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| << | < | > | >> |IndiceIX Prefazione XXXII Ringraziamenti Il prezzo della disuguaglianza 3 I. Il problema dell'1 per cento in America 6 1. La marea che non ha sollevato tutte le barche 13 2. La Grande recessione rende ancora più dura la vita per chi ha vita dura 24 3. Le opportunità 28 4. Uno sguardo piú ravvicinato in cima alla scala: afferrare un fetta piú grande della torta 29 5. Confronti internazionali 32 6. Commenti conclusivi 53 II. Ricerca della rendita e creazione di una società disuguale 59 1. Principi generali 66 2. La ricerca della rendita 91 III. I mercati e la disuguaglianza 92 1. Le leggi della domanda e dell'offerta 100 2. La globalizzazione 107 3. Al di là delle forze del mercato: i cambiamenti all'interno della nostra società 115 4. Il ruolo del governo nella redistribuzione 123 5. Il quadro generale 143 IV. Perché è importante 145 1. L'instabilità e il volume della produzione 154 2. Un elevato livello di disuguaglianza porta a un'economia meno efficiente e meno produttiva 172 3. Il presunto trade-off tra disuguaglianza ed efficienza 185 4. Commenti conclusivi 197 V. Una democrazia in pericolo 199 1. Mettere a repentaglio il procedere politico democratico 222 2. Globalizzazione, disuguaglianza e democrazia 231 3. Commenti conclusivi 240 VI. Il 1984 è fra noi 243 1. Qualche nozione fondamentale della psicologia e della teoria economica moderne 261 2. Le armi della guerra 266 3. La battaglia sulle politiche come battaglia sulle percezioni 273 4. La battaglia sulle grandi idee: fallimenti del governo contro fallimenti del mercato 281 5. Successi nella battaglia di idee 290 6. Commenti conclusivi 303 VII. Giustizia per tutti? Come la disuguaglianza sta erodendo lo stato di diritto 304 1. Perché abbiamo bisogno del governo della legge 308 2. Il prestito predatorio 310 3. Le leggi sulla bancarotta 315 4. La crisi dei mutui e l'amministrazione dello stato di diritto 322 5. De facto versus de iure 326 6. Commenti conclusivi 335 VIII. La battaglia del budget 336 1. Storia dei deficit 340 2. Tre piccioni con una fava 347 3. La quadratura del cerchio: stimolare l'economia in tempi di deficit di bilancio e domanda inadeguata 353 4. L'agenda del deficit smascherata: mantenere ed estendere le disuguaglianze 357 5. Miti 364 6. L'austerità 371 7. Commenti conclusivi 381 IX. Una politica macroeconomica e una banca centrale da e per l'1 per cento 384 1. Come la macroeconomia moderna e le politiche monetarie hanno colpito il 99 per cento 394 2. Verso una banca centrale più democratica 404 3. La politica monetaria e la battaglia di idee 413 4. Commenti conclusivi 424 X. La strada da percorrere: un altro mondo è possibile 427 1. L'agenda della riforma economica 428 2. Ridurre gli eccessi in cima 435 3. Aiutare il resto delle persone 447 4. Le questioni immediate 449 5. L'agenda della riforma politica 451 6. C'è speranza? 459 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina IXPrefazioneVi sono momenti, nella storia, in cui sembra che tutti i cittadini del mondo insorgano per dire che c'è qualcosa di sbagliato, per chiedere un cambiamento. È accaduto con i tumulti del 1848 e del 1968, quando la sollevazione segnò l'inizio di una nuova èra. E il 2011 potrebbe rivelarsi un altro di tali momenti. Una rivolta giovanile iniziata in Tunisia, un piccolo paese sulla costa del Nord Africa, si è estesa al vicino Egitto e poi ad altri paesi del Medio Oriente. In alcuni casi è sembrato che la scintilla della protesta, almeno temporaneamente, si estinguesse. In altri, piccoli focolai hanno fatto precipitare veri e propri cataclismi all'interno delle rispettive società, abbattendo dittatori di lunga data come Hosnī Mubārak in Egitto e Mu'ammar Gheddafi in Libia. Nel giro di breve tempo i popoli di Spagna e Grecia, Regno Unito e Stati Uniti, come quelli di altri paesi del mondo, hanno avuto anch'essi i loro motivi per scendere nelle strade. Nel 2011 ho accettato con piacere inviti in Egitto, Spagna e Tunisia e ho incontrato manifestanti nel Parque del Buen Retiro di Madrid, nel Zuccotti Park di New York e nella città del Cairo, dove ho parlato con i giovani, uomini e donne, che erano stati in piazza Tahrir. Discutendo con loro, mi rendevo conto che alcune rimostranze specifiche variavano da paese a paese, e in particolare che le rimostranze politiche in Medio Oriente erano assai diverse da quelle dell'Occidente, ma che alcuni temi erano comuni. Condivisa era l'idea che per molti versi il sistema economico e politico avesse fallito e fosse fondamentalmente iniquo. I manifestanti avevano ragione nel sostenere che c'era qualcosa di sbagliato. Il divario tra ciò che i nostri sistemi economici e politici dovrebbero fare - e che ci avevano fatto credere facessero - e ciò che effettivamente fanno è diventato troppo ampio per poterlo ignorare. I governi del mondo non stavano affrontando problemi economici cruciali come la persistente disoccupazione e, mentre i valori universali dell'equità venivano sacrificati all'avidità di pochi, nonostante la retorica del contrario, il senso di ingiustizia si è trasformato nella sensazione di essere stati traditi. Che i giovani di Tunisia ed Egitto si fossero ribellati alla dittatura era comprensibile. Erano stanchi di leader invecchiati e sclerotici che proteggevano i propri interessi a spese del resto della società. E non avevano alcuna possibilità di invocare un cambiamento attraverso processi democratici. Ma anche la politica delle democrazie elettorali occidentali aveva fallito. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva promesso «un cambiamento in cui poter credere», ma poi ha approvato politiche economiche che a molti americani sono sembrate piú o meno le stesse di prima. Ciò nonostante, negli Stati Uniti e altrove, vi erano segni di speranza in questi giovani manifestanti a cui si univano i genitori, i nonni, gli insegnanti. Non si trattava di rivoluzionari né di anarchici. Non stavano cercando di rovesciare il sistema. Erano ancora convinti che il processo elettorale avrebbe potuto funzionare, se soltanto i governi si fossero ricordati di dover rendere conto al popolo. I dimostranti scendevano nelle strade per spingere il sistema verso un cambiamento. Il nome scelto dai giovani spagnoli per il movimento nato il 15 maggio fu los indignados, gli indignati. Quei giovani erano insieme offesi e furibondi per le tante sofferenze provocate in cosí tanta gente dalle malefatte di quanti lavoravano nel settore finanziario, esemplificate da un tasso di disoccupazione giovanile che aveva superato il 40 per cento dall'inizio della crisi, nel 2008. Negli Stati Uniti, il movimento Occupy Wall Street ripeteva lo stesso ritornello. L'iniquità di una situazione in cui cosí tante persone stavano perdendo la casa e il lavoro, mentre i banchieri si godevano lauti bonus, era stridente. Negli Stati Uniti, tuttavia, le proteste spinsero ben presto lo sguardo oltre Wall Street, fino a concentrarsi sulle piú marcate iniquità della società americana. Il loro slogan divenne «il 99 per cento». I manifestanti che lo scelsero riprendevano il titolo di un articolo che avevo scritto per la rivista «Vanity Fair», Dell'1 per cento, per l'1 per cento, dall'1 per cento, e che descriveva l'enorme crescita della disuguaglianza negli Stati Uniti e un sistema politico che sembrava dar voce in misura sproporzionata a quanti si trovavano in cima alla scala sociale. Tre temi rimbalzavano in giro per il mondo: che i mercati non funzionavano come avrebbero dovuto, perché non erano evidentemente efficienti né stabili; che il sistema politico non aveva corretto i fallimenti del mercato; e che il sistema economico e quello politico erano fondamentalmente iniqui. Concentrandosi sull'eccessiva disuguaglianza che oggi segna gli Stati Uniti e alcuni altri paesi industrialmente avanzati, questo libro spiega come i tre temi siano intimamente legati fra loro: la disuguaglianza è causa, nonché conseguenza, del fallimento del sistema politico e contribuisce all'instabilità del nostro sistema economico, il quale a sua volta contribuisce ad aumentare la disuguaglianza, in un circolo vizioso che è come una spirale discendente in cui siamo caduti e da cui potremo riemergere soltanto attraverso le politiche concertate che mi accingo a descrivere.
Prima di focalizzare l'attenzione sulla disuguaglianza,
vorrei dunque dipingere un quadro del contesto descrivendo i piú evidenti
fallimenti del nostro sistema economico.
Il fallimento dei mercati. È evidente che i mercati non hanno funzionato nel modo previsto dai loro fautori. I mercati dovrebbero essere stabili, ma la crisi finanziaria globale ha mostrato che possono essere molto instabili e scatenare conseguenze drammatiche. I banchieri, infatti, avevano azzardato scommesse da cui, se non fosse stato per l'assistenza del governo, sarebbero stati travolti insieme all'intera economia. Ma uno sguardo più ravvicinato al sistema ha rivelato che non si trattò di un incidente: i banchieri erano incentivati a comportarsi in quel modo. La virtú del mercato dovrebbe essere l'efficienza. Ma chiaramente il mercato non è efficiente. La prima legge della teoria economica - necessaria perché l'economia sia efficiente - è che la domanda sia pari all'offerta. Ma viviamo in un mondo in cui enormi bisogni rimangono insoddisfatti: mancano investimenti che facciano uscire i poveri dalla povertà, che promuovano lo sviluppo nei paesi meno sviluppati dell'Africa e degli altri continenti del mondo, che adeguino l'economia globale alle sfide poste dal riscaldamento della Terra. Contemporaneamente abbiamo ampie risorse inutilizzate, come lavoratori e macchinari improduttivi o impiegati al di sotto delle loro capacità. E la disoccupazione - l'incapacità del mercato di generare posti di lavoro per tanti cittadini - è il fallimento peggiore, la fonte di inefficienza piú grave, oltre che una delle cause principali della disuguaglianza. Nel marzo 2012, circa 24 milioni di americani che avrebbero voluto un lavoro full-time non riuscivano a trovarlo. Negli Stati Uniti, stiamo privando milioni di persone della loro casa. Abbiamo abitazioni vuote e gente che vive per la strada.
Ma anche prima della crisi, l'economia americana non stava
facendo quello che era stato promesso: nonostante la crescita
del Pil,
la maggior parte dei cittadini assisteva all'erosione del proprio tenore di
vita.
Come mostra il primo capitolo, per la
maggior parte delle famiglie americane, anche prima dell'inizio della recessione
i redditi aggiustati all'inflazione erano piú bassi di quelli di un decennio
prima. L'America aveva creato una macchina economica meravigliosa, ma che
palesemente aveva lavorato soltanto per chi stava molto in alto.
La posta in gioco è elevata. Questo libro tratta delle ragioni per cui il nostro sistema economico sta fallendo il suo compito rispetto alla maggioranza degli americani e tenta di capire il motivo per cui la disuguaglianza stia crescendo ai livelli a cui è arrivata e quali ne siano le conseguenze. La tesi di fondo è che stiamo pagando assai cara la nostra disuguaglianza e che il prezzo è un sistema economico meno stabile e meno efficiente, con meno crescita, nonché una democrazia che è stata messa in pericolo. Ma la posta in gioco è anche piú alta: dal momento che il nostro sistema economico sembra aver fallito rispetto al benessere di moltissimi cittadini, e dal momento che il nostro sistema politico sembra ormai preda degli interessi del denaro, la fiducia nella nostra democrazia e nella nostra economia di mercato ne usciranno sminuite insieme alla nostra influenza a livello globale. Nella misura in cui non siamo piú percepiti come un paese di opportunità e il nostro tanto decantato stato di diritto, insieme a un sistema giudiziario di cui siamo sempre andati fieri, appaiono compromessi, anche il nostro senso di identità nazionale potrebbe uscirne minacciato. In alcuni paesi, il movimento Occupy Wall Street è diventato stretto alleato del movimento contro la globalizzazione. In effetti i due hanno qualcosa in comune: la convinzione non soltanto che ci sia qualcosa di sbagliato, ma anche che un cambiamento sia possibile. Il problema tuttavia non è se la globalizzazione sia buona o cattiva, ma che i governi la stanno gestendo molto male, per lo piú a beneficio di interessi particolari. L'interconnessione tra i popoli, i paesi e le economie del pianeta è uno sviluppo che può essere usato in modo efficace tanto per promuovere la prosperità quanto per diffondere avidità e sofferenza. Lo stesso vale per l'economia di mercato: il potere dei mercati è enorme, ma essi non hanno alcuna caratteristica morale intrinseca. Dobbiamo decidere noi come gestirli. Nei loro momenti migliori, i mercati hanno avuto un ruolo cruciale, per gli straordinari aumenti di produttività e la crescita del tenore di vita degli ultimi due secoli, incrementi di gran lunga superiori a quelli dei precedenti duemila anni. Ma anche i governi hanno avuto un ruolo importante in questi avanzamenti, un fatto che i sostenitori del libero mercato solitamente mancano di riconoscere. D'altra parte, i mercati possono lavorare altrettanto bene a favore della concentrazione di ricchezza, possono trasferire i costi ambientali sulla società e abusare di lavoratori e consumatori. Per tutte queste ragioni è chiaro che i mercati vanno domati e temperati, se si vuole essere sicuri che lavorino a beneficio della maggioranza dei cittadini. E occorre ripetere tali interventi piú volte, per garantire la continuità dei risultati. L'abbiamo fatto negli Stati Uniti durante l'«èra progressista», quando furono promulgate per la prima volta le leggi sulla concorrenza. L'abbiamo fatto anche con il New Deal, quando vennero varate le leggi sul sistema pensionistico previdenziale (Social Security), l'occupazione e il minimo salariale. Il messaggio di Occupy Wall Street, e di tanti altri dimostranti nel mondo, è che i mercati devono essere domati e temperati ancora una volta. Le conseguenze, altrimenti, saranno serie: in una democrazia che voglia essere tale, dove le voci dei comuni cittadini vengono ascoltate, non possiamo mantenere un sistema di mercato aperto e globalizzato, per lo meno non nella forma che conosciamo, se anno per anno quegli stessi cittadini si impoveriscono. Una delle due, la politica o l'economia, dovrà dare qualcosa. | << | < | > | >> |Pagina XVIIDalla coesione sociale alla lotta di classe.Lo slogan «siamo il 99 per cento» potrebbe aver segnato un importante punto di svolta nel dibattito sulla disuguaglianza negli Stati Uniti. Gli americani si sono sempre tenuti lontani dalle analisi di classe: l'America, amiamo credere, è un paese della classe media e questa convinzione ci aiuta a stare uniti. Non dovrebbero esistere divisioni tra la classe superiore e quella inferiore, tra la borghesia e il proletariato. Tuttavia, se per società basata sulle classi intendiamo una società in cui le prospettive di salire per coloro che stanno in basso sono scarse, l'America potrebbe essere diventata anche piú classista della vecchia Europa e le nostre divisioni essere ormai piú marcate di quelle oltreoceano. I rappresentanti del 99 per cento stanno portando avanti la tradizione del «siamo la classe media» con una leggera modifica: riconoscono che di fatto non stiamo andando avanti tutti insieme. La stragrande maggioranza sta soffrendo insieme, mentre i pochi in cima alla scala sociale - l'1 per cento - stanno vivendo una vita diversa. Il «99 per cento» rappresenta il tentativo di forgiare una nuova coalizione, un nuovo senso di identità nazionale basato non sull'illusione di una classe media universale, ma sulla realtà degli spartiacque economici all'interno della nostra economia e della nostra società. Per anni è esistito un patto tra chi stava in alto e il resto della società e il patto era piú o meno questo: noi vi daremo lavoro e prosperità, mentre voi ci lascerete liberi di portarci a casa i nostri bonus. In altre parole: voi avrete la vostra parte, anche se noi ne avremo una piú grande. Oggi quel tacito accordo tra i ricchi e il resto degli americani, che era comunque fragile, è andato in pezzi. Chi appartiene all'1 per cento se ne sta andando con i soldi, ma nel frattempo non ha procurato se non angoscia e insicurezza al restante 99 per cento. La maggioranza degli americani semplicemente non ha tratto alcun vantaggio dalla crescita del paese. | << | < | > | >> |Pagina XXIVCommenti conclusivi.Nelle settimane successive all'esplosione dei movimenti di protesta in Tunisia e in Egitto, scrissi (in una prima versione del mio articolo per «Vanity Fair»): Osservando il fervore popolare per le strade, una delle domande da porre a noi stessi è: quando arriverà in America? Per importanti aspetti, il nostro stesso paese è diventato come uno di questi luoghi lontani e travagliati. In particolare, è evidente anche da noi la stretta esercitata su quasi ogni cosa da quella sottile scheggia di gente ai vertici della società — l'1 per cento piú ricco della popolazione. Pochi mesi ancora e quelle proteste avrebbero raggiunto i nostri lidi. Questo libro cerca di indagare a fondo un aspetto di ciò che è accaduto negli Stati Uniti, ossia di comprendere come siamo diventati una società cosí disuguale, con tante opportunità in meno, e di immaginare quali potrebbero esserne le conseguenze. Il quadro che delineo oggi è sconfortante: stiamo soltanto iniziando a vedere quanto il nostro paese si sia allontanato dalle nostre aspirazioni. Ma vi è anche un messaggio di speranza. Esistono modelli alternativi che possono funzionare meglio per l'economia nel suo insieme e, cosa piú importante, per la maggioranza dei cittadini. In parte essi prevedono un miglior equilibrio tra mercati e governo, una prospettiva sostenuta, come spiegherò, sia dalla teoria economica moderna sia dall'evidenza storica. Secondo questi modelli alternativi, uno dei ruoli che il governo deve assumersi è infatti la redistribuzione del reddito, specialmente se i risultati dei processi di mercato sono troppo disparati. I critici della redistribuzione suggeriscono a volte che i suoi costi siano troppo alti. I disincentivi, sostengono, sono troppo grandi e i benefici per i poveri e quanti si trovano a metà della scala sociale sono superati dalle perdite di chi sta in alto. Si dice spesso da destra che potremmo avere sí una maggiore uguaglianza, ma soltanto al salato prezzo di una crescita piú lenta e di un Pil inferiore. La realtà (come mostrerò) è esattamente l'opposto: abbiamo un sistema che ha funzionato nel tempo per spostare denaro dal basso e dal mezzo verso l'alto, ma il sistema è cosí inefficiente che i benefici per chi sta in alto sono molto inferiori alle perdite di chi sta in mezzo e in basso. Di fatto, stiamo pagando cara la nostra crescente e smisurata disuguaglianza: non soltanto con una crescita piú lenta e un Pil inferiore, ma anche con una maggiore instabilità. Per non dire degli altri costi della disuguaglianza: una democrazia indebolita, un ridotto senso di equità e giustizia oltre che, come ho suggerito, una messa in crisi del nostro senso di identità. | << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo primo
Il problema dell'1 per cento in America
La crisi del 2007-8 e la Grande recessione che ne è seguita hanno gettato un gran numero di americani tra i relitti alla deriva di una forma di capitalismo sempre piú disfunzionale. A distanza di mezzo decennio, un americano su sei in cerca di un impiego full-time non riusciva a trovarlo, a circa 8 milioni di famiglie era stato ingiunto di lasciare la propria abitazione e molte di piú si aspettavano di ricevere una notifica di pignoramento in un futuro non troppo lontano; ancora piú persone avevano visto praticamente evaporare i risparmi di una vita. Anche se alcuni dei segnali di ripresa che gli ottimisti continuavano a vedere fossero stati effettivamente presagi di una ripresa reale, ci sarebbero voluti anni — fino al 2018 come minimo — prima che l'economia ritornasse al pieno impiego. Nel 2012, tuttavia, molti avevano già smesso di sperare. I risparmi di chi aveva perso il lavoro nel 2008 o nel 2009 erano stati spesi. Gli assegni di disoccupazione erano finiti. Le persone di mezza età, un tempo fiduciose in un rapido rientro nella forza lavoro, avevano finito per realizzare di essere in pensione forzata. I giovani, freschi di università e con decine di migliaia di dollari di debiti contratti per studiare, non riuscivano a trovare alcun tipo di posto. Chi era andato a vivere con amici o parenti all'inizio della crisi aveva perso la casa. Le abitazioni acquistate durante l'espansione immobiliare rimanevano sul mercato o erano vendute in perdita, mentre un numero ancora superiore restava vuoto: i tetri puntelli dell'espansione finanziaria del decennio precedente giacevano, ormai, esposti alla vista. Uno dei lati piú oscuri dell'economia di mercato venuti alla luce è stata l'ampia e crescente disuguaglianza che ha sfilacciato fino all'orlo il tessuto sociale dell'America e la sostenibilità economica del paese: i ricchi stavano diventando piú ricchi, mentre gli altri affrontavano difficoltà che apparivano in contrasto con il sogno americano. Il fatto che ci fossero ricchi e poveri in America era ben noto, e questa disuguaglianza non era dovuta soltanto alla crisi dei subprimes e alla successiva flessione; si era creata nel corso dei precedenti trent'anni. Tuttavia, la crisi aveva fatto peggiorare le cose fino a un punto che non la si poteva piú ignorare. La classe media ne stava rimanendo pesantemente schiacciata, come vedremo piú avanti in questo capitolo. E al di sotto della classe media la sofferenza era palpabile, a mano a mano che venivano alla luce le debolezze della rete di protezione sociale americana e che i programmi di sostegno pubblico, nel migliore dei casi inadeguati, erano sottoposti a ulteriori tagli. In tutto questo, gli appartenenti al primo 1 per cento della popolazione riuscivano a tenersi stretta un'immensa fetta del reddito nazionale - un quinto - nonostante i colpi subiti dai loro investimenti. La disuguaglianza era in crescita ovunque si analizzasse la curva di distribuzione: anche all'interno del primo 1 per cento, il primo 0,1 per cento dei percipienti reddito stava ricevendo una fetta superiore del denaro circolante nel paese, e si tenga presente che nel 2007, l'anno prima della crisi, il primo 0,1 per cento delle famiglie americane aveva già un reddito pari a 220 volte la media dell'ultimo 90 per cento. La ricchezza era distribuita in modo ancora piú disuguale del reddito, con l'1 per cento più facoltoso che possedeva piú di un terzo della ricchezza nazionale. I dati sulla disuguaglianza dei redditi sono soltanto l'istantanea di un'economia in un preciso momento ed è proprio per questo che i dati sulla disuguaglianza patrimoniale sono cosí preoccupanti: la disuguaglianza relativa alla ricchezza va oltre le variazioni osservabili nei redditi anno per anno. La situazione patrimoniale, inoltre, offre un quadro migliore del diverso accesso alle risorse. L'America è cresciuta divisa, e a un tasso sempre piú rapido. Nella prima post-recessione del nuovo millennio (dal 2002 al 2007), il primo 1 per cento ha realizzato piú del 65 per cento dei guadagni del reddito totale nazionale. Ma, mentre per il primo 1 per cento le cose stavano andando a gonfie vele, la maggioranza degli americani scivolava effettivamente in condizioni sempre peggiori. Se i ricchi fossero diventati piú ricchi e anche quelli a metà o in fondo alla scala sociale avessero migliorato le loro condizioni, sarebbe stato diverso, soprattutto se gli sforzi di quanti si trovavano in alto fossero stati cruciali per il successo degli altri. Avremmo potuto celebrare i risultati dei primi ed essere grati dei loro contributi. Ma non è andata cosí. I membri della classe media americana si sono resi conto di essere in sofferenza da tempo, e con ragione: per trent'anni, i loro redditi si erano dimostrati appena sufficienti. Di fatto, il reddito di un tipico lavoratore full-time di sesso maschile è rimasto stagnante per ben piú di trent'anni. La crisi ha peggiorato queste disuguaglianze in innumerevoli modi, al di là dell'aumento della disoccupazione, delle case perse e dei salari stagnanti. I ricchi avevano píú da perdere nel crollo dei valori del mercato azionario, ma si sono ripresi ragionevolmente bene e relativamente in fretta. Anzi, i benefici della «ripresa» si sono quasi tutti accumulati nelle loro mani: il primo 1 per cento degli americani ha incassato il 93 per cento dei proventi straordinari generati nel paese nel 2010 rispetto al 2009. Invece, per gli strati poveri e medi della popolazione, la ricchezza stava in gran parte nella proprietà immobiliare. E quando i prezzi medi delle case crollarono di piú di un terzo, tra il secondo trimestre del 2006 e la fine del 2011, un'ampia fascia di americani - quelli con i mutui ipotecari piú alti - vide fondamentalmente spazzato via il suo patrimonio. In cima alla scala sociale, i dirigenti delle grandi aziende riuscirono incredibilmente a conservare i loro elevati salari, tanto che nel 2010, dopo un leggero calo nel 2008, il rapporto tra il compenso annuale di un Ceo e quello di un lavoratore tipico era tornato al livello pre-crisi di 243 a uno. Vari paesi nel mondo offrono esempi spaventosi di ciò che accade a una società quando raggiunge il livello di disuguaglianza verso il quale ci stiamo dirigendo. Non si tratta di una bella immagine: sono paesi in cui i ricchi vivono in comunità recintate, assediate da masse di lavoratori a basso reddito; sono sistemi politici instabili, dove il populismo promette alla gente una vita migliore soltanto per disilluderla. La cosa piú grave, forse, è proprio la mancanza di speranza. In questi paesi i poveri sanno che le loro prospettive di uscire dalla povertà, per non parlare di arrivare in alto, sono scarsissime. Non è qualcosa a cui dovremmo aspirare. In questo capitolo intendo descrivere la portata della disuguaglianza negli Stati Uniti, mostrando come incida sulle vite di milioni di persone in modi diversi. Non spiego soltanto come stiamo diventando una società piú divisa, ma anche come non siamo piú la terra di opportunità che un tempo eravamo. E rilevo le scarse possibilità che una persona nata in fondo alla scala sociale ha di salire in alto o anche di arrivare a metà della strada. Il livello di disuguaglianza e l'assenza di opportunità che osserviamo negli Stati Uniti non sono cose che non si possano evitare, né il loro recente incremento è semplicemente il prodotto di forze di mercato inesorabili. I capitoli successivi metteranno in luce le cause di questa disuguaglianza, nonché i costi che il livello da essa raggiunto e la sua crescita continua rappresentano per la nostra società, la nostra democrazia e la nostra economia, e infine che cosa si può fare per ridurla. | << | < | > | >> |Pagina 2663. La battaglia sulle politiche come battaglia sulle percezioni.
È impressionante la misura in cui la battaglia che si combatte sulle
politiche sia una battaglia sulle percezioni. Nei
paragrafi che seguono esaminiamo tre grandi battaglie che
sono state combattute negli ultimi anni, riguardo all'abrogazione delle imposte
di successione, al salvataggio delle banche e alla ristrutturazione dei mutui
ipotecari. Le ultime due
furono naturalmente in prima linea e al centro delle discussioni sulla risposta
da dare alla crisi finanziaria del 2007-8.
Ma tutte e tre sono importanti per capire come l'America sia
arrivata a essere cosí disuguale. Senza un'imposta sulle successioni, creiamo
una nuova plutocrazia, segnata da dinastie
che si autoperpetuano nel tempo. Il salvataggio delle banche
ha portato soldi al settore finanziario, che è una delle prime
fonti di denaro per chi sta in alto. E non essere riusciti a fare abbastanza per
la ristrutturazione dei mutui ipotecari ha contribuito ad aggravare le tensioni
economiche in fondo e a metà della scala sociale.
Le imposte di successione.
Come abbiamo visto, la destra è riuscita a convincere
molti americani a sostenere politiche che
non
sono nel loro interesse. Le imposte di successione, che colpiscono quanti
ereditano grandi patrimoni, rappresentano un caso emblematico. Chi si oppone a
questa imposta la chiama
death duty
e sostiene che sia ingiusto «tassare la morte». Secondo la legge
vigente, tuttavia, la tassa viene riscossa soltanto sulle eredità che superano i
cinque milioni di dollari (di solito dieci per
una coppia sposata), dunque è improbabile che la maggior
parte degli americani ne verrebbe mai toccata, anche volendo credere alla
visione superottimistica della mobilità sociale
in questo paese. Mentre, visto il livello di concentrazione
della ricchezza nella nostra società, l'imposta può raccogliere ampie somme di
denaro. Una società «equa», inoltre, dovrebbe livellare per tutti il campo di
gioco iniziale. Certo,
sappiamo che questo è impossibile, ma l'imposta è pensata
proprio per limitare l'entità della disuguaglianza «ereditata»,
per creare un campo di gioco un po' piú livellato. Dovrebbe
essere dunque evidente che questa tassazione è negli interessi della maggior
parte degli americani, tuttavia la destra
ha convinto un gran numero di persone a opporvisi contro
i loro stessi interessi. Tanto che, per un breve momento nel
2010, l'imposta fu totalmente abrogata nell'ambito dei tagli
fiscali approvati nel 2001 dall'amministrazione di George
W. Bush. La destra dice sempre che l'imposta danneggia le
piccole imprese, ma la grande maggioranza delle piccole imprese è troppo piccola
per esserne toccata ed esistono disposizioni all'interno della legge che
permettono di spalmare il pagamento su quattordici anni, proprio per limitarne
gli effetti di disturbo.
La ricapitalizzazione delle banche. Con il progressivo evolversi della crisi finanziaria, abbiamo assistito alla gestione delle nostre percezioni da parte delle banche. Ci è stato detto, infatti, che dovevamo salvarle per salvare l'economia, per proteggere i nostri posti di lavoro a prescindere da quanto ripugnanti apparissero a quel punto i salvataggi; che, se avessimo posto delle condizioni alle banche, i mercati si sarebbero intorbiditi e tutti ne avremmo subito conseguenze negative; che dovevamo salvare non soltanto le banche ma anche i banchieri, gli azionisti delle banche e gli obbligazionisti delle banche. Naturalmente c'erano stati paesi, come la Svezia, che si erano comportati diversamente, che avevano giocato secondo le regole del «capitalismo» sottoponendo ad amministrazione controllata le banche il cui capitale si era rivelato inadeguato, un processo (per le banche) simile alla bancarotta e finalizzato a proteggere i depositi e conservare gli asset. Ma quelli erano paesi «socialisti». Fare come la Svezia non sarebbe stato conforme all' American way. Obama non si limitò ad accettare questa linea: a furia di ripeterla, la circonfuse di un'aura di credibilità. Tuttavia era una linea che non poggiava sui fatti e mirava piuttosto a rendere accettabile il trasferimento di ricchezza piú massiccio del mondo: mai, nella storia del pianeta, cosí tante persone avevano dato cosí tanto denaro a cosí pochi individui, e tanto ricchi, senza chiedere nulla in cambio. La questione avrebbe potuto essere inquadrata in modo molto diverso. Si sarebbe potuto dire che il vero American way è il governo della legge. E la legge era chiara: se una banca non può pagare i suoi debiti e assolvere alle richieste dei depositanti, viene ristrutturata, gli azionisti perdono tutto e gli obbligazionisti diventano i nuovi azionisti. Se ancora il denaro non basta, interviene il governo. Gli obbligazionisti e i creditori non assicurati a quel punto perdono tutto, ma i depositi assicurati recuperano quel che era stato loro promesso. La banca viene salvata, ma il governo, in quanto nuovo proprietario, potrebbe poi decidere di farle ammainare le vele, riprivatizzarla o fonderla con una banca piú sana; il suo obiettivo, in parte, sarebbe recuperare piú denaro possibile per i contribuenti. Naturalmente non aspettiamo che la banca non abbia piú un soldo per intervenire in modo cosí drastico. Quando andiamo in banca e inseriamo la carta di debito nel distributore bancomat, se la luce lampeggia e indica «fondi insufficienti» vogliamo che sia il nostro conto, e non la banca, ad avere fondi insufficienti. È cosí che il sistema dovrebbe funzionare, ma non è cosí che le cose sono andate negli Stati Uniti con le amministrazioni Bush e Obama. Questi signori hanno salvato non soltanto le banche - operazione che aveva un senso - ma anche gli azionisti, gli obbligazionisti e altri creditori non assicurati. Fu una vittoria nella battaglia delle percezioni. C'era un altro modo di inquadrare la questione politica. Si sarebbe potuti partire non dall'idea che quel che aveva fatto la Svezia non sarebbe stato nella nostra «tradizione», ma dall'analisi di quel che la teoria economica e la storia avevano mostrato. Tale analisi avrebbe provato che avremmo potuto salvare il settore bancario, proteggere i depositi e mantenere un flusso di credito a un costo minore per il governo seguendo le normali regole del capitalismo. Questo, del resto, è quanto avevano fatto la Svezia e gli Stati Uniti altre volte in cui le banche erano finite nei guai. Per dirla in parole semplici, l'interesse dell'economia avrebbe potuto essere protetto meglio e si sarebbe potuta preservare meglio anche la sensazione di equità del nostro sistema, se Obama e Bush avessero giocato secondo le regole normali del capitalismo, invece di crearsele strada facendo: se, in un certo senso, avessero rispettato la legge. Invece, i banchieri ottennero il loro denaro senza condizioni. Il denaro avrebbe dovuto ricapitalizzare le banche e ricapitalizzare le banche avrebbe dovuto portare a una maggiore attività di prestito. Tuttavia, i soldi dati alle banche che finirono nei bonus non potevano essere usati allo stesso tempo per ricapitalizzarle. In tal modo i banchieri e i loro sostenitori vinsero momentaneamente la loro battaglia, nel senso che quel denaro finí nelle casse delle banche e dei banchieri. Ma persero la battaglia a lungo termine delle percezioni: praticamente tutti oggi considerano iniquo quanto è accaduto; e anche ingiustificato, nonostante le circostanze economiche particolari. È questo, oltre al resto, che ha dato il via alla violenta reazione degli ultimi mesi. | << | < | > | >> |Pagina 282Lotta di classe e welfare societario.Quando il presidente Clinton si insediò alla Casa Bianca, dovette affrontare una situazione di disoccupazione e deficit elevati, benché quel livello di disoccupazione e lo stato del debito di quei giorni impallidiscano se confrontati con quelli di oggi. Fu naturale per noi pensare che alcuni tagli al bilancio avrebbero aumentato l'efficienza senza danneggiare l'obiettivo al cuore dell'agenda del governo, ossia «la gente al primo posto», e pensavamo anche che, reindirizzando la spesa, quei tagli avrebbero potuto stimolare l'economia. I candidati ideali ai tagli erano le ampie spese destinate a ciò che Robert Reich (allora segretario al Lavoro) e io chiamavamo corporate welfare, ossia i sussidi alle corporations americane. Fu chiesto dunque al Council of Economic Advisers di stilarne un elenco, una cosa meno semplice di come potrebbe sembrare, dal momento che gran parte dei sussidi è nascosta nel codice tributario. Anche allora, comunque, ai primi posti figuravano i sussidi alle banche (per esempio attraverso i salvataggi dell'Fmi), all'agricoltura e alle compagnie del carbone e delle altre risorse naturali. Pensavo che l'amministrazione avrebbe risposto dimostrando un ampio consenso in via di principio, ma con notevoli riserve sulle politiche da perseguire. Mi aspettavo cioè che i dipartimenti che distribuivano i sussidi cercassero di difendere il loro orto. Mi sorprese dunque la forte reazione del capo del National Economic Council (piú tardi segretario al Tesoro) Bob Rubin, secondo il quale stavamo cercando di sollevare una guerra di classe. Naturalmente non era affatto cosí: per un'amministrazione di parte democratica, che si sforzava di concentrare l'attenzione sulla ripresa economica e sull'aiuto alle persone, l'esistenza di costosi sussidi che distorcevano l'economia e aumentavano la disuguaglianza non aveva senso. Inoltre, fingere che nella nostra società non vi fossero ampie disuguaglianze e divisioni significava mettere la testa sotto la sabbia. Fu Warren Buffett a porre la questione nei giusti termini quando disse: «C'è stata una lotta di classe negli ultimi vent'anni e la mia classe ha vinto». Ma l'accusa di promuovere la lotta di classe suggeriva che chi stava cercando di ridurre i sussidi alle corporations intendesse lavorare per dividere. Durante l'amministrazione Clinton non riuscimmo a fare grandi progressi nei tagli al welfare societario. Gli ingenti sussidi all'agricoltura e all'energia rimasero al loro posto. E lo stesso fecero i piú piccoli, benché altamente simbolici sussidi ai grandi gruppi. Durante la crisi del 2008, tuttavia, il corporate welfare raggiunse nuove vette. Nell'imponente salvataggio della Grande recessione, un'unica compagnia, la Aig, ricevette oltre 150 miliardi di dollari, piú di quanto era stato speso di assistenza ai redditi piú bassi dal 1990 al 2006. Quando poi i deficit sono cresciuti, ci sono stati nuovi scrutini del budget e sono stati riproposti tagli al corporate welfare, che lo si chiamasse cosí o meno. Alcuni sono già diventati operativi; come abbiamo notato prima, all'inizio del 2012 i sei miliardi di dollari di sussidi alla produzione di etanolo, erogati per trent'anni, sono stati sospesi. Ma sospetto che i settori e le imprese piú potenti riusciranno a conservare quanto ricevono. Il governo deve fare la sua parte nell'offrire una rete di protezione per la «tutela sociale», ma dovrebbe tutelare gli individui e le famiglie dai rischi che si trovano ad affrontare, in particolare quelli contro i quali non possono assicurarsi; non dovrebbe proteggere i grandi gruppi dalle conseguenze di cattive decisioni d'affari, né offrire sussidi per arricchire i loro forzieri. I mercati non possono funzionare senza una qualche disciplina, se le compagnie si prendono tutti i vantaggi dei rischi mentre i contribuenti sono lasciati a sostenere le perdite. | << | < | > | >> |Pagina 345In breve, se fossimo seri sulla riduzione del deficit, nel prossimo decennio potremmo raccogliere senza fatica migliaia di miliardi di dollari semplicemente: a) alzando le tasse a chi sta in alto, perché riceve una fetta talmente grande della torta economica del paese che anche piccoli aumenti di aliquote genererebbero entrate sostanziali; b) eliminando le scappatoie e i trattamenti speciali concessi al genere di reddito spropositato guadagnato da chi sta in cima, dalle aliquote fiscali piú basse per speculatori e dividendi all'esenzione dell'interesse maturato sulle obbligazioni municipali; c) eliminando dal sistema fiscale le scappatoie e le clausole speciali che interessano sia persone fisiche sia società ma di fatto rappresentano sussidi alle grandi compagnie; d) tassando di piú le rendite; e) tassando l'inquinamento; f) tassando il settore finanziario, almeno per riflettere parzialmente i costi che ha ripetutamente imposto al resto dell'economia; g) facendo pagare il costo pieno a chi fa uso o sfrutta le risorse del paese, risorse che appartengono di diritto a tutti gli americani. L'afflusso di denaro che ne deriverebbe non soltanto renderebbe piú efficiente l'economia e diminuirebbe il deficit in misura sostanziale: ridurrebbe anche la disuguaglianza. Ma è precisamente per tale motivo che quelle semplici idee non sono state poste in cima o al centro del dibattito sul bilancio.| << | < | > | >> |Pagina 3646. L'austerità.I miti peggiori sono che l'austerità porterà alla ripresa e che un aumento della spesa governativa non lo farà. Il ragionamento è che il mondo degli affari, vedendo i conti del governo piú in ordine, sarà piú fiducioso e che tale aumento di fiducia porterà a maggiori investimenti. È interessante notare come, in base a questo ragionamento, chi lo sostiene dovrebbe appoggiare la nostra prima strategia per la ripresa economica: aumentare l'investimento pubblico. Poiché vi sono opportunità di investimento pubblico ampiamente riconosciute quali fonti di ritorni attesi elevati, ben piú elevati del tasso di interesse che il governo deve pagare per prendere a prestito il denaro necessario, un maggiore investimento pubblico porterebbe nel lungo periodo a un debito pubblico inferiore; e la convinzione che sarebbe cosí dovrebbe instillare fiducia, portando a un'ulteriore esplosione di attività economica. Ma i sostenitori dell'austerità non appoggiano gli investimenti pubblici. Un altro modo di considerare i meriti dell'austerità è guardare alla sua storia. La storia mostra che l'austerità non ha quasi mai funzionato e la teoria spiega perché non dovremmo esserne sorpresi. Le recessioni sono provocate da una debolezza della domanda, ossia da una domanda totale di beni e servizi inferiore alla quantità di beni e servizi che l'economia è in grado di produrre. Quando il governo taglia la spesa, la domanda si riduce ulteriormente e la disoccupazione aumenta. Alla base del mito che l'austerità porti fiducia c'è spesso un altro mito, il mito che il bilancio pubblico di uno stato sia come il bilancio di una famiglia. Certo, qualunque famiglia, prima o poi, deve vivere entro i limiti stabiliti dai mezzi di cui dispone. Ma, quando l'economia di un paese è afflitta da un livello di disoccupazione elevato, questa semplice regola non funziona per il bilancio dello stato. Questo perché un'espansione della spesa può effettivamente espandere la produzione, creando posti di lavoro che saranno occupati da persone altrimenti disoccupate. Un'unica famiglia, spendendo piú di quanto guadagna, non può cambiare la macroeconomia. Ma un governo nazionale può farlo. E il conseguente aumento del Pil potrebbe essere un multiplo della quantità di denaro spesa dal governo. Chi lavora nella finanza insiste sull'importanza della fiducia, ma la fiducia non può essere ripristinata da politiche che inducano una maggiore disoccupazione e portino a un volume di produzione inferiore. La fiducia può essere ripristinata soltanto da politiche capaci di generare crescita; e l'austerità fa esattamente l'opposto. I sostenitori dell'austerità esibiscono dati che vorrebbero dimostrare come i paesi in condizioni di flessione economica che hanno seguito programmi di austerità si siano ripresi. Ma uno sguardo piú attento evidenzia che quei paesi erano tutti di piccole dimensioni e avevano partner commerciali in fase di espansione. In tali condizioni, un aumento delle esportazioni potrebbe facilmente sostituire la riduzione della spesa governativa. Ma non è il caso degli Stati Uniti e dell'Europa oggi, i cui partner commerciali sono anch'essi in fase negativa. Si potrebbe pensare che i sostenitori dell'austerità abbiano imparato dalla pletora di esperienze del passato in cui l'austerità ebbe conseguenze disastrose: il regime di austerità di Herbert Hoover tramutò il crollo del mercato azionario del 1929 nella Grande depressione, l'austerità del Fondo monetario internazionale trasformò le flessioni dell'Est asiatico e dell'America Latina in recessioni e depressioni; e l'austerità autoimposta e forzata in diversi paesi europei (Regno Unito, Lettonia, Grecia, Portogallo) sta avendo esattamente lo stesso effetto. Ma i sostenitori dell'austerità non sembrano rassegnarsi a questa assoluta evidenza. Come i medici del Medioevo che credevano nei salassi - e che, quando il paziente non migliorava, sostenevano la necessità di operarne un altro - i salassatori dell'economia del XXI secolo non avranno dubbi. Chiederanno ancora piú austerità e troveranno migliaia di scuse se la prima dose non avrà funzionato come previsto. Nel frattempo, la disoccupazione crescerà, i salari scenderanno e i programmi governativi su cui conta chi sta a metà e in fondo alla scala sociale si saranno indeboliti. | << | < | > | >> |Pagina 381Capitolo nono
Una politica macroeconomica e una banca centrale da e per l'1 per cento
Alcuni lettori potrebbero sorprendersi di trovare un capitolo sulla macroeconomia — il ramo della disciplina che tratta del livello piú generale dell'attività economica, dell'andamento della produzione (il Pil) e della disoccupazione, dei tassi di interesse e dell'inflazione — in un libro che ha per tema la disuguaglianza. Ma niente influisce sul benessere della maggior parte dei cittadini come la situazione macroeconomica, ossia la presenza o meno di condizioni di pieno impiego e di crescita. E, quando le politiche macroeconomiche falliscono e la disoccupazione sale, quanti si trovano in fondo alla scala sociale sono fra coloro che soffrono di piú. Piú in generale, la politica macroeconomica influisce enormemente sulla distribuzione del reddito. I decisori dovrebbero esserne consapevoli, ma spesso si comportano come se non lo sapessero. Di fatto, la distribuzione del reddito viene menzionata raramente in ambito macroeconomico, e proprio questo è il punto. La responsabilità piú importante dei policy makers è mantenere la stabilità generale dell'economia, ma la Grande recessione rappresenta l'esempio di un fallimento colossale. Questo fallimento ha avuto ricadute pesanti sugli americani comuni in quanto lavoratori, proprietari di case e contribuenti. L'abbiamo visto nel primo capitolo, dove spiegavamo come, alla fine, il fallimento verificatosi sul piano della macroeconomia abbia fatto emergere i problemi del nostro sistema economico. Quando le cose andavano bene, la maggior parte delle persone prosperava e poteva convincersi che chi non si stava arricchendo dovesse biasimare soltanto se stesso. Ma con la recessione del 2008 questa storia iniziò a non avere piú senso. Troppa gente che «giocava secondo le regole, studiava seriamente e lavorava duro» si limitava a tirare avanti, o addirittura non riusciva a farcela. Il sistema non stava funzionando. Questo libro ha mostrato come, per molti aspetti, il nostro sistema economico abbia beneficato chi si trovava in cima alla scala sociale a spese del resto della popolazione e sia molto lontano da quello che è stato chiamato «modello meritocratico di determinazione del reddito», in cui il reddito riflette i contributi apportati da ciascuno alla società. Nel presente capitolo ci concentriamo sul contributo apportato dalla politica macroeconomica degli Stati Uniti a questo risultato, prima, durante e dopo la crisi. La politica è fatta di scelte. E tutte le scelte politiche hanno conseguenze sul piano distributivo. Una delle tesi al centro di questo libro è che alcune scelte politiche hanno al tempo stesso accresciuto la disuguaglianza - beneficando chi sta in alto - e danneggiato l'economia. Molte scelte sono particolarmente complicate e comportano compromessi. Se esiste un trade-off tra inflazione e disoccupazione, perseguire una riduzione dell'inflazione significa far crescere la disoccupazione e far soffrire i lavoratori. Un livello di disoccupazione piú basso comporta invece inflazione piú elevata e obbligazionisti che assistono all'erosione del valore dei loro patrimoni. Focalizzarsi sull'inflazione porta dunque a collocare gli interessi degli obbligazionisti al centro della scena. Ma proviamo a immaginare come avrebbero potuto essere diverse le politiche monetarie se l'obiettivo fosse stato mantenere la disoccupazione al di sotto del 5 per cento, piuttosto che il tasso di inflazione inferiore al 2 per cento. Politiche diverse impongono inoltre rischi diversi a segmenti diversi della società. Se le cose vanno male, chi ne sosterrà le conseguenze? E quando le cose vanno bene, chi ne coglie i benefici? La Fed ha scommesso sulla capacità delle banche di gestire il proprio rischio, una scommessa basata sulla fiducia che è andata a tutto vantaggio di quegli istituti, e soprattutto dei banchieri, ma di cui il resto di noi ha pagato il prezzo. La Fed avrebbe potuto tenere a freno le attività di prestito sconsiderato e predatorio, o le pratiche abusive sulle carte di credito, ma scelse di non farlo. Anche qui, a vincere furono le banche; il resto delle persone ci rimise. La politica monetaria e macroeconomica e l'azione della Fed hanno contribuito cosí in piú modi al crescente problema della disuguaglianza nel paese. In basso e al centro della scala sociale, un livello di disoccupazione piú elevato di quanto fosse allora necessario ha significato (comportando salari piú bassi) redditi inferiori per i lavoratori. E una minore protezione dalle pratiche abusive delle banche ha colpito il tenore di vita dei medesimi lavoratori. Vedremo infine come le attuali politiche macroeconomiche potrebbero anche contribuire a creare una ripresa senza occupazione, quando la ripresa si sarà effettivamente avviata. I sussidi nascosti alle banche e il sostegno alla deregolamentazione che tanto hanno favorito la finanziarizzazione dell'economia hanno favorito anche l'aumento della disuguaglianza di chi sta in alto rispetto agli altri, mentre politiche di lotta all'inflazione aggressive hanno fatto sí che i ricchi obbligazionisti non abbiano dovuto temere l'erosione del valore dei loro patrimoni. Questi fallimenti non sono casuali. Gli accordi istituzionali con cui si stabilisce una politica monetaria vengono disegnati per dar voce soprattutto ai banchieri e ai loro alleati. Ciò ha avuto ripercussioni anche sui modelli entrati a far parte della cassetta degli attrezzi standard delle banche centrali. Mentre si concentravano sull'inflazione (una cosa a cui gli obbligazionisti erano molto attenti), le banche centrali si disinteressarono della distribuzione (una cosa di cui i banchieri non avrebbero voluto che le banche centrali si interessassero troppo) sebbene, come abbiamo visto, la crescente disuguaglianza svolgesse un ruolo cruciale nel creare instabilità economica. Non appena la Grande recessione attirò l'attenzione sulla crescita della disuguaglianza in America - distruggendo il mito che tutti stessero beneficiando della crescita economica dei venticinque anni precedenti - altri due miti ne uscirono distrutti: che concentrarsi sull'inflazione fosse la chiave di volta della prosperità economica e che il modo migliore per garantire la stabilità fosse avere una banca centrale indipendente. Questo capitolo intende spiegare come le politiche monetarie messe in campo abbiano indebolito la performance economica complessiva e incrementato al tempo stesso la disuguaglianza. Esiste dall'altra parte un insieme di politiche e di accordi istituzionali alternativo che offre la promessa non soltanto di una crescita migliore e piú stabile, ma anche di una condivisione piú giusta dei benefici di tale crescita. | << | < | > | >> |Pagina 402Per quanto mi riguarda, benché sia critico nei confronti della Fed, trovo che le cose in Europa vadano ancora peggio. Ufficialmente, la banca centrale americana dovrebbe badare all'inflazione, alla crescita e all'occupazione, mentre la Banca centrale europea, l'equivalente della Federal Reserve che governa i diciassette paesi dell'eurozona, è tenuta a concentrarsi soltanto sull'inflazione. La Bce, inoltre, riflette la visione delle banche e della comunità finanziaria anche piú di quanto faccia la Fed. La risposta che ha dato alla grande crisi del debito iniziata in Grecia nel gennaio 2010 ne è un esempio. Prima la Grecia, poi l'Irlanda e il Portogallo, seguiti successivamente da Spagna e Italia, hanno dovuto affrontare, per il rispettivo debito pubblico, tassi di interesse insostenibili. Cosí, dall'essere una remota possibilità nel gennaio 2010, lo spettro di un default greco apparve quasi inevitabile nel luglio 2011, anche se furono usate parole in qualche modo piú gentili come «ristrutturazione del debito» e benché la Grecia fosse indebitata per una quantità di denaro superiore a quella che avrebbe potuto rimborsare senza infliggere pene politicamente inaccettabili ai suoi cittadini. D'altra parte, quando l'unico problema sembrava quello della Grecia, una semplice toppa al sistema europeo avrebbe potuto funzionare. Ma quando grandi paesi come Spagna e Italia incontrarono difficoltà a finanziare il loro debito a tassi di interesse ragionevoli, si vide chiaramente che il problema avrebbe richiesto un'azione piú risoluta.In tale frangente, la Bce svolse un ruolo ambiguo nel migliore dei casi. Nei confronti della Grecia insistette affinché qualunque ristrutturazione del debito (la richiesta ai creditori di accettare una riduzione contabile e posporre il rimborso) avvenisse su base volontaria. Dichiarò che, in tal modo, qualunque accordo fosse stato raggiunto non avrebbe potuto avviare un credit event capace di scatenare il rimborso dei credit default swaps, i titoli ad alto rischio che avrebbero guadagnato dal default del paese. Con ciò, la Bce sembrò collocare gli interessi delle banche ben al di sopra di quelli del popolo greco. La Grecia, infatti, aveva bisogno di una ristrutturazione profonda (un altro modo di definire un'ampia riduzione del suo onere di debito) molto superiore a quella che avrebbe potuto emergere su base volontaria; ma soltanto una riduzione contabile su base volontaria non sarebbe stata considerata un credit event. Ci fu qualcosa di ancora piú strano nella posizione della Bce. I Cds dovrebbero essere un'assicurazione. Ora, se uno possiede una polizza di assicurazione, vuole che la compagnia assicurativa sia generosa e dichiari che si è verificato un «evento assicurabile»: è questo l'unico modo di incassare la polizza e in realtà, a volte, le persone si adoperano in qualunque modo perché l'evento si avveri (da qui il termine «azzardo morale»). Nel caso della Grecia, la Bce dichiarò di non voler scatenare i rimborsi di quelle polizze. Ma se i derivati fossero stati acquistati come prodotti assicurativi, le banche avrebbero voluto incassare l'assicurazione e anche la Bce, in quanto protettrice delle banche, l'avrebbe voluto. Una possibile spiegazione era che la Bce avesse fallito il suo mandato di regolamentazione e che alcune banche, invece di acquistare assicurazioni, stessero scommettendo sulla posizione della Grecia e ci avrebbero rimesso se i Cds avessero dovuto essere rimborsati. La Bce sembrò mettere gli interessi di queste banche non soltanto davanti a quelli dei cittadini della Grecia, ma anche agli interessi di quelle banche che erano state piú prudenti e avevano acquistato assicurazioni. Naturalmente, sarebbe stata responsabilità della Bce e delle autorità finanziarie europee assicurarsi che le banche fossero adeguatamente capitalizzate e non troppo esposte al rischio. Che avessero miseramente fallito era evidente: poche settimane dopo aver concesso alle istituzioni finanziarie europee un certificato di buona salute (avendo superato un test concepito teoricamente per garantire che potessero sopravvivere a un importante stress economico), le banche irlandesi crollarono. A poche settimane di distanza da un secondo sigillo di approvazione, avendo apparentemente superato parametri piú rigidi, un'altra importante banca europea (la Dexia) fallí. | << | < | > | >> |Pagina 424Capitolo decimo
La strada da percorrere: un altro mondo è possibile
Non serve fingere. Nonostante la persistente convinzione che gli americani godano di una mobilità sociale superiore a quella europea, gli Stati Uniti non sono piú la terra delle opportunità. Niente illustra chiaramente ciò che è accaduto quanto la difficile condizione dei ventenni di oggi. Invece di iniziare una nuova vita, freschi di entusiasmo e di speranza, molti devono affrontare un mondo che suscita ansia e paure. Gravati dai debiti contratti per studiare, che come ben sanno faticheranno a rimborsare e non potranno veder cancellati nemmeno dichiarando bancarotta, vanno in cerca di un buon lavoro in un mercato che si presenta a tinte fosche. Se saranno abbastanza fortunati da trovarlo, percepiranno comunque un salario deludente, spesso tanto basso da costringerli a continuare a vivere con i genitori. Quanto a questi ultimi, mentre si preoccupano per i figli temono anche per il proprio futuro. Perderanno la casa? Saranno obbligati ad andare in pensione anticipata? Basteranno, per vivere, i risparmi pesantemente ridotti dalla Grande recessione? Questi cinquantenni sanno che, se dovessero affrontare tempi duri, potrebbero non riuscire a ricevere aiuto dai figli. Da Washington arrivano notizie ancora peggiori: da piú parti si sente parlare di tagli a Medicare che renderebbero le cure mediche inaccessibili a molte persone. Anche la Social Security sembra in pericolo e, mentre gli anziani si avviano sul viale del tramonto, i sogni di una pensione tranquilla sembrano ormai un miraggio. Allo stesso modo, i sogni di una vita prospera, migliore, per i loro figli potrebbero risultare datati come le immagini di un film degli anni Cinquanta. Sta accadendo in America quello che sta accadendo anche in molti altri paesi del mondo. Ma non è un processo inevitabile. Non si tratta dell'inesorabile funzionamento dell'economia di mercato. Esistono società che si sono gestite assai meglio, anche in un mondo in cui le forze del mercato e il paradigma politico dominante portano a una disuguaglianza sostanziale per via delle diverse capacità, del maggiore o minore impegno individuale e della fortuna. Queste società producono un tenore di vita superiore a quello di cui gode la gran parte dei cittadini degli Stati Uniti, misurato non soltanto in termini di reddito, ma anche di salute, istruzione, sicurezza e degli altri aspetti importanti per la qualità della vita. Alcune di esse, dove un tempo la disuguaglianza era molto piú grave che negli Stati Uniti, non hanno distolto lo sguardo dal precipizio e, dopo aver visto che cosa avrebbe potuto esserci in fondo, hanno fatto un passo indietro, riuscendo a ridurre il grado di disuguaglianza, ad aiutare gli strati poveri della popolazione e a estendere le possibilità di istruzione. Un altro mondo è possibile. Possiamo avere una società piú rispondente ai nostri valori fondamentali, con maggiori opportunità, un reddito totale nazionale superiore, una democrazia piú forte e un tenore di vita piú elevato per la maggioranza dei cittadini. Non sarà facile. Esistono forze di mercato che ci trascinano in senso contrario, plasmate dalla politica, dalle regole e dalle regolamentazioni che adottiamo in quanto società, cosí come dal modo di comportarsi delle nostre istituzioni (la Federal Reserve, la nostra banca centrale, e le altre agenzie di regolamentazione). Abbiamo creato un'economia e una società in cui si possono ammassare grandi ricchezze attraverso la ricerca della rendita: a volte attraverso trasferimenti diretti dal settore pubblico ai ricchi del paese, piú spesso attraverso regole che consentono a questi ultimi di raccogliere «rendite» dal resto della società attraverso un potere monopolistico e altre forme di sfruttamento. | << | < | > | >> |Pagina 4271. L'agenda della riforma economica.
Un'agenda di reale riforma economica accrescerebbe al
tempo stesso l'efficienza, l'equità e il livello di opportunità.
La maggior parte degli americani ne trarrebbe vantaggio;
gli unici a perderci potrebbero essere alcuni rappresentanti dell'1 per cento,
il cui reddito, per esempio, dipendesse
da una ricerca della rendita o vi fosse eccessivamente legato. Le riforme di cui
parlo derivano direttamente dalla
diagnosi proposta: abbiamo un problema in cima, a metà e
in fondo alla scala sociale. Non sarà sufficiente intervenire
con soluzioni semplici. Abbiamo identificato i tanti fattori che contribuiscono
all'elevato livello di disuguaglianza e
al basso livello di opportunità che affligge attualmente il
paese. E, benché gli economisti discutano spesso dell'importanza relativa di
ciascuno di tali fattori, abbiamo visto
perché risolvere la questione di quale sia il piú importante
sia un compito quasi impossibile. In ogni caso, la disuguaglianza di opportunità
in America è cresciuta al punto che,
per contrastarla, dobbiamo fare qualunque cosa in nostro
potere. Alcune delle sue cause potrebbero essere molto al
di là delle nostre possibilità di controllo e su altre è possibile intervenire
soltanto gradualmente, in un'ottica di lungo
periodo; ma ve ne sono altre ancora che siamo in grado di
affrontare immediatamente. Abbiamo bisogno di sferrare
un attacco a tutto tondo, sulla base di alcuni degli elementi
chiave descritti sopra.
2. Ridurre gli eccessi in cima.
Il secondo capitolo ha mostrato quanta ricchezza ammassata in cima alla
scala sociale derivi, in un modo o nell'altro,
da comportamenti di ricerca della rendita e da regole che inclinano il campo di
gioco a vantaggio di chi sta in alto. Le distorsioni e perversioni del nostro
sistema economico sono ovunque, ma le sette riforme che seguono farebbero una
grande differenza.
Limitare la ricerca della rendita e livellare il campo di gioco. 1) Contenere il settore finanziario. Dal momento che tanta parte della crescita della disuguaglianza si associa agli eccessi del settore finanziario, è questo il luogo naturale da cui partire con un programma di riforma. Il Dodd-Frank Act è un inizio, ma soltanto un inizio. Ci sono altre sei riforme urgenti: a) Contenere l'eccessiva assunzione di rischi e le istituzioni finanziarie «troppo grandi per fallire» e «troppo interconnesse per fallire», una combinazione letale che ha condotto ai ripetuti salvataggi degli ultimi trent'anni. Le restrizioni sulla leva di indebitamento e i requisiti di liquidità sono cruciali, perché con la magia del leverage le banche sono convinte di poter creare risorse in qualche modo dal nulla. Invece non si può fare: per quella strada si creano soltanto rischio e volatilità. b) Rendere piú trasparenti le banche, soprattutto riguardo al loro trattamento dei derivati fuori Borsa, che dovrebbero essere piú strettamente vincolati e non sottoscrivibili da istituzioni finanziarie garantite dal governo. I contribuenti non dovrebbero essere coinvolti nella collateralizzazione di questi rischiosi prodotti, che li si consideri assicurazioni, strumenti d'azzardo o, con le parole di Warren Buffett, armi finanziarie di distruzione di massa. c) Rendere piú competitive le banche e le compagnie che gestiscono le carte di credito e fare in modo che operino secondo le leggi della concorrenza. Abbiamo una tecnologia che ci consente di creare un meccanismo di pagamento elettronico efficiente per il XXI secolo, ma abbiamo un sistema bancario determinato a mantenere un sistema di carte di credito e debito che non soltanto sfrutta i consumatori, ma impone ai commercianti tariffe elevate su ogni transazione. d) Rendere piú difficile per le banche darsi al prestito predatorio e a pratiche abusive sulle carte di credito, anche imponendo limiti piú severi all'usura (la richiesta di interessi eccessivamente elevati). e) Limitare i bonus che incoraggiano l'eccessiva assunzione di rischi e i comportamenti miopi. f) Chiudere i centri bancari internazionali offshore (e le loro controparti interne), che sono riusciti ad aggirare cosí bene le regole e a promuovere l'evasione e l'elusione fiscale. Non vi è alcuna buona ragione per cui tanti soldi finiscano alle Isole Cayman; non c'è niente lí, nemmeno il clima, che possa spiegarlo, se non l'elusione del fisco. [...] 2) Leggi sulla concorrenza piú forti e fatte rispettare con maggiore efficacia. [...] 3) Miglioramento della «corporate governance», soprattutto per limitare il potere dei Ceo di dirottare a proprio vantaggio tanta parte delle risorse di un'impresa. [...] 4) Riforma completa delle leggi sulla bancarotta, dal trattamento dei derivati alle case «sott'acqua» e i prestiti agli studenti. [...] 5) Porre fine ai regali del governo, sia nell'ambito della destinazione del patrimonio pubblico sia nell'ambito delle forniture. [...] 6) Porre fine al welfare societario, compresi i sussidi nascosti. [...] 7) Riforma legale: democratizzazione dell'accesso alla giustizia e limitazione della corsa agli armamenti. | << | < | > | >> |Pagina 434Riforma fiscale.
Ciascuna delle sette riforme che abbiamo descritto genererebbe un doppio
dividendo: rafforzerebbe l'efficienza
economica e farebbe crescere l'uguaglianza. Ma, anche dopo aver fatto tutto ciò,
rimarrebbero comunque grandi disuguaglianze e, per poter offrire un ritorno
sugli investimenti pubblici e rispondere ad altre necessità comuni, per aiutare
la classe media e povera, o per garantire opportunità a tutti
i segmenti della popolazione, dovremo imporre una fiscalità progressiva e,
soprattutto, lavorare meglio per chiudere
le scappatoie. Come abbiamo visto, invece, negli ultimi decenni abbiamo creato
un sistema fiscale meno progressivo.
Creare un sistema fiscale personale e societario progressivo, con meno scappatoie. Il nostro sistema fiscale, benché formalmente progressivo, lo è molto meno di quanto possa sembrare. È crivellato di buchi, come abbiamo notato, esenzioni, eccezioni e preferenze. Un sistema fiscale equo tasserebbe gli speculatori almeno alla stessa aliquota di chi, per guadagnare, lavora. Farebbe in modo che chi sta in cima pagasse in imposte almeno la stessa percentuale sul proprio reddito di chi percepisce redditi piú bassi. A livello societario, il sistema fiscale dovrebbe essere riformato sia per eliminare le scappatoie sia per incoraggiare la creazione di nuovi posti di lavoro e investimenti.
Nel quarto capitolo ho spiegato come, contrariamente
alle dichiarazioni della destra, potremmo avere davvero un
sistema fiscale piú efficiente, ossia, di fatto, piú progressivo. Ho citato
studi che, sulla base del responso dei risparmi
e dell'offerta di lavoro, mostravano come l'aliquota fiscale
piú alta dovrebbe superare di molto il 50 per cento e possibilmente il 70 per
cento. E quegli studi non tenevano pienamente conto della misura in cui i
redditi molto elevati derivavano da una qualche rendita.
Creare un sistema di imposte successorie piú efficace e farlo rispettare in modo piú efficace, per impedire la creazione di una nuova oligarchia. Ripristinare una vera tassa di successione contribuirebbe a impedire la formazione di una nuova oligarchia o plutocrazia americana e lo stesso farebbe l'eliminazione del trattamento preferenziale riservato al capital gain. Le conseguenze negative sarebbero probabilmente minime, visto che la maggior parte di coloro che accumulano questi grandi patrimoni lo fa con l'aiuto della fortuna o grazie all'esercizio di un potere monopolistico, oppure è motivata da incentivi non pecuniari. | << | < | > | >> |Pagina 446Ritornare a una crescita sostenibile e giusta.
Un'agenda per la crescita, basata sull'investimento pubblico.
Abbiamo mostrato il motivo per cui l'economia che
conta sui benefici a cascata non funziona: la crescita non
avvantaggia tutti automaticamente. Tuttavia, la crescita
ci offre le risorse per affrontare alcuni dei problemi piú
difficili della nostra società, inclusi quelli posti dalla povertà. Oggi, il
problema principale che le economie statunitensi ed europee devono affrontare è
l'insufficienza della domanda. Ma quando alla fine la domanda totale sarà
adeguata al pieno utilizzo delle nostre risorse - facendo
tornare l'America al lavoro - il problema si presenterà dal
lato dell'offerta. Il vincolo a quel punto sarà l'offerta, non
la domanda. Non parlo dell'economia offertista tanto amata dalla destra: si può
aumentare la pressione fiscale sulle
grandi aziende che non investono e alleggerirla su quelle
che invece investono e creano lavoro. Probabilmente, ciò
porterebbe alla crescita piú di quanto farebbe il genere
di riduzioni fiscali indiscriminate invocato da alcuni imprenditori. L'economia
offertista della destra ha esagerato infatti l'importanza degli incentivi
fiscali, soprattutto riguardo all'imposta sul reddito d'impresa, mentre ha
sottovalutato l'importanza di altre politiche. Gli investimenti
del governo - in infrastrutture, istruzione e tecnologia -
hanno sostenuto la crescita per tutto il secolo scorso, dunque possono porre le
basi della crescita in quello attuale.
Tali investimenti promuoveranno l'economia e renderanno
gli investimenti privati ancora piú attraenti. Come ha sottolineato lo storico
dell'economia Alex Fields, i decenni
degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta e Sessanta sono
stati periodi di incrementi di produttività elevati - superiori a quelli del
decennio precedente e di quello successivo - e buona parte di quel successo ebbe
a che fare con investimenti pubblici.
Reindirizzare investimenti e innovazione, per conservare posti di lavoro e ambiente. Dobbiamo reindirizzare investimenti e innovazione dai settori che risparmiano lavoro (labour-saving, un eufemismo che nelle attuali circostanze significa creare disoccupazione) a quelli che risparmiano risorse. Non sarà facile: dovremo agire di spinta come di traino. Nell'innovazione, per esempio, è possibile farlo sia attraverso il tipo di ricerca pura e applicata finanziato dal governo, sia costringendo le imprese a risarcire completamente il danno che infliggono all'ambiente. Questo le incentiverà a risparmiare risorse, distogliendole dal sostituire i lavoratori. Invece che con tassi di interesse indiscriminatamente bassi (come gli attuali), che incoraggiano la sostituzione con le macchine anche dei lavoratori con qualche qualifica, potremmo usare i crediti d'imposta per incoraggiare gli investimenti; ma tali crediti verrebbero concessi soltanto a investimenti in grado di risparmiare risorse e proteggere posti di lavoro, non agli investimenti che distruggono le risorse e l'occupazione.
In questo libro ho sottolineato come a contare non sia soltanto la crescita,
ma
il tipo di crescita
(o, come a volte si dice,
la qualità della crescita). Una crescita nonostante la quale la
maggior parte delle persone se la passasse male, dove la qualità dell'ambiente
ne risentisse, dove la gente vivesse nell'ansia
e con un senso di alienazione, non è il genere di crescita che
dovremmo perseguire. La buona notizia è che talvolta possiamo plasmare le forze
del mercato per il meglio e ricavarne entrate che possono essere usate per
promuovere la crescita e rinforzare il benessere della collettività.
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