traduzione, quel lavoro incessante, quell'angoscia, quel sudore, quella felicità, quel fragile trasloco da una lingua all'altra, fatta a pezzi dalle note del direttore che continuava a parlare, il ragazzo fissava le pagine e sentiva la rabbia avvampargli dentro. Quanto mi piacerebbe accartocciare quei fogli, farne una bella palla e infilarla in bocca a Gísli, in fondo alla gola, a quel corridoio scuro. Adesso non ti montare la testa per i miei complimenti, l'orgoglio è un veleno, aveva detto Gísli d'un tratto brusco. I suoi complimenti, gli aveva fatto eco il ragazzo, che aveva sorriso senza rendersene conto, ancora con gli occhi sulle pagine scribacchiate, i suoi complimenti, aveva ripetuto, li chiama complimenti fare a pezzi un lavoro per il quale uno ha dato tutto se stesso, il cuore, i polmoni, il respiro? Nel suo stupore il ragazzo aveva guardato Kolbeinn che sedeva lì accanto, a occhi chiusi, come se dormisse, ma con l'orecchio sinistro rivolto verso di loro e ascoltando ogni parola. Sì, aveva detto Gísli, li chiamo complimenti, dire che hai fatto un lavoro discretamente buono, in qualche punto direi ottimo, cosa davvero sorprendente per una persona non istruita, io li definisco complimenti, non era un complimento quello che gli ho fatto, Kolbeinn? Aveva alzato la voce, si era voltato a guardare il capitano che non aveva risposto, non aveva mostrato alcuna reazione, ah già, è vero, tu non ci sei, che splendida facoltà quella di sparire così, una facoltà davvero eccezionale, dovresti darmi qualche lezione. Io non l'ho sentito, voglio dire il complimento, aveva detto il ragazzo in tono di scuse, ho visto solo che avevi coperto il foglio di annotazioni, credevo non valesse niente. Davvero, lo credevi? Sì. E allora quel sorriso che cosa doveva significare? Mi ero solo messo a pensare. Pensare a cosa, cosa c'era di tanto divertente? Be', aveva detto il ragazzo imbarazzato, che sarebbe stato divertente infilarti tutti i fogli in gola, e allora Kolbeinn aveva riso, o meglio si era lasciato scappare dei suoni come un cane vecchio e scorbutico che inaspettatamente trova un motivo per gioire; un buon boccone di carne, una pulsione sessuale sopita.

E il ragazzo legge quelle pagine, è riuscito a ricopiarle in tempo, ha seguito in buona parte i consigli, i suggerimenti di Gísli, le legge mentre la pioggia sferza il mondo, sferza la casa, sferza i cavalli e il vento straccia il mare. Legge e cerca di dimenticare che adesso da qualche parte il mare sale inondando la terra, una grande marea, bisogna proprio che quella tempesta arrivi adesso, come per punirci di aver goduto della luce, della mitezza dell'estate.

C'è forza in questo testo, dice Helga quando il ragazzo ha finito di leggere le cinque pagine, le parole che ha trovato nella sua lingua e che ha usato per costruire un ponte affinché gli altri, ma anche lui, possano visitare mondi lontani, vite, sensazioni, visitare ciò che è distante da noi e di cui non sappiamo niente. La traduzione, aveva detto Gísli, è quasi impossibile definire quanto sia importante. Arricchisce e amplia l'essere umano, lo aiuta a comprendere meglio il mondo, a comprendere se stesso. Una nazione che traduce poco e attinge la sua ricchezza solo nei propri pensieri è ristretta, e se è una nazione vasta diventa addirittura un pericolo per le altre, perché tutto le è estraneo, a parte i suoi valori e le sue usanze. Le traduzioni ampliano gli orizzonti dell'uomo e, al tempo stesso, il mondo. Ti aiutano a comprendere i popoli lontani. L'uomo è meno incline all'odio, o alla paura, se comprende l'altro. La comprensione può salvare l'essere umano da se stesso. È più difficile per i generali costringerti a uccidere, se comprendi il nemico. L'odio e i pregiudizi, lascia che te lo dica, sono frutto della paura e dell'ignoranza, puoi anche segnartelo da qualche parte.

E lui l'aveva fatto, si era segnato tutto, poi era andato nella sua stanza e aveva sistemato la traduzione, e adesso l'ha letta, l'ha letta mentre la bufera sferzava i muri della casa, mentre la pioggia frustava il Villaggio, í cavalli, le pecore, la terra e la luce di giugno era diventata penombra. Conclude la lettura, c'è forza in questo testo, dice Helga, sì, conferma Geirþrúδur, è vero, c'è forza e guarda il ragazzo, perfino Kolbeinn sembra mormorare qualcosa che si può presumibilmente interpretare come un complimento, quel vecchio burbero che non ha ancora fatto entrare il ragazzo nella sua stanza per fargli vedere la biblioteca, quattrocento volumi, figuriamoci prestarglieli, e per quanto il ragazzo speri ogni giorno in un cambiamento, non gli passa nemmeno per la testa di chiederglielo per primo, mai per niente al mondo, ognuno ha il suo orgoglio. Sta seduto in salotto e ha finalmente realizzato qualcosa. Ha fatto qualcosa di importante, qualcosa di diverso che non sia tirare su il pesce dalle profondità del mare, estrarre torba, mettere via il fieno, mentre il cielo si scuote nella tempesta e i pescherecci lottano contro la morte, il ragazzo ha la sensazione di contare qualcosa. Lui che si è preso gli insulti peggiori da quando il padre è annegato, dieci o dodici anni fa, lui che scorda tutto, non ricorda niente, che è distratto, dimentica e perde. L'avresti perso da un pezzo, gli dicevano le streghe della fattoria in cui era cresciuto, dopo che erano morti tutti coloro che avrebbero dovuto restare in vita, l'avresti perso da un pezzo quel coso che ti penzola tra le gambe, se non fosse attaccato. L'hanno chiamato cretino, stupido, caprone, maldestro, zuccone, fannullone, svogliato, scansafatiche, disgraziato, pezzente, rifiuto, pigrone, disonesto, la lingua possiede una dovizia di termini del genere, e poi è più facile insultare e umiliare, non ci vogliono grandi capacità né buonsenso, e meno che mai coraggio. Ma innegabilmente può risultare difficile, a volte, credere che un bambinetto fisicamente sano, poi adolescente e infine giovane uomo, impieghi così tanto a portare a termine certi incarichi, che le sue mani non riescano a ricordare il minimo gesto, magari la sera aveva imparato a fare un nodo, poi veniva la notte e al risveglio le mani avevano completamente dimenticato come fare. Allora mi sa che sei solo stupido, gli aveva detto una volta una vecchia, non per cattiveria, piuttosto per incredulità. Ed ecco che ora lo lodano, e non è poco per lui, a cui hanno affibbiato epiteti offensivi per tutta la vita, le parole hanno un potere, possono penetrarti dentro e lavorare, convincerti a credere diverse cose sul tuo conto, ricevere complimenti del genere, e da queste donne, poco ci manca che il ragazzo si metta a frignare. Altre cinque pagine la prossima settimana, ce la fai? chiede Geirþrúδur e si porta il bicchiere di vino alle labbra, quelle labbra che oggi sono state baciate, e hanno baciato, allora era viva, in quella valle disabitata, esisteva, ardeva, gli uccelli si sono spaventati e i monti le sono stati testimoni. Sì, dice il ragazzo convinto, sicuro, felice, ce la faccio, ha il fervore negli occhi, ma fuori imperversa la tempesta e il mondo trema. Sarebbe certo più sicuro legarlo, perché non voli via nell'universo nero. Andrea è coricata nel suo letto nella stanza del seminterrato e ascolta la burrasca, a dire il vero il letto non è suo ma di Geirþrúδur, come tutta la casa, sta lì distesa e non riesce a prendere sonno, si rigira nel letto, non trova la posizione, non sa come vivere, il vento percuote la casa, strappa il mare che è profondo e nero e inquieto, perfino il Pollur, di solito calmo anche quando il mare è increspato dai marosi, è in preda all'agitazione e la nave di J. Andersen beccheggia terribilmente, con la stiva vuota.

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