Copertina
Autore Joseph E. Stiglitz
Titolo La globalizzazione e i suoi oppositori
EdizioneEinaudi, Torino, 2002, Saggi 851 , pag. 276, dim. 158x215x20 mm , Isbn 978-88-06-16377-8
OriginaleGlobalization and Its Discontents [2002]
TraduttoreDaria Cavallini
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe economia , economia politica , politica , globalizzazione
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Indice

p.IX Prefazione

XVII Ringraziamenti

     La globalizzazione e i suoi oppositori

  3  I.   La promessa delle istituzioni globali

 23  II.  Promesse infrante

 53  III. Libertà di scelta?

 89  IV.  La crisi dell'Est asiatico. Come le
          politiche del Fondo monetario hanno
          portato il mondo sull'orlo di un
          tracollo globale

135  V.   Chi ha perso la Russia?

169  VI.  Leggi commerciali inique e altri guai

183  VII. Strade migliori verso il mercato

199  VIII.L'agenda parallela del Fondo
          monetario internazionale

219  IX.  La strada da percorrere

259  Indice analitico

 

 

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Pagina IX

Prefazione


Nel 1993 ho lasciato il mondo accademico per entrare nel Consiglio dei consulenti economici sotto la presidenza di Bill Clinton. Dopo anni dedicati alla ricerca e all'insegnamento, quello è stato il mio primo tentativo serio di entrare nel mondo della politica e, più precisamente, di fare politica. Nel 1997, sono passato alla Banca mondiale dove ho rivestito i ruoli di chief economist e senior vice president per quasi tre anni, fino al gennaio 2000. Non avrei potuto scegliere un momento più affascinante per entrare in politica. Mi trovavo alla Casa Bianca mentre la Russia passava dal comunismo all'economia di mercato e lavoravo alla Banca mondiale durante la crisi finanziaria che cominciò nell'Est asiatico nel 1997 per poi estendersi al resto del mondo. Ero sempre stato interessato al tema dello sviluppo economico e ciò che ho visto ha modificato radicalmente le mie opinioni, sia sulla globalizzazione sia sullo sviluppo. La ragione per cui ho scritto questo libro è che, mentre mi trovavo alla Banca mondiale, ho preso atto in prima persona degli effetti devastanti che la globalizzazione può avere sui paesi in via di sviluppo e, in particolare, sui poveri che vi abitano. Ritengo che la globalizzazione, ossia l'eliminazione delle barriere al libero commercio e la maggiore integrazione tra le economie nazionali, possa essere una forza positiva e che abbia tutte le potenzialità per arricchire chiunque nel mondo, in particolare i poveri. Ma perché ciò avvenga, è necessario un ripensamento attento del modo in cui essa è stata gestita, degli accordi commerciali internazionali che tanto hanno fatto per eliminare quelle barriere e delle politiche che sono state imposte ai paesi in via di sviluppo durante il processo di globalizzazione. Da docente, quale sono, ho dedicato molto tempo alla ricerca e alla riflessione sui temi socio economici che mi sono trovato ad affrontare durante i miei sette anni a Washington. Penso sia importante valutare i problemi in maniera spassionata, mettendo da parte le ideologie e considerando gli elementi a nostra disposizione prima di decidere come agire. Sfortunatamente, anche se non c'è da stupirsene, nel tempo che ho trascorso in precedenza alla Casa Bianca, inizialmente come membro e come presidente del Consiglio dei consulenti economici - costituito da tre esperti nominati dal presidente degli Stati Uniti per fornire una consulenza economica ai dipartimenti del ramo esecutivo del governo - e in seguito alla Banca mondiale, ho visto spesso prendere decisioni basate sull'ideologia o sulla politica. Di conseguenza, sono stati stabiliti interventi sbagliati che, invece di risolvere il problema, favorivano chi aveva in mano il potere. L'intellettuale francese Pierre Bourdieu ha scritto che i politici dovrebbero dare al loro lavoro un'impostazione di tipo accademico, impegnandosi in un dibattito scientifico basato su prove e fatti concreti. Purtroppo, succede spesso l'esatto contrario quando gli accademici a cui vengono richieste consulenze in materia politica diventano essi stessi politicizzati al punto di forzare la mano alle teorie pur di adattarle alle idee di chi è al potere.

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Pagina XII

Le politiche dell'FMI, basate in parte sul presupposto logoro che i mercati, per loro stessa natura, operano in maniera efficiente, hanno impedito ai governi di intervenire sul mercato con provvedimenti e misure adeguati, capaci di guidare la crescita economica a beneficio di tutti. Il tema in discussione, in molti dei casi descritti in questo libro, erano le idee e le concezioni a proposito del ruolo del governo che derivano da quelle idee.

Sebbene abbiano avuto un ruolo importante nel delineare gli orientamenti economici in tema di sviluppo e di gestione sia delle crisi sia delle fasi di transizione, queste idee sono fondamentali nel mio pensiero anche per quanto riguarda la riforma delle istituzioni internazionali preposte a guidare lo sviluppo economico, gestire le crisi e facilitare la transizione economica. La mia ricerca sull'informazione mi ha reso particolarmente sensibile alle conseguenze che derivano dalla mancanza di informazione. Durante la crisi finanziaria del 1997-98 che ha colpito il mondo intero, mi ha fatto piacere vedere quanta importanza sia stata attribuita al tema della trasparenza, ma mi ha rattristato l'ipocrisia di istituzioni quali l'FMI e il Tesoro degli Stati Uniti, che mentre da una parte auspicavano la trasparenza nell'Est asiatico, dall'altra erano gli organismi pubblici meno trasparenti in cui mi fossi mai imbattuto.

[...]

Tuttavia, quando ho cominciato a occuparmi di questioni internazionali, ho scoperto che la buona economia e la buona politica non erano tenute in grande considerazione, soprattutto all'FMI. Le decisioni venivano prese sulla base di una curiosa miscela di ideologia e cattiva economia, un assioma che spesso celava solo velatamente interessi particolari. Quando sopraggiungevano le crisi, l'FMI prescriveva soluzioni «standard» sorpassate e inadeguate, senza considerare gli effetti che queste politiche avrebbero avuto sui paesi che dovevano adottarle. Raramente ho sentito fare previsioni delle conseguenze che queste politiche avrebbero avuto sulla povertà. Di rado ho assistito a discussioni o analisi attente delle conseguenze di eventuali politiche alternative. La ricetta era una, e unica. Non si cercavano né si chiedevano altre opinioni. Per il dibattito aperto e schietto non c'era spazio e veniva scoraggiato. Alla base delle indicazioni politiche c'era l'ideologia e i paesi dovevano seguire le direttive dell'FMI senza discutere.

[...]

Senza dubbio, qualche sofferenza era necessaria, ma, a mio modo di vedere, le tribolazioni patite dai paesi del Terzo mondo nel processo di globalizzazione e sviluppo, cosi com'è stato concertato dall'FMI e dalle ganizzazioni economiche internazionali, sono state di gran lunga piu gravi del necessario. La reazione violenta contro la globalizzazione ha tratto la propria forza non soltanto dal danno visibile arrecato ai paesi in via di sviluppo dalle politiche guidate dall'ideologia, ma anche dalle iniquità del sistema del commercio internazionale. Oggi, a parte chi ha interesse a tenere i beni prodotti dai paesi poveri al di fuori dei circuiti commerciali, sono in pochi a difendere l'ipocrisia di chi finge di aiutare i paesi in via di sviluppo obbligandoli ad aprire i loro mercati alle merci dei paesi industrializzati, mentre questi ultimi tengono i loro ben protetti attuando politiche che rendono i ricchi sempre piu ricchi e i poveri sempre piu poveri e arrabbiati.

I barbari attacchi dell'11 settembre ci hanno aperto improvvisamente gli occhi sul fatto che viviamo tutti sullo stesso pianeta. Siamo una comunità globale, e come tutte le comunità dobbiamo seguire alcune regole che ci permettano di convivere. Queste regole devono essere - ed essere considerate - eque e giuste, devono pensare tanto ai poveri quanto ai potenti ed essere animate dai principi fondamentali della decenza della giustizia sociale. Nel mondo di oggi, si deve arrivare a regole simili attraverso processi democratici. Le regole in base alle quali lavorano gli organismi e le autorità di governo devono andare incontro ai desideri e rispondere alle esigenze di tutti i soggetti coinvolti in politiche e decisioni che arrivano da lontano.

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Pagina 3

Capitolo primo

La promessa delle istituzioni globali


I burocrati internazionali - simboli senza volto dell'ordine economico mondiale - sono sotto accusa ovunque. Riunioni tra oscuri tecnocrati per discutere argomenti di ordinaria amministrazione quali prestiti agevolati o contingenti commerciali, che prima passavano del tutto inosservate, sono oggi teatro di violenti scontri di piazza e imponenti dimostrazioni. La contestazione di Seattle contro il vertice dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC/WTO) del 1999 ha provocato uno sconvolgimento profondo. Da allora, il movimento è cresciuto e la rabbia si è diffusa. Praticamente ogni riunione al vertice dell'FMI, della Banca mondiale e del WTO è accompagnata da scontri e disordini, e Carlo Giuliani, il dimostrante morto a Genova nel 2001, potrebbe essere il primo di una lunga serie di vittime della guerra contro la globalizzazione.

I tumulti e le contestazioni contro la politica e gli interventi delle istituzioni della globalizzazione non sono una novità. Per decenni, le popolazioni in via di sviluppo sono insorte quando i programmi di austerità imposti ai loro paesi si dimostravano troppo rigidi, ma in Occidente le loro proteste sono rimaste perlopiù inascoltate. La novità è rappresentata dall'ondata di contestazione nei paesi sviluppati.

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Pagina 13

Mezzo secolo dopo la sua fondazione, è chiaro che l'FMI ha fallito nella propria missione. Non ha fatto ciò che doveva fare, cioè fornire ai paesi afflitti da una contrazione economica fondi per consentirne la ripresa e aiutarli nel tentativo di avvicinarsi alla piena occupazione. Nonostante una conoscenza molto più approfondita dei processi economici rispetto a cinquant'anni fa, e malgrado gli sforzi compiuti dall'FMI negli ultimi venticinque anni, le crisi nel mondo sono sempre più frequenti e più gravi (fatta eccezione per la Grande depressione). Secondo alcune stime, sono quasi cento i paesi che si sono trovati ad affrontare delle crisi. Il fatto grave è che molte delle politiche sostenute dall'FMI, in particolare la liberalizzazione prematura dei mercati finanziari, hanno contribuito all'instabilità globale; nei paesi in crisi, i fondi e i programmi dell'FMI non solo si sono rivelati inadeguati a stabilizzare la situazione, in molti casi l'hanno addirittura peggiorata, specialmente per i poveri. L'FMI non solo ha fallito nella propria missione originaria di promuovere la stabilità globale, ma non è riuscito neppure nelle missioni che ha intrapreso in seguito, come guidare la transizione di alcuni paesi dal comunismo all'economia di mercato.

[...]

Le idee e le intenzioni che hanno animato la creazione delle istituzioni economiche internazionali erano buone, ma hanno subito un'evoluzione graduale nel tempo fino a trasformarsi completamente. L'orientamento keynesiano dell'FMI, che sottolineava i fallimenti del mercato e il ruolo dei governi nella creazione dei posti di lavoro, è stato sostituito dal ritornello del libero mercato degli anni Ottanta, nel contesto di un nuovo Washington Consensus - vale a dire un'identità di vedute tra l'FMI, la Banca mondiale e il Tesoro degli Stati Uniti circa le politiche «giuste» per i paesi in via di sviluppo - che ha segnato un approccio totalmente diverso allo sviluppo economico e alla stabilizzazione.

Molte delle idee del Consensus sono state sviluppate in risposta ai problemi dei paesi latino-americani i cui governi avevano perso qualsiasi controllo sul bilancio dello Stato a causa di politiche monetarie spregiudicate che avevano provocato un'inflazione dilagante. L'ondata di crescita registrata in alcuni di quei paesi nei decenni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale non si era stabilizzata, presumibilmente a causa di un eccessivo intervento nell'economia da parte dello Stato. Tali idee, nate per affrontare quelli che si suppone fossero problemi specifici dei paesi latino-americani, sono poi state giudicate applicabili a tutti gli altri paesi del mondo. É stata spinta la liberalizzazione dei mercati finanziari malgrado nulla dimostri che sia in grado di stimolare la crescita economica. In altri casi, le politiche economiche confluite nel Washington Consensus e poi introdotte nei paesi in via di sviluppo si sono rivelate inadeguate per le nazioni che si trovano in una fase iniziale dello sviluppo o della transizione.

Per citare solo qualche esempio, moltissimi paesi industrializzati ­ compresi gli Stati Uniti e il Giappone - avevano costruito le loro economie proteggendo saggiamente e in maniera selettiva alcuni settori industriali fino a quando non sono diventati abbastanza forti da poter competere con le aziende straniere. Il protezionismo generalizzato spesso non ha funzionato nei paesi che l'hanno sperimentato, come non ha funzionato neppure una troppo rapida liberalizzazione del commercio. Costringere un paese in via di sviluppo ad aprire le proprie frontiere a merci d'importazione che entrerebbero in competizione con quelle prodotte da alcune industrie locali, pericolosamente vulnerabili alla concorrenza di aziende straniere molto più forti, può avere conseguenze disastrose, sia sociali sia economiche. Sono stati sistematicamente distrutti posti di lavoro - gli agricoltori poveri dei paesi in via di sviluppo non potevano competere con le merci fortemente sovvenzionate provenienti dall'Europa e dall'America - prima che i settori industriali e agricoli di questi paesi siano stati in grado di consolidarsi e creare nuova occupazione. L'elemento ancora più grave è che l'insistenza dell'FMI affinché i paesi in via di sviluppo adottassero politiche monetarie rigide ha portato a tassi d'interesse che avrebbero reso impossibile la creazione di posti di lavoro persino in circostanze più favorevoli. E poiché la liberalizzazione del commercio è stata introdotta prima che fossero studiate delle reti di sicurezza, chi ha perso il lavoro è sprofondato nella povertà. Quindi, spesso, la liberalizzazione non è stata seguita dalla crescita promessa, ma da una miseria ancora più terribile e anche chi non ha perso il lavoro è stato colpito da una forte insicurezza.

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Pagina 16

Per molti questo ha significato povertà e per numerosi paesi caos sociale e politico. L'FMI ha commesso errori in tutti i campi in cui ha operato: sviluppo, gestione delle crisi e transizione delle economie nazionali dal comunismo al capitalismo. I programmi di adeguamento strutturale non hanno recato benefici neppure a quei paesi che, come la Bolivia, si sono sottoposti alle sue limitazioni; in molti paesi, l'eccessiva austerità ha soffocato la crescita. Per riuscire, un programma economico deve prestare la massima attenzione alla sequenza di realizzazione delle riforme e ai tempi. Se, per esempio, si aprono troppo presto i mercati alla concorrenza, prima cioè che vengano fondate istituzioni finanziarie forti, saranno più i posti di lavoro perduti che non quelli creati. In molti paesi, errori nella sequenza delle riforme e nei tempi di attuazione dei programmi hanno causato un aumento della disoccupazione e la povertà. Dopo la crisi asiatica del 1997, le politiche dell'FMI hanno aggravato la situazione dell'Indonesia e della Thailandia. Le riforme neoliberiste in America Latina hanno registrato un paio di successi - il Cile viene ripetutamente citato -, ma molti paesi del continente devono ancora recuperare il decennio di mancata crescita seguito ai cosiddetti salvataggi riusciti dell'FMI nei primi anni Ottanta. Pur avendo ridotto l'inflazione, molte nazioni latino-americane continuano ad avere livelli di disoccupazione molto elevati, come il tasso a due cifre che affligge l'Argentina dal 1995. La crisi argentina del 2001 è uno dei più recenti di una serie di fallimenti avvenuti negli ultimi anni. Dato il tasso elevato di disoccupazione che si è protratto per quasi sette anni, non c'è da stupirsi tanto del fatto che alla fine i cittadini siano insorti, quanto di come abbiano potuto soffrire in silenzio cosi a lungo. Anche i paesi che hanno registrato una certa crescita hanno visto poi andare i benefici nelle tasche dei benestanti, in particolar modo quel 1O per cento di persone già molto ricche, mentre la povertà è rimasta tale e, in alcuni casi, il reddito dei più sfortunati è addirittura diminuito.

Alla base dei problemi dell'FMI e delle altre istituzioni economiche internazionali c'è il tema della governance, cioè il modo in cui sono governate. Le istituzioni sono dominate non soltanto dai paesi industrializzati più ricchi, ma anche dagli interessi commerciali e finanziari di questi ultimi e le politiche delle istituzioni, ovviamente, riflettono tale situazione. La scelta dei capi di queste istituzioni simboleggia il problema delle istituzioni stesse e, molto spesso, ha contribuito al loro cattivo funzionamento. Sebbene quasi tutte le attività dell'FMI e della Banca mondiale si svolgano oggi nei paesi in via di sviluppo (di sicuro, tutta l'attività creditizia), entrambe le istituzioni sono guidate da rappresentanti delle nazioni industrializzate. (Per consuetudine o per un tacito accordo, il capo dell'FMI è sempre europeo e quello della Banca mondiale è sempre americano). Essi sono scelti in segreto e il fatto che il capo debba essere esperto delle problematiche dei paesi in via di sviluppo non è mai stato considerato fondamentale. Le istituzioni non sono rappresentative delle nazioni che servono.

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Pagina 33

Conoscere a fondo ogni economia del mondo è difficile anche per un'istituzione di medie dimensioni come l'FMI. Alcuni dei suoi più validi economisti furono incaricati di lavorare sugli Stati Uniti, ma mentre ero presidente del Consiglio dei consulenti economici ebbi spesso l'impressione che la scarsa conoscenza e comprensione dell'economia statunitense avesse portato l'FMI a formulare raccomandazioni fuorvianti per l'America. Per esempio, gli economisti dell'FMI ritenevano che negli Stati Uniti l'inflazione sarebbe salita non appena il tasso di disoccupazione fosse sceso sotto il 6 per cento. Secondo i modelli utilizzati dal Consiglio, quest'analisi era errata, ma le nostre osservazioni non li interessavano più di tanto. Avevamo ragione noi: la disoccupazione negli Stati Uniti scese sotto il 4 per cento, ma l'inflazione non aumentò. Basandosi sulla loro analisi erronea dell'economia statunitense, gli economisti dell'FMI formularono una ricetta sbagliata: aumentare i tassi d'interesse. Per fortuna, la Federal Reserve non prestò alcuna attenzione alle raccomandazioni dell'FMI. Altri paesi, però, non potevano permettersi di ignorarle tanto facilmente.

[...]

Purtroppo, i macroeconomisti ricevono spesso una formazione che non li prepara adeguatamente ai problemi che dovranno affrontare nei paesi in via di sviluppo. In alcune università a cui l'FMI attinge regolarmente per reclutare nuovo personale, i modelli studiati nei corsi principali non prevedono il fattore disoccupazione. Dopotutto, nel modello di concorrenza standard - quello alla base del fondamentalismo liberista dell'FMI - la domanda è sempre uguale all'offerta. Se la domanda di manodopera è uguale all'offerta, non c'è mai disoccupazione involontaria. Chiunque non lavori ha evidentemente scelto di non lavorare.

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Pagina 44

[...] Nel bel mezzo della crisi della Corea, alla Banca centrale coreana fu imposto non soltanto di essere più indipendente, ma anche di concentrarsi esclusivamente sull'inflazione, sebbene la Corea non avesse questo problema e non ci fossero ragioni per ritenere che la crisi potesse dipendere da una politica monetaria sbagliata. L'FMI sfruttò semplicemente l'occasione che la crisi gli aveva fornito per portare avanti il proprio programma. Quando, a Seul, chiesi ai funzionari dell'FMI le ragioni di quel comportamento, ricevetti una isposta spaventosa (sebbene a quel punto non avrei più dovuto stupirmi): insistiamo sempre che un paese debba avere una banca centrale indipendente che si concentri sull'inflazione. Questo era un tema che avevo particolarmente a cuore. Quando ero consigliere economico del presidente Clinton, respingemmo il tentativo di una senatrice della Florida, Connie Mack, di introdurre un emendaento allo statuto della Federal Reserve Bank che ne avrebbe ristretto il campo al controllo dell'inflazione. La banca centrale degli Stati Uniti (detta «Fed») ha il compito di occuparsi non soltanto dell'inflazione, ma anche dell'occupazione e della crescita. Il presidente era contrario al cambiamento e noi sapevamo che gli americani ritenevano, semmai, che la Fed si occupasse già troppo di inflazione. Il presidente chiari che si sarebbe opposto in ogni modo possibile e i sostenitori della modifica ritirarono immediatamente la proposta. Ma ecco che l'FMI - parzialmente controllato dal Tesoro degli Stati Uniti - impone alla Corea una condizione politica che la maggior parte degli americani avrebbe ritenuto inaccettabile per il proprio paese.

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Pagina 50

Oggi, malgrado si parli molto di apertura e trasparenza, l'FMI continua a non riconoscere formalmente ai cittadini il diritto fondamentale i sapere: non esiste alcuna legge sulla libertà d'informazione a cui un ittadino americano, o di qualsiasi altro paese, possa appellarsi per scoprire che cosa stia facendo questa istituzione internazionale pubblica. Vorrei essere chiaro: tutte queste critiche su come opera l'FMI non implicano che il denaro e il tempo di questo organismo vadano sempre sprecati. Talvolta, i finanziamenti sono andati a governi che stavano attuando politiche economiche valide, ma non necessariamente perché le avesse raccomandate l'FMI. Poi, il denaro ha fatto la differenza in positivo. Talvolta, la condizionalità ha spostato il dibattito all'interno del paese contribuendo a porre in atto politiche migliori. Le rigide tabelle di marcia imposte dall'FMI erano dovute in parte a passate esperienze in cui i governi promettevano di attuare determinate riforme, senza rispettare gli accordi, dopo aver messo le mani sui fondi; talvolta, queste tabelle di marcia hanno contribuito a forzare i tempi del cambiamento. Ma molto spesso la condizionalità non ha garantito né che il denaro venisse usato bene né che venissero introdotte nuove politiche significative e durature. Talora è stata addirittura controproducente, o perchéle politiche non erano adatte al paese in questione o perché il modo in cui venivano imposte creava ostilità nei confronti delle riforme. In altre occasioni, i programmi dell'FMI hanno lasciato i paesi poveri come li avevano trovati, ma con un debito maggiore e un'élite dominante ancora piu ricca.

Le istituzioni internazionali sono sfuggite a quel tipo di responsabilità etico-sociale che ci attendiamo dagli organismi pubblici nelle democrazie moderne. È arrivato il momento di «dare un voto» all'operato delle istituzioni economiche internazionali e di valutare se e in che misura abbiano contribuito a promuovere la crescita e a ridurre la povertà.

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Pagina 72

I tempi e la sequenza degli interventi.

Fra tutti gli sbagli grossolani commessi dall'FMI, gli errori che riguardano i tempi e la sequenza degli interventi e l'incapacità di dimostrarsi sensibile al contesto sociale in senso lato sono forse quelli su cui si è concentrata maggiormente l'attenzione: aver forzato i tempi della liberalizzazione prima che fossero predisposte le opportune reti di protezione, che fosse studiato un quadro normativo idoneo, che i paesi potessero affrontare le conseguenze negative degli improvvisi mutamenti di umore del mercato che sono parte integrante del capitalismo moderno; aver spinto politiche che hanno distrutto posti di lavoro prima che fossero state varate opportune misure a favore dell'occupazione; aver forzato la privatizzazione prima che esistesse un contesto concorrenziale e normativo adeguato. Molti errori nella sequenza degli interventi sono sintomatici di una sostanziale ignoranza dei processi politici ed economici - un'ignoranza che ha caratterizzato in particolare i fautori del fondamentalismo del mercato. Questi ultimi sostenevano che, una volta stabiliti i diritti di proprietà, tutto il resto sarebbe venuto da solo, comprese le istituzioni e le strutture giuridiche che fanno funzionare le conomie di mercato.

Dietro l'ideologia neoliberista c'è un modello, spesso attribuito ad Adam Smith, secondo cui la mano invisibile delle forze di mercato - vale a dire dell'interesse personale - guiderebbe l'economia sulla strada dell'efficienza collettiva. Una delle grandi conquiste dell'economia moderna è stata quella di dimostrare in che senso e in quali condizioni la conclusione di Smith è corretta. Si tratta di condizioni fortemente restrittive. In effetti, progressi recenti della teoria economica - sopraggiunti, ironia della sorte, proprio durante il periodo in cui venivano perseguite con maggiore accanimento le politiche del Washington Consensus ­ hanno dimostrato che ogniqualvolta l'informazione è imperfetta e i mercati sono incompleti, vale a dire sempre, e in particolar modo nei paesi in via di sviluppo, la famosa mano invisibile opera in maniera quanto mai imperfetta. È significativo sottolineare come esistano interventi governativi auspicabili che, in linea di principio, possono migliorare l'efficienza del mercato. Queste restrizioni sulle condizioni in cui i mercati risultano efficienti sono importanti - molte delle principali attività di un governo possono infatti essere considerate delle risposte alle relative imperfezioni del mercato. Ora sappiamo che se l'informazione fosse perfetta, i mercati finanziari svolgerebbero un ruolo di importanza secondaria e, di conseguenza, assumerebbe un'importanza secondaria anche la loro regolamentazione. Se la concorrenza fosse automaticamente perfetta, le autorità antitrust non avrebbero ragione di esistere.

Le politiche del Washington Consensus, tuttavia, si basavano su un modello di economia di mercato semplicistico, quello dell'equilibrio competitivo, in cui opera alla perfezione la mano invisibile di Adam Smith. Poiché in questo modello non c'è bisogno del governo - perché i liberi mercati, non controllati o vincolati, funzionano in modo perfetto - le politiche del Washington Consensus vengono talvolta definite «neoliberiste», in quanto basate sul «fondamentalismo del mercato» che altro non è se non un ritorno all'economia del laissez-faire propugnata nell'Ottocento. Dopo la Grande depressione e il riconoscimento di altri fallimenti del sistema di mercato, dalle profonde disuguaglianze alle città rese invivibili dall'inquinamento e dal degrado, i paesi industriali più avanzati hanno rifiutato queste politiche liberiste, sebbene rimanga sempre aperto il dibattito su quale sia il giusto equilibrio tra regolamentazione e libero mercato.

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Pagina 80

Priorità e strategie.

È importante considerare non soltanto quello che l'FMI mette in agenda, ma anche quello che lascia fuori. La stabilizzazione è in agenda, la creazione di posti di lavoro no. L'imposizione fiscale è in agenda, la riforma fondiaria no. Si trovano i soldi per salvare le banche, ma non per migliorare la scuola e i servizi sanitari e men che meno per salvare i lavoratori licenziati per l'effetto della cattiva gestione macroeconomica dell'FMI.

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Pagina 83

Non tutte le conseguenze negative che le politiche del Washington Consensus avrebbero avuto sui poveri erano prevedibili, ma ora sono chiare. Abbiamo visto come la liberalizzazione del commercio accompagnata da tassi d'interesse elevati sia una ricetta pressoché infallibile per distruggere posti di lavoro e creare disoccupazione a spese dei poveri. La liberalizzazione dei mercati finanziari non accompagnata da un'appropriata regolamentazione è un' altra ricetta quasi garantita per l'instabilità economica e può portare all'aumento, anziché alla diminuzione, dei tassi d'interesse rendendo così impossibile ai contadini l'acquisto delle sementi e dei fertilizzanti che potrebbero aiutarli a superare il livello di sussistenza. La privatizzazione, non accompagnata da politiche di regolamentazione della concorrenza capaci di impedire l'abuso dei poteri monopolistici, può provocare un aumento anziché una riduzione dei prezzi per i consumatori. L'austerità fiscale, perseguita ciecamente, nelle circostanze sbagliate, può portare a un aumento della disoccupazione e alla disgregazione del contratto sociale.

Se da una parte l'FMI ha sottovalutato i rischi per i poveri delle sue strategie di sviluppo, dall' altra ha anche trascurato i costi sociali e politici a lungo termine di provvedimenti che hanno devastato la classe media, arricchendo poche persone già al vertice, e sopravvalutato i vantaggi delle sue politiche ispirate al fondamentalismo del mercato. Da sempre, le classi medie sono state il gruppo che ha premuto per il primato della legge, per l'istruzione pubblica universale e per la creazione di una rete di tutele sociali. Questi sono elementi essenziali di un'economia sana e l'erosione della classe media ha portato a una concomitante erosione del sostegno a queste importanti riforme.

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Pagina 106

Le politiche «beggar thyself».

Di tutti gli errori commessi dall'FMI mentre la crisi dell'Est asiatico si diffondeva da un paese all'altro tra il 1997 e il 1998, uno dei più difficili da spiegare è stata l'incapacità del Fondo di riconoscere le importanti interazioni tra le politiche perseguite nei diversi paesi. Le politiche di contrazione condotte in un determinato paese non solo ne deprimevano l'economia, ma avevano anche effetti negativi sui suoi vicini. Continuando ad auspicare politiche di contrazione, l'FMI aggravò il contagio, vale a dire la diffusione della stasi congiunturale da un paese all' altro. A mano a mano che si indebolivano, i diversi paesi cominciarono a ridurre le importazioni dalle nazioni vicine trascinando anche queste nel baratro.

Si ritiene, in genere, che le politiche beggar thy neighbour degli anni Trenta abbiano svolto un ruolo di primo piano nella diffusione della Grande depressione. Ogni paese colpito da una fase discendente del ciclo economico cercava di sostenere la propria economia tagliando le importazioni e spostando la domanda dei consumatori sui prodotti interni. Per ridurre le importazioni, un paese poteva imporre tariffe doganali e procedere a svalutazioni competitive della moneta centrando cosi l'obiettivo di abbassare il costo delle merci nazionali e di aumentare quello dei prodotti esteri. Tuttavia, ogni paese che riduceva le importazioni finiva per «esportare» la crisi economica verso i paesi vicini, il che spiega l'origine del termine beggar thy neighbour.

L'FMI elaborò una strategia che ebbe un effetto ancora più deleterio delle politiche beggar thy neighbour che avevano devastato paesi di tutto il mondo durante la depressione degli anni Trenta. Disse infatti ai paesi che, nei periodi di contrazione economica, è necessario ridurre il disavanzo della bilancia commerciale che, addirittura, deve essere in attivo. Questo potrebbe essere logico se l'obiettivo principale della politica macroeconomica di un paese fosse quello di rimborsare i creditori esteri. Costituendo un «fondo di guerra» in valuta estera, qualsiasi paese sarà senz'altro in grado di pagare più agevolmente i propri conti - basta non fare caso alle conseguenze per la popolazione di quello o di altri paesi. Oggi, contrariamente a quanto avveniva negli anni Trenta, si esercitano pressioni enormi sui paesi affinché non ricorrano ad aumenti delle tariffe doganali o ad altre barriere commerciali allo scopo di ridurre le importazioni, neppure in periodi di recessione. L'FMI si scagliò anche contro ulteriori svalutazioni, ma l'obiettivo principale dei salvataggi era evitare un'ulteriore diminuzione del tasso di cambio. Questo fatto potrebbe sembrare strano, data l'apparente fiducia nei mercati dell'FMI: perché non lasciare che i meccanismi del mercato determinino i tassi di cambio, proprio come avviene per gli altri prezzi? Ma la coerenza intellettuale non è mai stata il forte dell'FMI e le sue preoccupazioni a senso unico circa il fatto che la svalutazione possa scatenare l'inflazione hanno sempre avuto il sopravvento.

[...]

Di tutti gli errori dell'FMI, questo è forse il più grave perché ha rappresentato il maggiore tradimento della sua stessa ragione di essere. Si era sí preoccupato del contagio - quel contagio trasmesso da un mercato finanziario all'altro attraverso le paure degli investitori - ma, come abbiamo visto, le politiche che ha portato avanti hanno reso questi paesi ancora più vulnerabili alla volatilità degli umori degli investitori. Un crollo del tasso di cambio in Thailandia avrebbe potuto preoccupare gli investitori sul mercato brasiliano. La parola di moda era fiducia. La mancanza di fiducia in un paese poteva portare a una mancanza di fiducia nei mercati emergenti. Ma, più in generale, l'opera dell'FMI in veste di psicologo del mercato ha lasciato molto a desiderare. Creare profonde recessioni con bancarotte diffuse e/o mettere in evidenza problemi cronici nella regione economicamente più vivace tra tutti i mercati emergenti non è certo una politica mirata a ripristinare la fiducia. Ma se anche fosse riuscita a ripristinare la fiducia, sarebbe stato opportuno sollevare alcune questioni: nel concentrare l'attenzione sulla salvaguardia degli investitori, l'FMI si era dimenticato delle popolazioni di quei paesi che avrebbe dovuto aiutare; nel preoccuparsi delle variabili finanziarie, come i tassi di cambio, si era quasi dimenticato dell'aspetto reale dell'economia. Insomma, aveva perso di vista la missione per la quale era nato.

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Pagina 219

Capitolo nono

La strada da percorrere


La globalizzazione, oggi, non funziona per molti poveri del mondo. Non funziona per gran parte dell'ambiente. Non funziona per la stabilità dell'economia globale. La transizione dal comunismo all'economia di mercato è stata gestita talmente male che, fatta eccezione per la Cina, il Vietnam e qualche paese dell'Europa orientale, la povertà è aumentata a dismisura e i redditi sono crollati.

Per alcuni la risposta è semplice: abbandonare la globalizzazione. Questo però non è fattibile, né auspicabile. Come ho già osservato nel capitolo I, la globalizzazione ha anche portato enormi vantaggi - il successo dell'Est asiatico è nato dalla globalizzazione, in particolare dalle opportunità commerciali e dalla maggiore facilità di accesso ai mercati e alla tecnologia. La globalizzazione ha migliorato le condizioni di salute e ha creato una società civile globale e attiva che combatte per ottenere piu democrazia e una maggiore giustizia sociale. Il problema non è la globalizzazione, ma come è stata gestita. Parte della questione è ascrivibile alle istituzioni economiche internazionali - l'FMI, la Banca mondiale e il WTO - che contribuiscono a stabilire le regole del gioco e i cui metodi, molto spesso, hanno servito gli interessi dei paesi industrializzati piu avanzati, e interessi particolari al loro interno, anziché quelli dei paesi del Terzo mondo. Ma il problema è anche un altro: molto spesso queste istituzioni hanno affrontato la globalizzazione con una mentalità troppo ristretta, ispirata a una visione particolare dell'economia e della società.

La richiesta di riforme è palpabile - dalle commissioni nominate dal Congresso degli Stati Uniti ai gruppi di eminenti economisti, finanziati da fondazioni, che scrivono rapporti sui cambiamenti nell'architettura finanziaria globale alle proteste che ormai caratterizzano praticamente ogni incontro al vertice internazionale. In risposta, è già stato introdotto qualche cambiamento. La nuova tornata di negoziati commerciali svoltasi nel novembre 2001 a Doha (Qatar), definita development round, non si è riproposta soltanto di aprire ulteriormente i mercati, ma anche di correggere alcuni squilibri del passato, e il dibattito che l'ha animata è stato molto piu vivace di quelli a cui eravamo abituati. L'FMI e la Banca mondiale hanno modificato la loro retorica - si parla molto di piu di povertà e, almeno in seno alla Banca mondiale, è in corso un sincero tentativo di «mettere il paese al posto di comando» dei programmi che essa svolge in varie nazioni del mondo. Molti critici sono scettici, ritenendo che le istituzioni internazionali abbiano preso atto della realtà politica e si siano rese conto della necessità di modificare la loro retorica per poter sopravvivere. Gli stessi critici dubitano però che l'impegno sia reale e non si sono rassicurati quando, nel 2000, è stata nominata numero due dell'FMI una persona che era stata chief economist della Banca mondiale durante il periodo in cui questa aveva abbracciato l'ideologia del fondamentalismo del mercato. Certuni nutrono talmente tanti dubbi in merito a queste riforme che continuano a richiedere azioni piu drastiche come l'abolizione dell'FMI, ma ritengo che questo non abbia senso. Se il Fondo monetario dovesse venire abolito, sarebbe quasi sicuramente ricreato sotto un'altra forma. Nei periodi di crisi internazionale, i capi di governo si sentono piu tranquilli, sapendo che qualcuno tiene in mano le redini della situazione e che un ente internazionale sta facendo qualcosa. Oggi, questo ruolo viene svolto dall'FMI.

Credo che la globalizzazione possa essere pensata in modo diverso, allo scopo di realizzare appieno il suo potenziale positivo, e ritengo che stituzioni economiche internazionali possano essere ristrutturate in maniera utile affinché questo possa avvenire. Ma per capire in che modo dovrebbero essere rimodellate queste istituzioni, è necessario comprendere perché hanno fallito, e tanto miseramente.

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