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| << | < | > | >> |Pagina 7Istanbul, estate. Rose in un'urna di argento battuto. Caffé appena passato a mano in un macinino di rame lucido. Nel locale danneggiato persisteva un aroma denso di fertilizzante e olio combustibile. Attraverso il metallo arso, il cemento frantumato, la tappezzeria bruciata, Starlitz percepiva il retrogusto di caramello caldo dell'autobomba.«Dove sono le ragazze?» fece il turco. «A Cipro. A divertirsi.» «Con i greci?» «Cielo, no» lo rassicurò Starlitz. «Sono nella parte divertente di Cipro. Quella turca.» Il turco sorrise. Sollevò il coperchio della caffettiera e vi versò un cucchiaio colmo di zucchero di canna. Starlitz si rilassò sulla sedia di ferro battuto e intrecciò le mani paffute sul panciotto color lilla. Lui e il turco se ne stettero seduti in un silenzio socievole, con gli occhi socchiusi dietro gli occhiali da sole firmati, in attesa che il caffe bollisse. Il turco, che si faceva chiamare Mehmet Ozbey, era giovane, ricco, bello come una star del cinema. In jeans di pelle italiani e giacca di lana di cammello, Ozbey era l'icona dell'eleganza mascolina. | << | < | > | >> |Pagina 76Starlitz si mise un treppiede in spalla. Entrarono nella hall del Meridien passando per le porte girevoli di vetro doppio. «Dove lo vuole?» disse Viktor, trascinando con perizia il paparazzo svenuto.«Mettiamolo in ascensore.» Viktor prese una banconota da venti dollari dalle labbra molli di Wiesel e la infilò schizzinosamente nella tasca dell'impermeabile grigio. L'ascensore si aprí subito e i tre entrarono vacillando. Starlitz premette il pulsante per l'attico. L'ascensore partí. «Ha mai letto Pelevin ?» chiese Viktor in odor di conversazione, piantando Wiesel contro la parete a specchio e puntellandolo con il gomito. «Dovrei?» «Pelevin è di Mosca. Ha scritto Omon Ra e La freccia gialla.» Starlitz annuí partecipe. «L'ho menzionato» disse Viktor pensosamente «perché questo è proprio un momento da Pelevin.» Starlitz si grattò la testa mentre superavano il sesto piano. «Khoklov è qui in giro?» «Non lo so. Non credo.» «Tuo zio non avrà mica bevuto?» «Lei ha detto che potevamo bere di sera» gli fece notare Viktor. | << | < | > | >> |Pagina 88«Per un paio di giorni farai meglio a star lontano da alcol e droga» gli suggerí Starlitz. «Mantieniti normale, d'accordo? Ordina il servizio in camera e guarda TV scadente in un albergo senza pretese.»«Mi servirà?» gracchiò Viktor. «Assolutamente. Supera la tempesta, ragazzo. Lasceremo presto quest'isola. Una volta lontani, niente di tutto questo avrà importanza. Perché adesso è finito. L'abbiamo sepolto. Non è in agenda. Né in archivio. È roba di ieri.» Viktor batteva i denti. Faceva uno sforzo evidente per tenere a bada il tremore. Mentre superavano le pallide luci di Lapta, qualcosa di simile al colorito umano cominciò a ricomparire sulla carne elastica del giovane russo. «Non voglio che mio zio mi veda cosí» disse. «Mi farebbe delle domande.» «Non c'è problema. Ti registro in un albergo di Lefkosa. Devo comunque fare una commissione da quelle parti.» Viktor poggiò la testa arruffata contro id vetro del finestrino e fissò la notte. «È sempre cosí? Cosí terribile?» Starlitz si girò sul sedile e tirò indietro il gomito. «Come ti senti, ragazzo? Senti che stai per morire?» «No, io sono un Necro-Realista» disse Viktor coraggiosamente. «So che cos'è la morte. Ma sono duro a morire. La morte è per gli altri.» «Allora no, non è sempre cosí orribile.» Starlitz riprese posizione con un grugnito. «'Orribile' sarebbe troppo semplicistico. Il mondo non è né semplice, né puro. Affatto. Il mondo reale, la realtà vera... non è letteralmente quel che è. 'A non è A', giusto? Nel mondo reale ad 'A' non gliene frega neanche un cazzo di essere 'A'. Mai letto niente di Umberto Eco ?» Viktor saltò su sprezzante. «Intende quei romanzi popolari grandi e grossi? No, non la reggo quella roba.» «E Deleuze e Guattari? Derrida? Foucault? Hai mai letto Adorno?» «Adorno era un fottuto marxista» disse Viktor stancamente. «Ma ovviamente ho letto Derrida. Come si potrebbe non leggerlo? Derrida rivela che la tradizione intellettuale occidentale è crivellata di aporie logiche.» Viktor lo guardò. «E lei, lei l'ha letto Derrida, signor Starlitz? En français?» «Mmm, non è proprio che io li legga questi tipi» confessò Starlitz. «Sono cose che ho raccolto qua e là.» Viktor fece un grugnito di disappunto. «Mi capita di leggere Jean Baudrillard. Baudrillard è un vero umorista.» «A me non piace» disse Viktor sedendosi piú dritto. «Non ha mai chiarito come si possa evitare che un intervento politico venga assimilato dal sistema. La 'seduzione', le 'strategie fatali' dove ci portano?» Sospirò. «Tanto varrebbe che ci andassimo a ubriacare.» «Be',» rifletté Starlitz «vedi, il punto fondamentale è che quando la grande narrazione collassa o implode, tutto diventa irrisolvibile.» Viktor si sporse in avanti tutto preso. «Mi dica, dove si trova questa 'grande narrazione'? Ne vorrei un po'. Si compra? È lí il segreto?» Starlitz sventolò una mano grassoccia. «Ragazzo, a questo punto il millennio è quasi finito. La narrazione è sempre piú polivalente e decentrata. È diventata, come dire, rizomatica e roba del genere.» «Già. Cosí mi dicono. Bene. E allora? Io che parte ho nella messa in scena?» «Be', non so se tu abbia una parte, ma di certo non la troverai qui a Cipro. Questa è una minuscola repubblica misconosciuta e fuorilegge. Quaggiú siamo tra gli esclusi. Siamo davvero molto periferici. E in piú... è in arrivo una grossa cuspide. Una grande crisi nella narrazione. Farà tabula rasa di molte cose. Seppellirà gli zombi ambulanti.» «Intende l'Y2K» chiese Viktor, rilassandosi sul sedile. Starlitz annuí in silenzio. La notte volgeva al meglio. Il ragazzo adesso si sarebbe ripreso. Si era fatto le ossa. Adesso sapeva. | << | < | > | >> |Pagina 120Khoklov si ricompose. «Un giorno, però, ho avuto una specie di rivelazione... adesso te ne parlo, Lekhi, devo confidarmi con te. È una cosa importante. A proposito del mio ruolo nel mondo, del mio ruolo personale nella storia slava... È successo al Forum di Economia di Davos, tra quelle splendide montagne, in Svizzera... Te li mangi tutti i gamberetti?»«Prendine un po', Pulat Romanevich. Hai bisogno di proteine.» «Ero nell'entourage di Berezhovsky al tempo. Lui si stava consultando con gli altri Sette Banchieri Russi sulla campagna di rielezione di Yeltsin. Dal canto mio, io stavo facendo costruire l'aereo segreto di Milosevic in una certa base aerea in Svizzera... Siamo tutto usciti per una bevuta con George Soros e i suoi dissidenti capitalisti. Li conosci quelli del network di Soros?» «Parli» disse Starlitz «degli hippie svitati mediatici del miliardario ribelle? Certo, è difficile non notarli.» «Non sono esattamente delle spie. Un network senza obbedienza alla nazione. Una 'organizzazione non governativa'.» «Una 'organizzazione postgovemativa'.» «Sí, esatto, proprio cosí. Allora, stavo bevendo con questo agente di Soros, uno di quegli 'analisti finanziari' di cui il nostro paese è infestato. I 'ladri in lingua inglese'. Ha cominciato a fidarsi di me... È uscito fuori un documento che aveva preparato... sulla demografia russa.» «Ohi, ohi» fece Starlitz. «Sí. Mi ha spiegato. Un orrore indicibile. La crescita vertiginosa del nostro tasso di mortalità. Il crollo del tasso di natalità. L'alcolismo. L'emigrazione. La durata media della vita di un russo, 57 anni. Molto peggio che sotto gli Zar! Finalmente siamo liberi, democratici, padroni del nostro destino - e stiamo svuotando la nazione. Ci stiamo liquidando.» «Dai, sono i discorsi della NATO per far paura. Ti stava prendendo in giro, asso.» «No, non mentiva. Era completamente ubriaco e sincero, cinque minuti dopo è andato a vomitare. No, quel piccolo funzionario aveva tracciato sui suoi foglietti il mio ritratto. Io bevo troppo. Io derubo la nazione russa. Io sono la Maphiya dei banchieri, sparo agli stupidi che intralciano i grandi ladri. E poi anch'io ho abbandonato la Russia. Mi sono cancellato dalla mia madre terra. Sono qui, perso in un paese straniero, a bere birra al sole, a portare avanti qualche incarico scemo, mentre i turchi cercano di farmi fuori.» «Mmmmmm.» | << | < | > | >> |Pagina 156Poi ci arrivò: la cara, vecchia come-si-chiamava.La ragazza di Chicago. Arrivava tutte le sere per rassettare il covo di un politico dell'apparato cittadino. Puliva gli uffici. Starlitz aveva trascorso tutta una notte in bianco insieme con gli altri ladri a contare mazzette e a fumare sigari, quando la piccola come-si-chiamava aveva fatto il suo mite ingresso nella sua vita, spingendo secchio e spazzolone. La piccola che-faccia-aveva, benché alta soltanto uno e cinquanta, misurava un metro di larghezza. Tutt'altro che fragile, era resistente come un trattore. Sarebbe stata in grado di attraversare un deserto messicano con in spalla una carcassa di capra e ai piedi nient'altro che huaraches di gomma, senza emettere un lamento... Materiale di nessun interesse per buona parte dei giovani in carriera, garantito. Nessun altro nell'ufficio era stato capace di vederla. Nessuno le aveva mai rivolto la parola. Nessuno si sarebbe preso una tale briga. Lei andava al di là della loro percezione. Ma lui l'aveva vista. Quando lei si rese conto di avere i suoi occhi fissi sul proprio corpo, sollevò lo sguardo dal manico dello spazzolone e gli scoccò uno sguardo opaco da cervo accecato dai fari. Non un vero e proprio invito femminile, ma un passaggio deliberato, sfrontato nella sua trama personale. Adesso Starlitz ricordava tutto, in un'ondata interiore di nostalgia dolorosa e di sbornia da aereo quasi svanita. Strapazzò il cuscino dolorante, lottando inutilmente a caccia di comodità. Ricordava il letto dove avevano dormito, l'odore di lei, la sua biancheria intima scalcagnata, la faccia, tutto, tranne il nome. Per attaccare bottone, le aveva detto che l'avrebbe aiutata con l'inglese. Lei ne sapeva quanto bastava per pagare l'affitto e comprare alla mamma il pane e altre cosette. Ma non padroneggiava assolutamente il gergo nordamericano, né l'avrebbe mai fatto. Nella sua testa dura come il granito non c'era posto per la lingua piú grande e grossa del mondo. L'interno del suo cranio era completamente occupato dallo sforzo tremendo, sovrumano, necessario per regolare, oliare, lubrificare e mantenere il suo remoto universo interiore. La loro storia, se cosí si può dire, durò undici mesi. Agitandosi sul suo sedile ruvido da classe turistica, Starlitz si rese conto che era stato il piú lungo periodo che avesse passato con qualcuno. Dopo le inutili lezioni di inglese, gli piaceva agghindarla e portarla in città per passare la notte in discoteca, o a bere un buon whiskey scozzese o a cenare a base di bistecca in posti talmente costosi da far venire i brividi. Lo divertiva particolarmente il fatto che lei non riuscisse a leggere il menu o a parlare con i camerieri, ma che indossasse gli accessori di classe e intimidatori di una matrona wasp dell'alta borghesia che si poteva comprare un cameriere qualunque quando voleva. La portava a Chinatown e la riempiva di vino di riso e della migliore cucina piccante dello Szechuan. Provava un brivido viscerale nel vederla affondare i denti bianchi nelle pannocchiette. Dopo vent'anni, l'incongruenza vivificante di quelle azioni lo faceva ancora sorridere. Ci aveva tenuto, la loro piccola vicenda aveva significato molto per lui, era stato un tale... divertimento. Adesso che analizzava le cose con la chiarezza pasticciata della maturità, in una retrospettiva d'ambra e stagnola, capiva che la piccola come-si-chiamava poteva ben pretendere di essere l'amore della sua vita. Aveva il piú profondo e totale controllo di sé che Starlitz avesse mai visto. Riuscivano a malapena a comunicare, ma cosí era la vita. Poteva pure essere brutta come il palo di una staccionata. Segnare un punto con lei era come combattere una guerra di posizione. Non l'aveva mai vista completamente nuda. Né lo desiderava poi tanto. Non somigliava neanche un po' a una cosa del genere ragazzo e ragazza si incontrano. Erano due mondi estranei in rotta di collisione era tutto un fatto di terremoti, gravità e terribili forze primitive. Per lo piú lei lottava in silenzio in difesa della sua virtú e una volta su tre invertiva i ruoli e lottava per perderla. Il sesso non era un granché, perché anche per il ragazzo che era lui all'epoca, somigliava troppo a un lavoro. No, la ragione per cui con... ah, ecco, si chiamava Consuelo, o qualcosa di molto simile, aveva funzionato era stata la sua titanica, liberatoria riserva di realtà personale unica e dissidente. Non si poteva dire che fosse calda a letto, ma era la vita dopo il letto che lo stupiva. Usciva come una furia nella notte, congelato e quasi menomato dai bisogni maschili insoddisfatti, e Chicago quasi evaporava. Quell'enorme metropoli sgangherata nel cuore del paese si trasformava in un etereo fuoco alla Van Gogh. Sentiva che avrebbe potuto attraversare i muri d'acciaio alti fino al cielo. Era riuscito a sopravvivere per mesi con le maledette scintille che lei produceva a causa dell'esorbitante, invisibile frizione tra lei e la realtà yankee. Stare con lei era come andare sulla luna. Non metteva mai in discussione quello che lui faceva. Nulla la sconvolgeva - o meglio, tutto quello che lui faceva la sconvolgeva in egual misura, vale a dire, per niente. Man mano che i mesi passavano e che la frustrazione cresceva, Starlitz si era fatto piú crudele e folle. Tentava gambetti elaborati per espugnare lo status quo della sua fortezza. Percepiva che se fosse riuscito a trafiggere qualche orifizio segreto sotto il livello dell'acqua di Consuelo, gli elementi del suo universo in qualche modo sarebbero riusciti a filtrarle all'interno. Cosí sperimentava. Le procacciò armadi pieni di vestiti rubati nelle magioni di Oak Park. Una TV a colori estorta alla mafia. In piú, un grosso assortirmento di zirconi. Una tiara. Una volta rubò un visone per lei. Lei diede via i vestiti a una svendita di stracci. Regalò la TV alla madre. Mise i gioielli sotto chiave in una cassetta che poi perse. Si rifiutava di indossare la pelliccia persino nel cuore dell'inverno di Chicago, anche se una volta lui l'aveva colta ad accarezzarla dolcemente con un'espressione di doloroso stupore. Per quanto riguardava il resto, il vibratore, il reggiseno push up taglia 34DD, la biancheria intima commestibile, faceva tutto parte di un vasto, omogeneo, demoniaco panorama: il caos osceno e torbido al di sotto della linea tesa della decenza. Lei era assolutamente ordinaria e assolutamente remota. Conoscerla era come agitare una bottiglia di Coca per poi far saltare il tappo e ritrovarsi con un'eruzione di lava del Kilauea. Con lui non era gentile. Non ci stava a blandire il suo ego, a elemosinare favori, o a fingere una felicità da ragazzina. Si portava persino fuori la sua spazzatura. Il ruolo di Starlitz nella sua vita era puramente simbolico. Per Consuelo lui era un uomo qualsiasi e tutti gli uomini. Rappresentava il suo confronto esistenziale con il principio maschile. Non c'erano altri pretendenti dietro la porta, e dopo che lui se ne fosse andato, si sarebbe sistemata con i suoi ricordi. Forze superiori l'avevano strappato dagli altri materiali dì scena, gli avevano dato una spolverata e lo avevano inviato lí, perché il mito privato di Consuelo aveva bisogno di un incubo. | << | < | > | >> |Pagina 168Una volta che Starlitz e Zeta si furono insediati, spazzando via le ragnatele e seminando carte di caramelle, la natura del suo fascino si fece lentamente strada. Questa struttura paurosa un tempo aveva fatto parte di un grande sforzo di ricerca che aveva mandato in pezzi la realtà, il maledetto parto di metà secolo della Grande Scienza. Il posto aveva indiscutibihnente l'odore e il sapore dell'Importante Evento Tecnologico, il lieve sentore isotropico e metallico di un geiger in attività anomala, che risaliva alle procedure da laboratorio domestico della Belle Epoque di Marie Curie, quando la roba che brillava al buio era considerata un tonico per i nervi.Qualche drogato mestizo del luogo aveva prelevato la baracca dalla zona di sicurezza atomica, in un momento successivo alla portentosa Caduta di Oppenheimer, e qualche piccolo commerciante evasore fiscale aveva rimesso insieme il laboratorio militare con il martello e il fil di ferro, riedificando le sue lamine arcuate e il suo multistrato di ferro. Era nata una serie di baracche artigianali raffazzonate e legate con lo spago, simile a una serie di bolle d'aria paradigmatiche che conducevano nel mondo della povertà proletaria. Man mano che passavano i decenni nel sud ovest, il piccolo complesso aveva accumulato detriti di consumismo come una rosa del deserto nella sua fioritura di pietra; una pompa di benzina, un'insegna di legno, diversi graffiti pachuco, batterie scariche, una nuova pavimentazione di cemento, la tana di un cane, o piú probabilmente di un coyote; gomme consumate di trattore, coperte finto Paiute di nylon; pagine di calendario calpestate, illegibili, macchiate di grasso con prosperose ragazze da spiaggia, punte di frecce di finta selce da souvenir tagliate da nottolini riadattati del Giappone occupato, schizzi fossilizzati di grasso di assi, palline di legno scheggiate, cinghie delle pulegge logore con ogni atomo utile cancellato da duri anni di giri per minuto; rivetti di rame curvi e ammaccati, frammenti iridescenti e puntuti di scarti di tornio a forma di unghie tagliate, sei latte con i manici di legno di vernice da tempo indurita e gommosa, solidi scoloriti, una catasta di legno di cedro stagionato da ardere infestata dai ratti, sacchi di farina vuoti e frusti con il tessuto mezzo polverizzato, bottiglie vuote di tequila Jim Beam e Dos Chamucos, un rotolo arricciato, mangiato dalla sabbia, irrimediabilmente attorcigliato di tubo per innaffiare... Trascorsero una fredda notte sul pavimento di cemento con un piccolo falò da barboni, ballando per cercare di tenersi caldi, ma il vecchio non diede segno di sé. «Mi dispiace che non si sia fatto vedere» disse Starlitz rassegnato, nella malinconica luce rosa dell'alba. «Sarà piú dura di quanto sembrasse. Me l'ero quasi immaginato, visto che siamo agli sgoccioli del secolo, ma non pretenderei tanto impegno se non fosse stato necessario. Ci toccherà provare ancora, e stavolta dovremo veramente mettercela tutta.» «Nonno non sa che siamo qui?» «Non ha bisogno di saperlo.» Starlitz si grattò i capelli unti. «Possiamo provare con la cosa di Natale. è, una via d'accesso» le spiegò. «Tutti i Natali del ventesimo secolo sono stati uguali. Sempre piú orientati verso il consumatore man mano che la condivisione giudeo-cristiana perdeva valore, ma le festività con lui funzionano. La sorveglianza si fa piú blanda durante il Natale. Sono tutti ubriachi fradici e intenti a scannarsi con i parenti e non guardano mai con durezza gli estranei. I quotidiani sono piú scarni, le TV sono piene di vecchi comici. Ai tempi in cui incontravo spesso mio padre, si manifestava sempre a Natale... Calava in città per vedere il figlioletto durante le feste, capisci... Per lo piú in Florida.» «Sei della Florida, papà?» «Sí, no, forse. Quando avevo la tua età e mamma entrò in ospedale per non uscirne mai piú, ci fu un tipo delle parti di Tallahassee che si prese cura di me... Lo chiamavamo il Professore... la donna con cui viveva, la mia matrigna, dovrei dire, ci dava da mangiare... lo aiutavo nel suo grande progetto.» Starlitz strofinò il tallone coperto dal sandalo su una macchia d'olio. «Una specie di lavoro infantile, in quei posti sperduti, una cosa tipica delle zone rurali della Florida.» «Aveva un grande progetto? Vorrei averlo io, un grande progetto. E di che si trattava?» «Oh, la solita roba. I tipi come il Professore, vanno al di là dei limiti, ma c'è sempre sotto un'enorme truffa da ipocondriaco... I tipi come lui generalmente hanno un grande progetto, quando sono abbastanza forti... Ma se in qualche modo esce dal tuo schema, il 'grande progetto' ti sembra pura follia. Se rimani nella trama, ti si rivela come un vero piano che potrebbe cambiare il mondo... Il Professore non voleva farsi spazzar via dalla narrazione condivisa, ci restava proprio .cor abbarbicato, capisci? Accumulava prove oggettive della sua esistenza... Il Professore stava assemblando questa specie di... àncora della realtà individuale. Con parti di auto usate, e giganteschi pezzi di corallo... intendo giganteschi pezzi di pietra corallina della Florida, tronconi da cinque, sei tonnellate.. Aspettava che calasse l'oscurità, cosí nessuno l'avrebbe visto coglierli e portarli via a mani nude... passavano per una sorta di arte tradizionale, stravaganti attrazioni da bordo strada, perlomeno questo sembravano l'enorme labirinto di pietra, le quantità di borchie penzolanti e le sculture fatte con le radici di cipresso... è lí che vivevo da ragazzo.» «Be', ma perché non andiamo lí? Direi che è un posto piú piacevole di questo garage puzzolente. La Florida, cavolo - ci sono stata una volta. È calda!» «Se l'è portati via un tornado, lui, la mia matrigna, tutto il recinto. Le case mobili, il campeggio, gli opuscoli, l'espositore dei souvenir, tutto.» Starlitz si grattò la testa sporca. «Almeno lo chiamarono tornado quando passò... vedi, il poveretto era diventato troppo ovvio. Ci sarebbe stata una copertura televisiva e altre cose...» Zeta si rabbuiò. «Perché?» «Be', perché cosí va il mondo.» «E perché va cosí, papà?» «Sono leggi di natura. È la realtà. Api e uccelli.» «So tutto di quella roba, papà» disse Zeta ritraendosi. «Mi hanno fatto leggere Noi e il nostro colpo quando avevo sette anni.» «Fosse cosí facile. Quella non è la 'realtà' sai, la realtà piú profonda è fatta di linguaggi.» Zeta rimase zitta. «La gente non lo capisce. E anche se lo dice, sicuro al cento per cento che non sa che cosa significa. Significa che non esiste una cosa che corrisponda alla 'verità'. Esiste solo il linguaggio. Non esiste un 'fatto'. Non esistono la verità o la falsità, ma solo dei processi dominanti attraverso i quali la realtà viene socialmente formulata. In un mondo decifrato dal linguaggio non c'è alternativa possibile.» Zeta frugò nelle immondizie. Estrasse un chiodo arrugginito. «Questo è linguaggio?» «Sí. Quello è un 'chiodo arrugginito', in quanto l'entità concettuale chiamata 'chiodo arrugginito' è stata elaborata nelle nostre condizioni culturali e nell'attuale momento storico.» «Ma sembra vero. Mi sporca tutte le dita.» «Zeta, ascoltami. Questa parte è molto importante. 'Benché suo padre l'amasse, la bambina trovò una morte orribile mettendo il piede su un chiodo arrugginito'. Anche questo è linguaggio.» Zeta fece una smorfia di terrore. Si affrettò a gettare il chiodo nel buio. «Non esiste una realtà oggettiva. Potrebbe esistere un mondo con una realtà vera. Un mondo con una vera fisica. Come disse Newton. O Einstein. Ma dato che facciamo parte di un mondo decifrato dal linguaggio, non arriveremo mai laggiú, da qui. Non c'è modo di uscire da un mondo decifrato dal linguaggio. Non riusciremo mai a raggiungere nessun fondamento della realtà. Possiamo soltanto spostarci all'interno dei diversi gusti del discorso sociale dominante, o nella grana della narrazione condivisa, o - e questa è la parte peggiore - negli spazi vuoti di Wittgenstein dove le cose non si possono dire, pronunciare, tantomeno pensare... Non andarci mai, capito? Da lí non potresti mai uscire. È un buco nero.» «Com'è che sai tutte queste cose, papà?» «Non sapevo niente. Semplicemente, vivevo la mia vita. Mi piaceva vivere ai margini del sistema, dove le cose si rompevano e si spezzavano. Mi ci è voluto moltissimo tempo per realizzare che cosa stavo veramente facendo: mi trovavo sempre nei posti in cui le grandi storie si trasformavano in piccole, strane antistorie. Ma adesso sto aprendo gli occhi sulla mia situazione, perché ormai sono vecchio, e ne so abbastanza per cavarmela in questo mondo.» Sospirò. «No, in realtà non ne so poi cosí tanto. Sono pochissime le persone che sanno come funziona la realtà. Per lo piú non parlano inglese, ma francese. Sono tutti teorici del linguaggio. Semiologi, generalmente, e alcuni... sai, strutturalisti e poststrutturalisti... Luce Iragaray... Roland Barthes ... Julia Kristeva... Louis Althusser... sono le persone piu sagge del mondo, le sole che veramente ne sanno qualcosa.» Rise cupamente. «E questo li aiuta? Diavolo, no! I poveri bastardi strangolano le mogli, si fanno investire dai furgoni della lavanderia... E dopo l'Y2K tutta la loro linea di pensiero sarà definitivamente fuori moda. Sarà roba di ieri.» «Com'è che loro sanno tanto?» «Non lo so, com'è che sanno. Ma capisci che sanno che cosa sta succedendo, perché leggi quello che dicono e ti suona fichissimo e convincente, finché ti rendi conto che anche se sai, quel sapere non ti aiuterà a cambiare le cose. Se riesci a capire la realtà, non puoi fare niente. Se fai qualcosa, significa che non capisci la realtà. Hai mai sentito parlare di questi francesi? Scommetto che non hai idea di chi siano, giusto?» | << | < | > | >> |Pagina 182«Lascia stare questi pazzi bifolchi, papà. Siamo cosí contenti di vederti. Hai un aspetto magnifico, considerato che è il 1999 e tutto il resto.»Starlitz si alzò per accudire i suoi parrocchiani e distribuire dell'altro vino. Quando tornò trovò suo padre e sua figlia immersi nella conversazione. «Vedi, nonno, è tutto legato al 'richiamo della luna'» gli stava dicendo timidamente Zeta. «Le mie due mamme celebrano un sacco di riti di venerazione della luna nella foresta della vecchia crescita.» «Che ingenui 'Om' da devianti» buttò lí Joe pensoso. «Sai una cosa, nonno? Sono appena tornata da un posto dove ci sono i musulmani!» Joe annuí con indulgenza. «Ruba un cammello a un musulmano, somalo! Ottomano in un motto.» «Caspita, papà sta davvero bene con te, Zeta» disse Starlitz, sedendosi sul suo zaino messicano. «È giunto il momento di raccontarti la storia della vita di tuo nonno.» Starlitz esibí cerimoniosamente la sua bottiglia di tequila Gran Centenario e una pila di economici bicchieri di carta cerata. «È fondamentale che tu conosca la sua storia, chiaro? È la tua eredità, figliola. Nonno passerebbe un momentaccio se dovesse raccontarla tutto da solo.» Starlitz sollevò il sigillo di stagnola e svitò il tappo di plastica. «Te la sentiresti di aiutarmi un poco con la trama, papà?» «O no» concordò Joe affabilmente. Accettò un bicchiere colmo di tequila. «Giú nel pozzo, alligatore!» Bevve. «Be', tanto per cominciare, non importa quello che dice Joe, ma non è affatto un 'Navajo giavanese'» disse Starlitz. «Non c'è dubbio che appartenga a qualche etnia - che sia estremamente etnico - ma qualsiasi etichetta gli appiccichi addosso, Joe è sempre qualcun altro. E questa è la tua vera ascendenza, Zeta. Appartieni alla tribú di quelli che non appartengono a nessuna tribú.» Starlitz sorseggiò la tequila. Gran Centenario: Un secolo di antiquariato, un cazzo di punta di malinconia. «La tua famiglia: rompiamo lo stampo, d'accordo? Viviamo tra le crepe dello stampo rotto. Nonno Joe... be', lui ne ha fatto sempre parte non facendone 'parte' affatto. Lui è il Navajo giavanese, l'elemento a cavallo tra due cerchi diversi che non dovrebbero toccarsi mai.» «Sí! D'accordo!» disse Zeta allegra. Evidentemente la cosa per lei aveva un senso. Era come se avesse aspettato tutta la vita questa rivelazione. Tremava di piacere mentre il suo significato le fluiva dentro. «Joe ha preso parte da subito alla guerra... perché le guerre sono perfette per individui come lui. Sai, si finisce sempre in situazioni totalmente anomale che nessuno riesce a spiegare. L'anomalia non si manifesta se non parecchi anni dopo, perché a quel punto non s'è fatto che combattere per mesi di seguito, quindi non ci si è soffermati a pensare a qualcosa di specifico... Quella cosa del codice di linguaggio navajo, il codice rosso giapponese nel Pacifico, quei preistorici calcolatori analogici per decodificare, quegli strani aggeggi a carica per i codici, il matematico gay inglese con la doppia vita, tutto supersegretissimo, superimportante, nessuno ne sa niente finché non passano trenta, quaranta, cinquant'anni... Be', era una situazione perfetta per Joe. Anche se lui è quel che è... Anzi, proprio perché lui è cosí. È quello che l'ha reso cosí.» «Papà... questa storia mi piace un sacco, ma... Joe è terribilmente giovane per essere un nonno. Sembra anche piú giovane di te.» Starlitz tossí su una spina di tequila graffiagola. «Ci sto arrivando. Sollevarono il nonno dall'incarico legato al codice navajo - probabilmente perché il codice che parlava non era affatto navajo - e lo trasformarono in un fattorino o portinaio nel Progetto Manhattan. Dove costruivano la bomba atomica e si preparavano a collaudarla.» Joe prese di nuovo la parola a questo punto, con un autorevole cenno del capo come a dire io c'ero. «Oh, un tiro a parabola Arapaho.» «Sí, Joe era il portiere indiano del posto - per lo piú, però, era impegnato a rubare le forniture dell'ufficio. Gomme di scorta, benzina, scarti di metallo, tutte cose di notevole valore ai tempi, sotto il razionamento. Questi professori della bomba atomica avevano delle risorse portentose, miliardi di dollari del '40, tutto si svolgeva in gran segreto, con una fretta tremenda, cosí capitava che qualche cosetta di commerciabile scivolasse giú dal carro atomico... E puoi star certa che in situazioni del genere c'è qualcuno che si dava da fare con il mercato nero... in questo caso si trattava di Joe, ovviamente.» «Stratagemma della supermarchetta» commentò Joe. «Poi arrivò il momento di fare un vero e proprio test atomico... con l'"aggeggio", come lo chiamavano. Sul sito esterno di Trinity, qui nel Nuovo Messico... Per qualche balordo motivo di sicurezza, decisero di sganciare la bomba durante un violento temporale, alle cinque del mattino. Quindi Zeta, prova a immaginare: è buio pesto, tira un forte vento e i drittoni non riescono a vedere un accidente perché stanno tutti nascosti nei loro bunker a un chilometro di distanza... Non c'è scusa migliore per sgattaiolare fuori dalla torre dove si fabbricano pallini da caccia e sgraffignare un po' di roba papabile.» «Oh sí» disse Zeta riflettendoci. «Tonnellate di filo di rame commerciabile, lí dentro, se non addirittura il nocciolo del plutonio. Perché, sai, con tutte le spese assurde che gli era costato raffinare il plutonio, quella roba era il piú costoso scarto di metallo del pianeta. Cosí Joe si trovava proprio sotto la Bomba, o forse - e so che può suonare strano, ma le registrazioni del test tendono ad avvalorare questa possibilità - forse ci era strisciato proprio dentro, subito prima che la fissassero con le ultime placche. E poi esplose. La piú grande e potente emissione di energia mai creata dal genere umano.» Starlitz sospirò. «L'ha letteralmente spazzato fuori dalla storia.» «Com'è stato possibile?» chiese Zeta incuriosita. «Be', vedi, era un momento cruciale nella narrazione del ventesimo secolo. Il momento tematico del nucleo del ventesimo secolo. La Bomba era una scena assurda, stravagante, tanto sconvolgente da far saltare l'intreccio, che spuntava dal nulla, del tutto inattesa, con un valore di dieci decimi sulla scala mondiale del dissesto. La storia non è piú stata la stessa dopo la Bomba - perché si è trovata costretta a vivere all'ombra della nuvola a forma di fungo luminoso che dice, 'La storia è provvisoria'. Causa ed effetto non ebbero piú presa su Joe - e da allora tuo nonno è stato, diciamo, spalmato su tutto il ventesimo secolo, come una nebbia di elettroni. Nella narrazione del ventesimo secolo è sparso un po' ovunque contemporaneamente - ma riesce, be', a regolarsi solo quando viene osservato. Quando qualcuno lo guarda. Quando qualcuno lo cerca.» «Come in questo momento?» «Proprio come in questo preciso momento.» «Cavolo. Allora questa è una specie di occasione superspeciale.» «Esatto, Zeta. Quindi guarda tutto attentamente e cerca di memorizzare, d'accordo? Perché è anche l'ultima occasione.» «Come? Perché?» «È bello che tu l'abbia visto adesso e in passato, perché in futuro non lo vedrai piú.» «Perché no? Che succede l'anno prossimo?» Joe scosse tristemente la testa. «Nessun maledetto radon.» «Nonno ha ragione,» disse Starlitz a fatica «dopo l'Y2K non c'è piú modo.» Zeta era scioccata. «Ma perché no?» «È per la Bomba» disse Starlitz. «Per la narrazione della Bomba. Non esiste un'"Era atomica" nel prossimo secolo. L'era atomica è finita, è roba di ieri. Dopo l'Y2K il significato della Bomba cambia. Voglio dire, se mai li vedi sganciare una Bomba... la bomba era il santo Graal del ventesimo secolo, ma poteva esserlo soltanto per otto minuti. Per otto incredibili minuti, ti costringe a vagare nell'onda d'urto con gli occhiali da sole, snocciolando tutta la pesante, supermitologica merda narrativa del tipo 'Splendo piú di mille soli, mi sono trasformato nella Morte, distruttrice di mondi'... Ma quando gli otto minuti finiscono non ti rimane che inunondizia. Vera e propria immondizia, chiaro?» Starlitz guardò la figlia negli occhi candidi: si stava sforzando al massimo per mettersi al suo livello; era il momento giusto per farlo. «Torniamo alla storia del test di Trinity. Be', per prima cosa c'è questo lampo silenzioso che illumina le montagne. Poi una gigantesca onda d'urto. Poi un enorme uovo in ebollizione, una fenice che sale in cielo e poi il vento del deserto lentamente dirada il fungo... Ma dopo... quando il calore diminuisce... eccoti quattro federali in cappello, bretelle e uniforme, in piedi intorno ai pezzi fusi e distorti delle aste di rinforzo. Tutta qui. La trama atomica. L'energia atomica è una fichissima conquista cosmica per forse otto minuti. E poi... scoria radioattiva. Immondizia, praticamente per sempre. Immondizia adesso e di qui a cent'anni, a diecimila anni. Il prossimo secolo vivrà sulla scia dell'era atomica. Cosí quando guarderà un'esplosione, non vedrà mai il fascino originario, ma la prima cosa che avrà sempre davanti sarà l'immondizia.» «Ma dai! E che ne sarà di nonno? Non è giusto!»
«Dopo l'Y2K, non sarà piú il suo genere di storia.»
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