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| << | < | > | >> |IndicePsicoanalisi del mal di denti 7 Perché si diventa dentisti? 15 Alla ricerca del baco nel dente. Breve storia della professione odontoiatrica 23 Il dentista: cavadenti, mago o sciamano? 33 Un dentista a confronto con l'irrazionale 43 In che modo la psiche interagisce con il corpo? Considerazioni generali di psicosomatica. 63 I denti: segnalatori di disagio psichico? 83 Il dente e l'albero della vita: considerazioni biologico-mitologiche 101 Le nostre ragionevoli paure riguardo ai denti 147 Per concludere 151 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 15Alla ricerca del baco nel dente.
Breve storia della professione odontoiatrica
Il più antico documento che riferisca di trattamenti farmacologici relativi a denti e gengive è il Papiro Ebers dell'antico Egitto (datato intorno al 3700 a.C.), così chiamato perché fu scoperto da Georg Ebers a Luxor nel 1875. Circa intorno al 2500 a.C. troviamo presso i sumeri della Mesopotamia tavolette d'argilla che recano incise diverse prescrizioni di cura per il mal di denti, sia mediante farmaci e strumenti meccanici, sia tramite formule di scongiuro. Su quelle tavolette si avanza per la prima volta l'ipotesi che le affezioni dentarie abbiano origine dall'azione di un verme o di un baco presente nel dente. La credenza che ci fosse un verme a divorare un dente dall'interno si mantenne in molte zone fino al diciannovesimo secolo. Heinrich (1978) riferisce di ricette «contro i vermi» riportate dai manuali di medicina. E nelle campagne si sarebbero ancora mantenute vive formule di scongiuro di questo tipo: «Schwarzer Stein | dring durch Mark und Bein | versehr im Zahn die Würmelein.» Tra gli zingari della Bosnia pare esista la credenza in un demone del mal di denti, un verme a quattro teste, detto il «bitoso». A quanto pare, i dentisti cinesi sarebbero soliti mostrare ancora oggi ai propri pazienti un verme «a dimostrazione di averlo estratto dal dente malato». Nei manuali di medicina citati da Heinrich paiono molto attuali i consigli per combattere tali vermetti, poiché raccomandano l'impiego di mezzi astringenti o la bruciatura di fistole e di sacche di pus mediante strumenti arroventati (l'odierna cauterizzazione). Il verme non si limita a divorare i denti, ma anche il fegato, il cuore, lo stomaco, il cervello e le orecchie potrebbero essere infestati ognuno da un suo verme specifico. Risale probabilmente a quest'idea la ben nota credenza popolare relativa al «verme che sta dentro» rispetto a relazioni, per esempio, che spesso vengono logorate dall'interno (figura 2). Già ai tempi della Bibbia si era evidentemente consapevoli dell'importanza di avere denti sani come dimostrazione di energia e di forza vitale. Nel Primo libro di Mosè (49.12) Giacobbe predice al proprio figlio Giuda, colui che sarà lodato dai suoi fratelli, che avrebbe tenuto la mano sul collo dei suoi nemici, che sarebbe stato come un leone davanti al quale tutti i popoli si sarebbero inchinati. I suoi denti sarebbero diventati bianchi per il latte, mentre gli occhi – fatto forse deplorevole per una coscienza moderna – sarebbero stati «offuscati dal vino». Nel Secondo libro di Mosè (21) che illustra il Codice dell'Alleanza si dice che un servo o una serva vengono liberati in segno di risarcimento, qualora il padrone abbia causato loro la perdita anche di un solo dente. In modo meno gentile si comportavano intorno al 2000 a. C. gli assiri e i babilonesi i quali, per infliggere una punizione, estraevano i denti ai loro sottoposti. Di questo crudele costume i fenici si ricordarono nei secoli V e IV a. C., allorché introdussero le protesi: essi reimpiantavano negli alveoli dei ricchi signori i denti estratti ai loro schiavi e ve li fissavano con sottili fili d'oro. Come si legge in Matteo 5.38, Gesù raccomandava mitezza nei confronti di un simile costume. Non si deve ripagare dente per dente e non si deve opporre resistenza alla cattiveria. Durante le persecuzioni dei cristiani tante monache irremovibili si lasciarono strappar via tutti i denti. Alla fine però anche la Chiesa non disdegnò di appropriarsi di simili amabili metodi. Ancora nel tredicesimo secolo d. C. si usava «strappare i denti» quale supplizio inferto a certi prigionieri che avevano disobbedito ai precetti della Chiesa, come per esempio l'obbligo del digiuno (Heinrich 1978). Già intorno al 2700 a. C., nell'antica Cina si impiegava l'agopuntura nella cura delle affezioni dentarie. Mentre gli etruschi avevano sviluppato intorno ai secoli V e IV a. C. tecniche di fusione dell'oro per protesi dentarie già alquanto differenziate, volte principalmente a migliorare l'estetica o a eliminare problemi di fonazione, Ippocrate (460-370 a. C.) fu il primo ad analizzare i nessi esistenti fra le affezioni dentarie e lo stato di salute generale di un individuo. Egli ideò strumenti con cui eseguiva anche operazioni su mandibole e denti. Lo si potrebbe chiamare il «padre della medicina». Nel primo secolo d. C. fu soprattutto Celso a occuparsi non solo di affezioni dentarie, del loro trattamento e di tecnica dell'estrazione, ma addirittura di ortodonzia, cioè di correzione dei denti mal posizionati. Nei suoi scritti, Plinio il Vecchio trattò di igiene orale, di alito cattivo e anche della correzione di malocclusioni. Cento anni più tardi fu Galeno ad avanzare l'ipotesi che le affezioni dentarie derivassero da processi infiammatori. Con i dati delle sue ricerche sulla fisiologia e con i suoi esperimenti sugli animali, Galeno pose le basi per molti dei successivi sviluppi della medicina moderna. Oggi lo definiremmo un «medico olistico», provvisto di un ampio retroterra filosofico e scientifico. Egli scoprì l'autonomia dell'attività cardiaca, la funzione della circolazione polmonare e i relativi processi di metabolismo. | << | < | > | >> |Pagina 63I denti: segnalatori di disagio psichico?
In confronto con altre discipline mediche, la lette-
ratura psicosomatica in ambito odontoiatrico è estremamente ridotta. Quando,
alcuni anni or sono, in una
grande biblioteca annessa alla clinica odontoiatrica dell'università, volli
prenderne visione, m'imbattei subito
in una malcelata diffidenza da parte della collega, che
pure veniva considerata persona esperta e competente.
Rimase anzitutto in silenzio per qualche attimo, poi rispose controvoglia: «Ma è
ovvio che ogni mal di denti è
sempre provocato da una carie!» È probabile che mi considerasse un perfetto
idiota. Anche nella pratica odontoiatrica ci si attiene come sempre a una
visione fisiologica, meccanicistica, sempre più eziologica dei disturbi
che compaiono in ambito dentario oro-mascellare. Negli ultimi sessant'anni però,
alcuni studiosi hanno cercato di arrivare a una visione più globale dei
disturbi; tra questi ricercatori si è distinto in particolare W. Balters,
a partire dal 1949, allorché a Milano e a Bologna è stata
introdotta la
psicodonzia
quale disciplina curriculare della specializzazione in odontoiatria. Tale
disciplina pare tuttavia non essersi ancora diffusa in maniera rilevante.
Anche Luban-Plozza e Pöldinger nel 1977 menzionano
i sintomi psichici considerandoli esclusivamente come
conseguenze di disturbi in ambito dentale e oromascellare. Questi due studiosi
parlano in particolare di reazioni psichiche conseguenti alla perdita dei denti
e alla relativa compromissione dell'aspetto fisico, del peggioramento della
masticazione, della difficoltà di adattamento alle protesi che si sono rese
necessarie; emergerebbero sensi di colpa per aver omesso di prendersi
tempestivamente cura dei propri denti. Essi stabiliscono anche collegamenti con
malocclusioni e naturalmente con il già
descritto fenomeno della paura del dentista e con le sofferenze che ci si
attende di patire nel suo studio. In base
alla mia esperienza personale posso confermare pienamente l'osservazione di
Herrmann secondo cui nella
pratica odontoiatrica quotidiana le carie, la parodontosi e le anomalie nella
posizione dei denti o nell'occlusione «continuano a essere considerate disturbi
di origine esclusivamente batterica, ereditaria costituzionale».
Estrarre il dente o stare ad ascoltarlo? Nei primi quindici anni della mia attività odontoiatrica anch'io ero solito attenermi agli insegnamenti ricevuti all'università. Per esempio in presenza di un forte mal di denti, con dolori lancinanti, fitte, pulsazioni violente scatenate da agenti termici chimici o meccanici, oppure anche insorti spontaneamente, solevo devitalizzare il dente che il paziente m'indicava essere il colpevole e chiuderne i canali, oppure estrarlo. Mi comportavo per così dire «lege artis», e questo alla fin fine corrispondeva, da un lato, alle indicazioni dei manuali e, dall'altro, alle attese del paziente. Il paziente odontoiatrico si attende di essere liberato dal dolore il più in fretta possibile e una volta per tutte grazie a metodi indolori. Non si aspetta affatto di essere tormentato da domande sul suo stato di salute psichico. Quella non è cosa che competa al suo dentista. E nella maggior parte dei casi pare che un simile modo di procedere dia anche buoni risultati.
È interessante notare, però, che questo modo di procedere pare ottenere
buoni risultati anche se il dentista non è assolutamente certo che il dente
incriminato, a detta del paziente, sia la vera causa del disturbo.
Questa esperienza ha in sé qualcosa di allettante, nonostante tutti i dubbi a
renderla una prassi di routine.
Anche se la cura non porta a un miglioramento duraturo, si riesce perlopiù a
trovarvi una spiegazione. Mal che vada, s'individua ancora un altro dente che
potrebbe essere incriminato, sebbene si potrebbero nutrire dei
dubbi anche su quello. Qualora esista una buona relazione tra dentista e
paziente, i due collaborano persino
a perpetuare l'inganno. Le confusioni che spesso si producono non modificano
però in nulla la stupefacente
esperienza irrazionale che ci mostra come i dolori di origine ignota possano
effettivamente scomparire «purché si faccia qualcosa, qualunque cosa».
L'intervento deve in apparenza avere un risvolto pratico. Già la semplice
«dedizione partecipe» che si può sperimentare nell'intervento del nostro
dentista di fiducia parrebbe poter fare miracoli. A riscuotermi bruscamente da
questa tranquilla routine fu però un caso, che mi capitò negli
ultimi cinque anni della mia attività odontoiatrica.
Ma il dente del giudizio è sano! Una signora cinquantenne piuttosto in gamba, madre di due ragazzi, uno di tredici e l'altro di quindici anni, era venuta da me perché da qualche giorno era tormentata in continuazione da dolori lancinanti, della durata di qualche secondo, che interessavano l'intera parte destra del viso. La sensibilità di questa zona si era acuita a tal punto che bastava anche solo sfiorarle la pelle della guancia per scatenare un attacco che la paziente definiva «terrificante». Non si azzardava più a toccare cibo, figuriamoci poi a mettersi la protesi che le sostituiva una parte dei denti superiori. La colpa era del dente del giudizio superiore destro: in proposito lei non aveva alcun dubbio. L'inevitabile visita scatenò subito un attacco del tipo da lei descritto. Il viso della paziente divenne paonazzo, e lei si afferrò con le mani il lato della testa colpito, emettendo forti gemiti e quasi andando fuori di sé per il dolore. Il dente in questione invece dava l'impressione di essere assolutamente sano; fino a quel momento non aveva mai avuto bisogno di cure. Dopo che la paziente si fu un poco ripresa dall'attacco, le domandai in quale circostanza si fossero manifestati per la prima volta quei disturbi. Rispose che erano arrivati all'improvviso. Aveva avuto da dire con i figli, perché non s'impegnavano abbastanza per la scuola. In realtà non ce ne sarebbe stato bisogno, assicurò. Ma, con i giovani d'oggi, una madre doveva badare per tempo che i figli incominciassero a lavorare in modo disciplinato. Altrimenti si sapeva già come sarebbe andata a finire. Ai suoi tempi, quando era giovane, lei doveva lavorare, era stata trattata con maggiore severità e ne era ancora grata ai suoi genitori. Dopo le ore di scuola, che erano comunque parecchie, e dopo i compiti a casa, costringeva con la massima «severità» i figli a eseguire compiti aggiuntivi, che lei controllava poi personalmente. La loro resistenza nei confronti di quei compiti era dettata da pura ingratitudine e non andava tollerata in alcun modo. Quando osai cautamente ventilare l'esistenza di una possibile coincidenza tra la comparsa della nevralgia e le pressioni educative, dovetti immediatamente constatare che ero finito su una pista assolutamente sbagliata. Poco ci mancò che mollasse un ceffone anche a me. Lei non era venuta da me perché le insegnassi come doveva comportarsi con i suoi figli adolescenti! Avrei fatto meglio invece a toglierle il dolore, come era mio compito. Nella vita le era spesso capitato di arrabbiarsi, senza che per questo le venissero dei dolori del genere. Io dicevo cose assolutamente ridicole. | << | < | > | >> |Pagina 80Molti pazienti lamentano oggi giustamente che non si presti attenzione e non venga dato né tempo né spazio alla relazione tra medico e paziente. E questa forse una delle «benedizioni» della medicina «sociale», che impone un atteggiamento manageriale anche in ambito medico, a detrimento di un calore istintivo.Tutte le volte che un aspetto umano si istituzionalizza, ciò comporta di regola un inaridimento spirituale. L'essere umano – e questo vale tanto per il medico quanto per il paziente – diventa mero oggetto di ragionamenti economici. Entrambi devono assoggettarsi alle leggi della statistica. Per provare l'esistenza di collegamenti tra i denti e gli stati psichici o determinate modalità di comportamento potrà forse esserci di aiuto rifarci ad alcuni modi di dire. Queste espressioni sono probabilmente già così connaturate nelle nostre consuetudini linguistiche che non ne consideriamo più la dimensione reale. A volte dobbiamo «pigliarla coi denti», nel senso di affrontare risolutamente un'impresa difficile, nella speranza di farci «strada coi denti». È necessario «stringere i denti», per sopportare una sofferenza, per superare la paura e così via. E a uno che se l'è presa «sui denti», si «mostrano i denti», talvolta «armati fino ai denti», per agire alla fine «dente per dente». Talvolta ci si accontenta anche di dire a qualcuno le cose «fuori dai denti» e di «togliergli il dente», che gli faceva venire idee impossibili. Può darsi che lui dica poi: «Questo dente non mi duole più», per indicare che per lui tale questione è chiusa. Quanto poi si prova conforto, se si ha la fortuna di incontrare una ragazza focosa (steile Zahn, ovvero «dente robusto»), che solo a guardarla par che faccia scorrere nuova linfa vitale nelle vene, nella misura in cui non abbia però il «dente avvelenato». Ma anche nella migliore delle relazioni, il «dente del tempo» (Zahn der Zeit) lavora talvolta a guastare le cose, e bisogna poi «restare a denti asciutti» oppure cercare «pane per i nostri denti», per uscire da una situazione che ci è divenuta sgradevole. Quando ci serviamo di simili o analoghe immagini spesso non sappiamo che esse esprimono le autentiche esperienze psichiche che ne sono all'origine. Nelle situazioni in cui ne facciamo uso, esse esprimono i sentimenti che ci muovono a livello più profondo. | << | < | > | >> |Pagina 98La nostra civiltà non ha più mantenuto nessun rito di tal genere. Anzi, è persino quasi convinta della loro assurdità. La sofferenza è considerata sostanzialmente come una malattia e nessuno riesce a immaginarsi che invece essa potrebbe rivelarsi un motore di crescita. Nell'educazione, le punizioni dolorose dal punto di vista fisico sono malviste e vengono considerate con disprezzo come un abuso di potere da parte di individui autoritari. Non si crede più che sia necessario sacrificarsi volontariamente per poter sviluppare la propria personalità, né lo si pratica più, anche se oggi sarebbe più necessario che mai. Noi razionalizziamo a tutto spiano gli atti d'autonomia della natura, raramente però a nostro vantaggio; non ci rendiamo conto, infatti, di essere a nostra volta imprigionati in un sistema che ritenevamo migliore di quello della natura, ma che il più delle volte si rivela alla lunga peggiore. I sistemi che abbiamo creato in questo modo stanno per inghiottirci. Le tendenze alla dipendenza si trovano in conflitto con le tendenze all'autonomia e creano in tantissime persone un'ambivalenza nevrotica che spesso viene ancora fraintesa e considerata come un fatto culturale. Per evitarci a tutti i costi di compiere dei sacrifici, ci procuriamo infermità prolungate, perdiamo il controllo del sociale, e ciò ci porta ad avvelenare sempre più il nostro pianeta. Con tutti i mezzi moderni distruggiamo deliberatamente la vita, ci sentiamo a posto sul piano sociale e indulgiamo al Principio Speranza.Spesso abbiamo bisogno della malattia per poter prestare attenzione al fatto che nei nostri atteggiamenti c'è qualche aspetto essenziale che non quadra. Lo studioso tedesco di psicosomatica Jores ha individuato un legame diretto tra crescita della personalità e malattia. Spesso le malattie portano delle iniziazioni, ma in una maniera assai più crudele di quanto non facciano i dolorosi rituali dei cosiddetti «primitivi». Ma quand'anche questo dovesse accadere, si tratta pur sempre di una vera fortuna. Le malattie, infatti, arrivano quando vogliono. I rituali invece finalizzano delle energie a una determinata meta e disciplinano le forze per raggiungerla. Non tutti possiedono le già citate doti di un Norman Cousins. Il moderno stato sociale ha esaurito tutte le possibilità immaginabili per consentire, mediante i miglioramenti dei servizi sociali e dispensandoci al massimo da ogni forma di disciplina e di responsabilità individuali, quel processo che viene definito sotto il profilo statistico «sviluppo della personalità». Stranamente però il numero di coloro che soffrono di disturbi fisici e psichici ha continuato a crescere in proporzione, ed è anche aumentato il fenomeno dell'invalidità precoce. Nel crescente ridursi delle relazioni interumane e collettive neppure le più raffinate tecniche di comunicazione riescono a migliorare le cose. | << | < | > | >> |Pagina 119Quel dente non era poi così sanoUna casalinga quarantaquattrenne, madre di tre figli, fece questo sogno: «Qualcuno mi fa notare che uno dei miei incisivi superiori è cariato. Mi ricordo che il dottor Strobel è un dentista e spero che si occupi presto di questo guasto.» Nella realtà diurna la sognatrice poteva rallegrarsi di avere denti sanissimi. Non c'era motivo di pensare che avesse un incisivo cariato. Ma il sogno diceva proprio questo. Si trattava di qualche «guasto» che lei non si fidava a riparare da sola, ragion per cui dovevo farmene carico io. Evidentemente si aspettava da me un aiuto pratico, più che morale o analitico, perché lei si rivolgeva a me in quanto dentista. «Qualcuno» le aveva fatto notare che c'era qualcosa di marcio («cariato»). Questo «qualcuno» corrisponde forse alla nostra voce interiore che spesso trascuriamo, che però ci fa dire post festum: «Me lo sentivo...», oppure «Forse avrei dovuto...». L'inconveniente andava cercato nei denti incisivi superiori, dunque nell'ambito femminile, come si ricava dal significato simbolico della mascella superiore, ossia nell'ambito di ciò che «accoglie», che «si offre». Le dissi allora: «La mascella superiore costituisce l'elemento femminile, statico-potenziale, che si offre come antagonista alla mandibola, la quale si comporta in maniera attiva, dinamico-maschile.» Dove risiede la potenzialità del «femminile»? Nell'accogliere, nell'istinto di scegliere ciò che è pertinente, nel generare, nel donare e nel prendere, tutti comportamenti propri dell'Eros. Ascoltando il sentimento spontaneo, l'aspetto femminile crea relazioni, dà ispirazione, seduce o respinge. E, fatalmente, al materno si unisce anche il più scatenato elemento orgiastico. A cariarsi era stato un dente incisivo, come abbiamo già detto; e gli incisivi fanno parte della facciata, del visus di una persona, del ruolo che essa rappresenta o che vuole rappresentare, dell'immagine dunque con cui essa protegge anche la sua intimità. Al tempo stesso è proprio con gli incisivi che si addenta, che si trancia a morsi, che si procede per così dire in maniera analitica, che ci si rende indipendenti, morsicando o facendosi strada con le unghie e coi denti, e che si mostra la propria forza o si richiama all'ordine colui di fronte al quale si mostra grinta. Se tutto è a posto, si ha una «bella» faccia e la personalità mostra una forza sana. Qui c'era un «guasto», evidentemente sanabile, eppure un guasto che doveva essere riparato «presto». Quale poteva essere il problema?
La signora aveva incontrato a un party un uomo
estremamente attraente, anche lui sposato. Dopo aver
fatto qualche ballo insieme, erano entrati in confidenza e si erano follemente
innamorati l'uno dell'altra.
L'uomo le aveva già telefonato qualche volta per chiederle di rivedersi. C'erano
state lunghe telefonate, in
momenti in cui il marito della donna era fuori casa e
i bambini erano a scuola. Alla fine il suo spasimante
aveva prenotato una camera d'albergo per un incontro
galante. La donna, travolta dagli eventi, aveva accettato. Adesso però si faceva
degli scrupoli. Dove avrebbe potuto portare la cosa? Lo spasimante sembrava
essersi preso una cotta coi fiocchi! E lei ne era rimasta
lusingata e senza dubbio questo le faceva nascere la voglia di un rapporto
vissuto al di fuori della solita routine. Ma si trattava di un uomo molto noto
in città e, se qualcuno l'avesse vista, ne sarebbe nato uno scandalo.
Non era fantastico che lui volesse rischiare la propria
reputazione per causa sua? In fin dei conti lei non era
poi più tanto giovane! D'altro canto non intendeva assolutamente mettere a
repentaglio il proprio matrimonio! Che cosa sarebbe successo, se avesse
accettato il rendez-vous all'albergo? La situazione era imbarazzante. E chissà
che cosa avrebbe pensato lui! L'ambivalenza era perfetta, e la notte seguente
alla telefonata arrivò il sogno.
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