Copertina
Autore Gian Antonio Stella
Titolo Tribù
SottotitoloFoto di gruppo con cavaliere
EdizioneMondadori, Milano, 2001, Frecce , pag. 320, dim. 150x225x28 mm , Isbn 978-88-04-49736-3
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe politica , satira , biografie , sociologia , destra-sinistra , paesi: Italia: 2000
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Indice


   3 Introduzione
     Silvio, Stalin e Clarabella

  17 GABRIELE ALBERTINI
     La «Bertuccia d'acciaio»

  25 GIANNI BAGET BOZZO
     L'apostolo dei due Messia

  31 UMBERTO BOSSI
     «Un carisma in cerca d'impiego»

  39 ALDO BRANCHER
     Il prete bello e il «compagno G»

  45 ROCCO BUTTIGLIONE
     Il cleropositivo più laico d'Italia

  53 ROBERTO CALDEROLI
     Il manzoniano che «mutò mutanda»

  59 GABRIELLA CARLUCCI
     Tacchi a spillo da combattimento

  65 VALERIO CARRARA
     Galli forcelli e salto della quaglia

  73 PIER FERDINANDO CASINI
     Un «play-president» da copertina

  79 ROBERTO CASTELLI
     La sentinella della sezione Teodolinda

  83 LUCIO COLLETTI
     L'hegeliano di scuola sibaritica

  91 FRANCESCO COSSIGA
     Don Ceccio e l'onore dei barbaricini

  99 NICOLA CUCULLO
     Dal manganello alla vaselina

 105 TOTÒ CUFFARO
     Madonne e caciotte per «Zu Vasa Vasa»

 111 GIUSTINA MISTRELLO DESTRO
     «Miss Crusca» e i Gran Dottori

 119 GIULIANO FERRARA
     L'ombrello british del «Cicciopotamo»

 127 GIANFRANCO FINI
     Una faina senza zavorra

 137 ROBERTO FORIUGONI
     Bobby «il Casto» e Kim Basinger

 143 GIANCARLO GALAN
     Il «Colosso di Godi»

 151 MAURIZIO GASPARRI
     «Purgar Rai mi saziò»

 159 GIANCARLO GENTILINI
     Il «capitan Trinchetto» di Treviso

 165 GIORGIO GUAZZALOCA
     Il macellaio umanista e le lacrime mariane

 171 ENRICO LA LOGGIA
     Un dobermann sensitivo per il gigante dell'Etna

 179 IGNAZIO LA RUSSA
     «A fozza di cumannari si futti»

 187 GIANNI LETTA
     L'«Eminenza azzurrina» di Smorza Italia

 195 PIETRO LUNARDI
     La Talpa gigante e gli Orchi verdi

 201 ANTONIO MARTINO
     Libera pennica in libero Stato

 207 ALTERO MATTEOLI
     «Boccaccia mia statte zitta»

 213 MARCELLO PERA
     Tesi, antitesi e Coca-Cola

 219 GIUSEPPE PISANU
     Povero Beppe, povero Zac, povero Calvi...

 227 RENATO RUGGIERO
     Ai funerali di Pasternak con Napoli nel cuore

 233 PIERINI SANITATE
     «'sta democrazia cos'è? 'na bavarola»

 239 DANIELA SANTANCHÉ
     Anche le cinciallegre hanno un'anima: nera

 245 CLAUDIO SCAJOLA
     Il colonnello del Cavalier Sole

 253 VITTORIO SGARBI
     Il «Wandissimo» scampato al cimurro

 261 FRANCESCO STORACE
     Un «Moderator» rubato al cabaret

 267 CARLO TAORMINA
     In nome dello Stato (e del cliente)

 275 MIRKO TREMAGLIA
     Il «Tricheco nero» che piace a sinistra

 281 GIULIO TREMONTI
     Le sardine del primo della classe

 291 ALFREDO VITO
     Bustarelle all'acqua pazza

 295 ELIO VITO
     «M'illumino d'incenso»

 299 IVA ZANICCHI
     Polenta azzurra per la «Zia della Patria»

 303 Ringraziamenti

 305 Bibliografia

 307 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 3

Introduzione
Silvio, Stalin e Clarabella



Roy «Jella» Sullivan, un guardiaparchi della Virginia, aveva una scalogna pazzesca. Il primo fulmine lo centrò nel 1942 e gli portò via un alluce, il secondo nel '69 gli incenerì le sopracciglia, il terzo nel '70 gli ustionò la spalla sinistra, il quarto nel '72 gli incendiò i capelli, il quinto nel '73 gli piagò le gambe, il sesto nel '76 gli squarciò la caviglia, il settimo nel '77 gli bruciò il petto. Finché, scosso da tanto inspiegabile accanimento di Zeus e rifiutato da una ragazza che pare lo considerasse un po' troppo elettrico, decise di aiutare il Fato affidandosi per sua scelta a Caronte: addio.

L'Italia, viceversa, ha una fortuna sfacciata. Così, dopo aver provato il trasformismo giolittiano, gustato l'olio di ricino delle camicie nere, sospirato sulle lacrime delle Madonnine del '48, tossito coi candelotti lacrimogeni sessantottini, saggiato i muscoli di capitan Bettino, perso la testa per Tonino «Manette» Di Pietro, imprecato contro le «toghe rosse», ballato al Cilda con la sinistra gaudente degli «chef à penser», è entrata nel Terzo millennio decisa a provare l'ultimo brivido: il governo del «Mago» e delle zucche. Parole di Silvio Berlusconi: «Erano delle zucche e li ho trasformati in principi».

Zucche repubblicane e zucche monarchiche, zucche fasciste e zucche socialiste, zucche dorotee e saragattiane, zucche liberali e azioniste. E zucche coscialunga e podiste, tangentare e spretate, corrotte e baciapile, fiscaliste e residenti a Montecarlo, clericali e mangiapreti, sudiste e sbrana-terroni, clientelari ed einaudiane, cavouriane e pippo-baudiste. Destinate probabilmente, senza quel tocco di bacchetta magica, a restare, magari dignitosamente, zucche. Miracolate e unite da un solo denominatore comune: lui.

Ci aveva già provato in America Phineas Taylor Barnum, a far politica mettendo insieme un estroso caravanserraglio di «curiosità umane» apparentemente unite solo dall'appartenenza al magico «Circus». E con il suo campionario, che andava dalla bimba coi mustacchi alla terrificante gigantessa triste di due metri e trenta, dal pupo più grasso del mondo allo scheletro vivente, dalle famiglie albine al generale Pollice, un nano roseo come un neonato che declamava Shakespeare, il re del circo diventò sindaco di Bridgeport e festeggiò l'elezione sparando nel cielo di New York la povera Zazel, la ragazza cannone. Finché, montatosi un po' la testa, non accarezzò perfino il sogno di diventare presidente. A lui andò buca, al «Mago di Arcore» no.

Intendiamoci: non è che i parlamentari di altri paesi siano tutti statisti al cui confronto i nostri appaiono gnomi. Le Filippine hanno avuto un presidente attore come Joseph Estrada, il Minnesota un governatore campione di lotta libera come Jesse «Muscolo» Ventura, il Belgio una candidata alle europee come Anke Vandermeersch che prometteva di spogliarsi tutta nuda su «Playboy» in caso di elezione. La Russia ha rischiato di avere presidente della Duma il mostruoso Alexander Karelin, un immenso orso siberiano che scrive poesie sulle ortensie e ama Musorgskij ma è famoso per avere vinto tre Olimpiadi consecutive nella lotta greco-romana e fu eletto deputato nel partito di Putin grazie alle leggende per le quali il popolo impazziva. E narravano che alla nascita pesasse sette chili e a otto anni giocasse con le incudini e, come Milone, abbattesse un manzo con un pugno per mangiarselo tutto in un giorno e si allenasse correndo nella neve con un paracarro sulle spalle.

Forse da nessuna altra parte al mondo, però, fatta eccezione s'intende per i paesi teatro di una rivoluzione o di un golpe, si è assistito a un ricambio di partiti e di classe dirigente traumatico, rapido e radicale come quello avvenuto in Italia a partire dalla prima metà degli anni Novanta. Una svolta così profonda da avere rovesciato, prima a destra ma poi anche a sinistra, gli stessi percorsi d'accesso alla politica.

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Pagina 127

GIANFRANCO FINI
Una faina senza zavorra



«Un giorno si avvicina a un gruppo di giapponesi e coi suoi modi sussiegosi li ricopre di insulti, sicuro che quelli non lo avrebbero capito: "Pidocchiosi, teste di cazzo, coglioni". Così per ridere. Anche loro ridevano...» Chissà se Francesco Storace si lascerebbe andare anche oggi in confidenze come quella fatta pochi anni fa al «Giornale» sull'idea eccentrica di svago del Signor Vicepresidente del Consiglio del «Berlusconi secondo» onorevole dottor Gianfranco Fini. Chissà se riderebbero ancora, i giapponesi vittime della cameratesca goliardata. E chissà se riderebbe lui, il vatusso bolognese che tiene assai all'immagine che si è dato nel tempo di asciutto statista. Certo è che, come persona, appare un po' più complesso di quanto lasci pensare la sua figura di freddo e distaccato professionista della politica. Basti ricordare cosa rispose il giorno in cui gli chiesero se «sinceramente» non stesse pensando di scaricare il suo amico Silvio, che passava giorni di grande difficoltà. Rispose: «Sinceramente non me lo può chiedere. Io non sono sincero quando parlo di queste cose. Anzi, sono reticente».

Francesco Cossiga, che pure non ha mancato di dargli qualche scappellotto («Se non la smette di dire che D'Alema è comunista tornerò a chiamare lui fascista»), e arrivato a definirlo «un Tony Blair di destra» e a donargli un giudizio apparentemente lusinghiero: «È il migliore. Porta avanti il suo gioco politico con una buona lucidità. Ma è privo dei supporti dottrinari. Non so se legga qualche libro. So che mischia un po' tutto: Evola e il liberismo, la conservazione e il libertarismo». Traduzione dal cossighese: un grande tattico esperto di pura tattica. Senza tante ideologie. E senza spessore.

«Cuore» gli dedicò un titolone folgorante: Voto Rutelli. Questi fascisti mi fanno paura. Il sommario diceva: «Mi sento anche un po' extracomunitario, ebreo e comunista, per non parlare delle mie nuove tendenze omosessuali. Sconcerto tra i suoi sostenitori: d'accordo capo, basta col fascismo, ma possiamo almeno rimanere nazisti?». Una forzatura di quella canaglia di Michele Serra. Il quale coglieva, però, un punto chiave dell'uomo che sarebbe diventato vicepresidente del Consiglio: il pragmatismo assoluto. Un impasto di ambizione, disponibilità a liberarsi di ogni zavorra simbolica, capacità di adattare la linea agli eventi, indifferenza alle accuse di incoerenza.

«Faina in forcing.» Così lo ha ribattezzato, con l'anagramma del nome, Stefano Bartezzaghi. Faina sì, il resto meno. Dopo aver tentato spesso di smarcarsi dal ruolo di spalla ed esser stato via via fermato da una tranvata elettorale, l'ossuto Fini decise infatti di giocare non più in forcing, ma in surplace. Accettando fino in fondo il ruolo di numero due, anche con la vicepresidenza del Consiglio senza delega, alla larga da ogni responsabilità diretta e quindi da ogni grana, ogni polemica, ogni attacco, salvo quelli che lui stesso decide di andarsi a cercare. Come quando volle prima mostrare personalmente i muscoli a Genova nei giorni del G8, e poi si schierò a spada tratta nella difesa acritica di tutti i poliziotti e tutti i carabinieri «sottoposti a un linciaggio» dalla sinistra, indifferente agli inquietanti retroscena che sarebbero emersi e alle accuse che sarebbero arrivate dai governi stranieri. Deciso a restare defilato e insieme vestire i panni dell'Uomo Forte anche in dissonanza con le prudenze berlusconiane. Esattamente il ruolo in cui Mario Segni lo aveva immaginato anni fa: «Con la sua fredda astuzia sembra il duca Valentino dei Borgia, che aspetta il logoramento del Cavaliere per proporsi come il vero leader della destra».

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Pagina 281

GIULIO TREMONTI
Le sardine del primo della classe



«Le idee nuotano più veloci delle sardine» disse solennemente Giulio Tremonti, aggiustandosi con l'indice gli occhialetti sul naso. E tutti dissero: però! Riassunto delle puntate precedenti: Bossi aveva mandato a spasso Berlusconi nel '94, Berlusconi aveva giurato che mai più avrebbe bevuto un caffè con l'uomo che aveva «fatto piangere mia mamma», Bossi aveva visto che col dio Po si era impantanato, Berlusconi aveva capito che anche lui senza Bossi andava a impantanarsi, Bossi aveva fatto capire che «forse, boh, chissà», Berlusconi gli aveva mandato a dire che l'avrebbe volentieri rincontrato, Bossi gli aveva risposto ricordandogli, velenoso, il «ribaltone» fatto a casa sua con D'Alema e Buttighone davanti a un pacco di cracker e alle sarde: «Se Silvio vuole, gli offro una scatola di sardine». Fu lì, narrano gli agiografi, che si fece la Storia. E Giulietto ne fu il regista.

Che le idee nuotino più veloci delle sardine, del resto, lo sa per esperienza personale. Figlio di un farmacista di Sondrio originario di Lorenzago, il paese cadorino amato da Giovanni Paolo II, primino della classe alle elementari, primo alle medie, primo alle superiori, primo all'università, laureato a ventitré anni, in cattedra a ventisette a Macerata (per poi passare a Parma e a Pavia), consulente del ministro delle Finanze Franco Reviglio a trentuno, ha toccato negli anni diverse sponde.

Secondo «L'Espresso» all'università di Pavia «portava i riccioli lunghi e tifava per i gruppetti extraparlamentari». Negli anni Ottanta era così vicino ai socialisti di Craxi da venire candidato alle elezioni dell'87 ed essere inserito nella famosa assemblea di «nani e ballerine». Mentre Craxi era trascinato alla deriva, alla fine del '92, spiegò: «Non ci sono mai andato, non so neanche che cosa è e cosa fa. Preferirei non parlarne».

Subito dopo, ricostruisce Stefano Livadiotti sul settimanale di via Po, si avvicina a Leoluca Orlando e alla Rete, «di cui scrive il programma fiscale». Poi ad Alleanza democratica, di cui, secondo «la Repubblica», «scrive il programma fiscale». Poi al Patto di Mario Segni, del quale non può scrivere il programma fiscale solo perché Mariotto gli preferisce Augusto Fantozzi. Quindi, lasciati tre giorni dopo le elezioni del 27 marzo i pattisti coi quali era stato eletto come capolista a Milano (pattisti che salutarono l'addio suo e di Alberto Michelini al simpatico grido di «traditori, venduti, Giuda, ascari!»), entra in Forza Italia. Di cui riscrive il programma fiscale.

Si trattò, con ogni probabilità, di un impetuoso tormento interiore. Sei giorni prima del voto e nove prima del trasloco nel Polo, infatti, il 21 marzo '94 aveva fatto a pezzi con due sole parole le promesse del Berlusconi del quale sarebbe diventato prima il ministro delle Finanze e poi dell'Econonúa: «Miracolismo finanziario».

«Ammetterà che l'idea dei vostri avversari di Forza Italia di introdurre un'aliquota unica del trentatré per cento è allettante per l'uomo della strada» gli aveva suggerito malizioso Marco Cecchini del «Corriere». E lui: «Panzane. Quell'idea mi ricorda la favola di Voltaire, che diceva "voglio diventare svizzero, maledetta l'imposta unica che mi ha ridotto in miseria". Quell'idea fa pagare meno ai poverissimi e ai super-ricchi, ma penalizza proprio la classe media, l'uomo della strada».

E per ricordare come lui e il Patto s'apprestassero a picchettare Sua Emittenza, aveva aggiunto: «Il mondo è cambiato, i beni che hanno valore economico sono diversi. L'etere, per esempio, non è forse tassabile? O vogliamo considerare il demanio come qualcosa limitato al fisico?». Domanda: «Scusi, ma l'etere non è già tassato?». E lui, inamidando la voce come fa quando non ammette obiezioni: «In modo ridicolo, mi creda».

Se c'è un difetto che Giulio Tremonti non ha, infatti, è di non credere fortissimamente in ciò che sentenzia. O almeno in ciò che sentenzia in quello specifico momento. Che poi tenga duro è un'altra faccenda. I nemici per esempio, oltre alla giravolta del '94 riconosciuta perfino dal fratello Pier Luigi candidato di AN («Giulio se non vado errato ha preso i voti da una parte dicendo delle cose e poi è andato a professare la sua attività da un'altra»), non smettono di rinfacciargli la posizione sul condono. Sul «Corriere», quando vi collaborava, aveva scritto: «In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge». Diventato ministro, varò un «ravvedimento operoso» altrimenti chiamato «accertamento con adesione». Gli dissero che, lo chiamasse come voleva, era un condono. Lui negò: no. Glielo disse anche il governatore Antonio Fazio. Sibilò: «Non mi risulta che sia un esperto fiscale».

Quando Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi stavano mettendo in cantiere l'«eurotassa» per raggiungere a tutti i costi l'obiettivo di entrare in Europa, impresa poi riconosciuta come una vittoria per il Paese anche da Berlusconi nel discorso d'investitura al Senato, cannoneggiò peggio di Giovanni il Bastardo contro i Turchi a Lepanto. Bum! «È una tassa più bizantina che europea.» Bum! «Non servirà nemmeno allo scopo per cui è stata inventata.» Bum! «È piena di trucchi contabili, di entrate fittizie, di provvedimenti dai gettiti risibili quando non sono stati gonfiati. Come negli anni peggiori avremo una "pomicinata".» Bum! «Gli italiani pagheranno due volte: prima in tasse, poi in recessione.» Bum! «Possiamo sperare almeno nel rimborso?» chiese intimidito Massimo Fracaro, che l'interrogava per il «Corriere». «Non ci credo proprio.»

 

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Riferimenti


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Quaranta, Guido, Non avrai altro divo all'infuori di me,
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