Copertina
Autore Elizabeth Strout
Titolo Amy e Isabelle
EdizioneFazi, Roma, 2010 [2000], Le strade 169 , pag. 474, cop.fle., dim. 14x21,2x3 cm , Isbn 978-88-6411-096-7
OriginaleAmy & Isabelle [1998]
PrefazioneValeria Parrella
TraduttoreMartina Testa
LettoreGiovanna Bacci, 2010
Classe narrativa statunitense
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

1



Faceva un caldo terribile l'estate che il professor Robertson lasciò la città e per molto tempo il fiume fu soltanto una cosa piatta stesa lì, al centro della città, come un serpente marrone morto, con la schiuma giallastra a raccogliersi sulle sponde. Gli automobilisti di passaggio sull'autostrada, nel sentire quell'odore soffocante di zolfo, tiravano su i finestrini e si chiedevano come si potesse vivere con quella razza di fetore che esalava dal fiume e dallo stabilimento. Ma gli abitanti di Shirley Falls ci erano abituati, e anche in quel caldo terribile ci facevano caso solo appena svegli; no, a loro l'odore non dava particolarmente fastidio.

Quello che dava fastidio alla gente, quell'estate, era che il cielo non era mai azzurro e sembrava invece che la città fosse stata avvolta in una garza sudicia, una benda che ricacciava indietro qualunque raggio di sole tentasse di penetrarla, impediva il passaggio a qualunque cosa fosse quella che dava agli oggetti i loro colori e lasciava una vaga piattezza sospesa a mezz'aria: era questo che dava sui nervi alla gente, quell'estate, che la rese inquieta, dopo un po'. E c'era anche dell'altro: più a monte, lungo il fiume, qualcosa non andava nei raccolti: i fagiolini erano piccoli, avvizziti già sulla pianta, le carote smettevano di crescere quando non erano ancora più lunghe delle dita di un bambino, e, a quanto pareva, c'erano stati due avvistamenti di UFO nel nord dello Stato. Secondo voci ufficiose, il governo aveva anche mandato qualcuno a fare indagini.

Nell'ufficio della fabbrica, dove un gruppetto di donne passava le giornate a smistare fatture, archiviare copie di documenti, attaccare francobolli sulle buste con un pugno, per qualche tempo si fece un parlare inquieto. Alcune pensavano che stesse arrivando la fine del mondo, e anche quelle che non erano così drammatiche dovevano ammettere che forse non era stata una buona idea mandare gli uomini nello spazio, e che in effetti non avevamo il diritto di andarcene a spasso lassù sulla luna. Ma il caldo non dava tregua e sembrava che i rumorosi ventilatori poggiati sui davanzali non avessero il minimo effetto, e alla fine le donne, esaurite le forze, restavano sedute con le gambe leggermente aperte alle loro grosse scrivanie di legno a rialzarsi i capelli sulla nuca. Dopo un po', l'unica cosa che più o meno riuscivano a dire era: «Non ci si crede».

Un giorno il capufficio, Avery Clark, le aveva mandate a casa prima, ma poi c'erano state giornate ancora più calde senza che si parlasse più di uscite anticipate, perciò, a quanto pareva, la cosa non si sarebbe ripetuta. A quanto pareva, ci si aspettava che stessero semplicemente lì sedute a soffrire, e loro quello facevano. La stanza tratteneva tutto il calore. Era una stanza grande, con il soffitto alto e il pavimento di legno che scricchiolava. Le scrivanie erano sistemate a coppie, una di fronte all'altra, due a due per tutta la lunghezza della stanza. Lungo le pareti erano allineati schedari di metallo; su uno stava appoggiato un filodendro, con i tralci raccolti e attorcigliati come il vasetto di argilla di un bambino, anche se certi sfuggivano dal viluppo e scendevano quasi fino a terra. Era l'unica cosa verde nella stanza. Erano rimaste un po' di begonie e una pianta di erba miseria vicino alle finestre, ma erano tutte secche e marroni. Ogni tanto l'aria calda mossa da uno dei ventilatori staccava dolcemente una foglia morta e la faceva cadere a terra.

In questa atmosfera di spossata apatia, una donna stava in disparte dalle altre. Per essere più precisi, stava seduta in disparte dalle altre. Si chiamava Isabelle Goodrow e dal momento che era la segretaria di Avery Clark la sua scrivania non ne aveva un'altra di fronte. Di fronte aveva, invece, le pareti a vetri dell'ufficio di Avery Clark in persona, ufficio che consisteva in una bizzarra struttura di pannelli di legno e ampie lastre di vetro (per permettergli, apparentemente, di tenere d'occhio le sue impiegate, anche se lui di rado alzava gli occhi dalla scrivania) e che era comunemente indicato come «la vaschetta del pesce». Essere la segretaria del capo conferiva a Isabelle Goodrow uno status diverso da quello delle altre donne che lavoravano nella stanza, ma lei era diversa comunque. Per esempio, era vestita in maniera impeccabile: anche con quel caldo, portava i collant. A prima vista poteva sembrare graziosa, ma in effetti a guardarla più da vicino il suo aspetto non si poteva definire se non "comune". Comuni erano, di certo, i suoi capelli, sottili e bruni, tirati indietro in uno chignon o in una crocchia ritorta. Questa acconciatura la faceva sembrare più vecchia, oltre a darle quasi un'aria da maestrina saccente, e nei suoi occhi piccoli e scuri c'era un'espressione di costante meraviglia.

Mentre le altre donne tendevano a sospirare di continuo, o a fare viaggi avanti e indietro fino al distributore di bevande, lagnandosi per il mal di schiena e i piedi gonfi, raccomandandosi l'un l'altra di non sfilarsi le scarpe, perché poi non saresti riuscita a infilartele di nuovo neanche con tutta la buona volontà, Isabelle Goodrow se ne stava tranquilla. Isabelle Goodrow sedeva semplicemente alla sua scrivania, con le ginocchia unite, le spalle indietro, e batteva a macchina a velocità costante. Aveva un collo un po' particolare. Sembrava troppo lungo per una donna di bassa statura come lei e si ergeva dal colletto della camicia come il collo del cigno che, quell'estate, era stato visto galleggiare perfettamente immobile sul fiume morto, vicino alle sponde orlate di schiuma.

O, almeno, era così che il collo di Isabelle appariva a sua figlia Amy, una ragazza che quell'estate compiva sedici anni, la quale ultimamente aveva preso a detestare la vista del collo di sua madre (nonché la vista di sua madre, punto), e a cui comunque quel cigno non era mai piaciuto. Per molti versi Amy non assomigliava a sua madre. Se i capelli della madre erano opachi e sottili, quelli di Amy erano biondi, folti e pieni di riflessi. Anche tagliati corti, come li portava ora, scalati sotto le orecchie, davano subito l'impressione di essere sani e forti. E Amy era alta. Aveva le mani grandi, i piedi lunghi. Ma negli occhi, che erano più grandi di quelli della madre, aveva spesso la stessa espressione di esitante meraviglia, e quest'aria sorpresa talvolta provocava disagio nella persona su cui quegli occhi si fissavano. Anche se Amy era timida e raramente teneva a lungo gli occhi fissi su qualcuno. Era più portata a lanciare occhiate rapide e voltare subito la testa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 73

Fat Bev, gettando il cartone vuoto di succo d'arancia nel cestino di metallo, dove atterrò con un tonfo sordo rompendo il silenzio della stanza, si passò sulla bocca il dorso della mano e lanciò un'occhiata ad Amy, dall'altro lato della scrivania. Le dispiaceva per quella ragazza. Bev aveva cresciuto tre figlie sue, e pensava che Amy fosse una ragazza strana – il suo viso era privo di una qualche sorta di emozione. Non che non fosse di una noia mortale, lavorare in una stanza infuocata con un gruppo di donne di mezza età. (Si fece vento con la rivista che Rosie Tanguay le aveva gettato sulla scrivania quella mattina, dicendole con disinvoltura: «C'è un articolo interessante qui, Bev, parla della dipendenza da una serie di sostanze». Quell'imbecille di Rosie, che a pranzo mangiava carote). Ma in questa Amy, pensava Bev, osservandola con discrezione mentre si sventolava, c'era qualcosa che non andava, qualcosa di più di un semplice lavoro noioso in una stanza infuocata.

Per esempio, non masticava la gomma. Le figlie di Bev avevano masticato chewing-gum costantemente, spostandosene grosse pallette in giro per la bocca, facendo schiocchi, bolle, scoppi, dando sui nervi a tutti quanti. Roxanne, la più piccola, che ora aveva ventun anni, lo faceva ancora. Bev non la vedeva mai senza la gomma in bocca quando tornava a casa il sabato per usare la lavatrice, con tracce di trucco sbavato intorno agli occhi, residuo di qualche festa della sera prima.

E c'era anche qualcos'altro, a pensarci bene. Amy Goodrow non si truccava. Avrebbe dovuto, invece. Avrebbe fatto voltare la testa a un bel po' di gente, se si fosse messa un filo di ombretto, o scurita leggermente le ciglia col mascara. Ma non ci avrebbe tenuto, lei, a far voltare la testa alla gente, rifletté Bev mentre cercava le sigarette: era terribilmente timida, quella ragazza, sempre a chinare la testa come un cane che sta per ricevere una sberla sul naso. Era un peccato. Ma sembrava che non le interessassero neanche lo smalto o i profumi, e a quale ragazzina non interessavano certe cose? Non sfogliava mai una rivista, mentre stava lì seduta alla scrivania, non parlava mai di vestiti, non aveva mai usato il telefono per chiamare un'amica, neanche una volta. «Fa' un colpo di telefono a qualcuno», le aveva detto Fat Bev un giorno particolarmente caldo, quando la ragazza era visibilmente annoiata; ma Amy aveva scosso la testa. «No, grazie, sto bene così», aveva detto.

Be', non era mica normale.

E cos'era questa storia dei capelli? Quale ragazza sana di mente si sarebbe tagliata una chioma di capelli ondulati così deliziosa? Ah, tutte le ragazze attraversavano certe fasi, Bev questo lo sapeva. Sua figlia maggiore si era tinta i capelli di rosso e per un po' era andata in giro che sembrava un pagliaccio, e Roxanne continuava a farsi delle permanenti orrende, e a mugugnarci su per settimane. Ma tagliarsi quei capelli! E poi ora erano tutti incasinati, senza neanche una forma decente che le si adattasse al viso. Onestamente, a Fat Bev certe volte venivano i brividi, a guardare quei capelli tutti spunzoni, come quelli di una malata sotto chemioterapia, o che fosse stata esposta a qualche radiazione, o cose simili. Assomigliavano ai capelli di Clara Swan dopo che era stata su a Hannover a farsi quelle cure. Be', non proprio. Ad Amy non mancavano intere ciocche dalla testa. Era solo un brutto taglio di capelli. Un terribile esempio di errore di valutazione.

Bev si accese una sigaretta; pensare al cancro la rendeva nervosa. Clara Swan aveva solo quarantatré anni; però il suo era un tumore al cervello, non ai polmoni. Un tumore al cervello poteva capitare a chiunque, dovevi solo affidarti alla sorte. Se quello che l'aspettava era un tumore al cervello, Bev preferiva almeno divertirsi finché era in tempo. Espirò, agitando la mano grassoccia attraverso il fumo. In sala mensa, Rosie Tanguay aveva detto: «Non capisco perché ci sia ancora chi vuole fumare, dopo tutti gli studi che sono stati fatti».

Studi. Rosie Tanguay poteva prendere gli studi e ficcarseli su per quel suo culetto secco. Bev sapeva perché fumava. Fumava per lo stesso motivo per cui mangiava: per avere qualcosa da pregustare con piacere. Era semplicemente questo. La vita poteva diventare molto noiosa e dovevi trovarti qualcosa che non vedevi l'ora di fare. Nei primi tempi del loro matrimonio, quello che non vedeva l'ora di fare era stato andare a letto con suo marito, Bill, ogni notte in quel piccolo appartamento troppo caldo su Gangover Street. Ragazzi, quanto se la spassavano. La ripagava di tutto: i battibecchi sulle questioni di soldi, i calzini sporchi, le gocce di pipì davanti al water: tutte quelle piccole cose a cui ci si deve abituare quando ci si sposa; nessuna aveva importanza, quando si andava a letto.

Strano, che qualcosa di tanto bello potesse esaurirsi. Ma così era stato. Bev aveva più o meno perso interesse alla cosa dopo la nascita della prima bambina. Aveva cominciato a darle fastidio che Bill avesse ancora voglia di farlo ogni notte, con quell'affare rigido sempre in mezzo. Era perché lei si sentiva spossata e la bambina non faceva che piangere. E anche i suoi seni erano diversi, dopo che quella creaturina rabbiosa li succhiava fino a spaccarle i capezzoli; e non aveva mai perso il peso. Pareva che il corpo le restasse gonfio e, Dio mio, era di nuovo incinta. Così, proprio in un periodo in cui la casa e la vita le si stavano riempiendo, lei aveva provato un'insopprimibile sensazione di perdita. Oh, ma forse non aveva più importanza. Lo facevano ancora, ogni tanto, in silenzio e sempre al buio. (Appena sposati, certe volte passavano interi weekend a letto, con il sole che filtrava obliquo attraverso le persiane).

Spense la sigaretta nel portacenere. Non si sarebbe messa a lamentarsi, non era più una bambina. Ma le restava dentro un dolore. E un suono continuo e sommesso, il debole riverbero di qualcosa di simile alla gioia, continuava a vivere ai margini della sua memoria, una qualche specie di desiderio che un tempo aveva trovato risposta e ora, semplicemente, non più. Questo non riusciva a capirlo. Aveva un buon marito, a differenza di molte altre donne; aveva avuto le figlie che voleva ed erano vive e in salute. Allora cos'era questo dolore? Un profondo buco rosso in cui gettava caramelline alla frutta e patate, hamburger, torte al cioccolato e qualunque altra cosa. La gente pensava forse che le piacesse essere grassa? Fat Bev, Bev la cicciona, Bev l'allegra cicciona. Non le piaceva essere grassa. Ma quel dolore rosso e cupo era sempre lì, come un vuoto turbinoso, un terribile abisso.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 182

Isabelle si era trovata così assorbita nel mondo di Madame Bovary che aveva smesso da molto tempo di congratularsi con se stessa per essersi messa a leggere quel libro. Quando le colleghe all'ufficio avevano preso a chiamarla «Madame Bovara» («Ecco la nostra Madame Bovara», diceva ogni tanto qualcuna, quando Isabelle entrava in sala mensa), quello che più la faceva star male non era la presa in giro in sé, ma il fatto che ora si sentiva troppo a disagio per leggere il libro al lavoro, e doveva rimandare quel piacere fino al ritorno a casa. Ma continuava a portarselo dietro, nella borsetta, e un giorno, accorgendosi che le giornate erano tornate a essere limpide e calde, nell'intervallo per il pranzo era sgattaiolata via senza dire niente a nessuno, ed era andata a sedersi nella macchina parcheggiata, a mordersi a sangue l'unghia del pollice mentre la povera Emma Bovary trovava infine un'orribile morte nel proprio letto.

Isabelle pianse. Cercò nel cassettino un fazzoletto per asciugarsi gli occhi e pensò che Emma Bovary si era resa la vita un inferno. Lo disse addirittura a voce alta: «Che inferno», e si soffiò il naso. Era felice che fosse stata Emma, e non lei, a provare tutta quella sofferenza. Ne era davvero felice. Isabelle fece un respiro profondo e guardò il parcheggio davanti a sé, dove scagliette di ghiaia luccicavano al sole. Sembrava sia un gran sollievo che una condizione leggermente noiosa, starsene nel parcheggio di una fabbrica di scarpe a Shirley Falls nel ventesimo secolo, mentre la sua mente era ancora quasi del tutto assorbita dal terribile inferno che una donna aveva vissuto in un villaggio francese un secolo prima: immaginò la piccola stanza, le api alla finestra, le ultime grida di dolore di Emma fra i tormenti del veleno... Terribile, terribile, terribile. Le dispiaceva così tanto per Emma. Gli occhi le si riempirono di nuovo di lacrime.

E però. E però, dopo tutto... (Isabelle guardò un'ultima volta Madame Bovary e la infilò nel cassettino). Se l'era voluta. Se l'era cercata, se l'era cercata, fino in fondo. Emma aveva Charles, un marito assolutamente accettabile. Se avesse saputo dargli amore, avrebbe scoperto che poteva trasformarsi in un uomo forte e affascinante. Isabelle ne era convinta. Di fatto, Isabelle non riusciva a togliersi di dosso la convinzione che lei, personalmente, sarebbe stata del tutto soddisfatta con un marito come Charles, e per questo trovava sempre un po' di difficoltà, chiaramente, a vedere le cose dal punto di vista di Emma.

Ma non era così semplice. Perché in fondo al cuore Isabelle capiva lo straziante desiderio che provava Emma. Nessuno a Shirley Falls l'avrebbe mai potuto immaginare, ma Isabelle portava con sé il ricordo di una devastante passione per un uomo, e questo ricordo a volte danzava dentro di lei, quasi animato di vita propria. Era stato un errore, tuttavia, il peggiore degli errori, e il cuore ora prese a batterle furiosamente in petto; le sembrava di dover soffocare da un momento all'altro, chiusa in quella macchina.

Riuscì a calmarsi passeggiando al margine del parcheggio e guardando due falchi che planavano in alto nel cielo azzurro, e poi abbassando gli occhi sul fiume, sulle acque schiumose e torbide che schizzavano da sotto la fabbrica sulle rocce di granito. Emma Bovary era stata egoista, Isabelle si ripeté, egoista e incapace di amare, e la prova stava non solo nella sua indifferenza verso il marito, ma nel modo odioso in cui era stata capace di trascurare sua figlia. No, Emma Bovary era una persona molto peggiore di quanto Isabelle Goodrow fosse mai stata o potesse mai diventare, e se aveva finito per fare quella morte orrenda, be', la colpa era soltanto sua.

Isabelle spinse la pesante porta sul retro della fabbrica e rientrò, e ringraziò il cielo per l'odore familiare di cuoio e colla, lo sferragliare assordante mentre passava davanti alla sala macchine, il ronzio dell'ascensore che la portava su e la depositava nel corridoio silenzioso, subito fuori del suo ufficio. Si fermò un momento nel bagno per darsi una ripassata al rossetto e pettinarsi i capelli, pensando, mentre faceva queste cose, che probabilmente non avrebbe letto altri libri per un bel po' di tempo, dato che la vita era già abbastanza difficile di suo e non c'era nessun bisogno di farsi piombare fra capo e collo le sofferenze di qualcun altro.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 188

1O



Il dottor Gerald Burrows giocherellava con un bottone della giacca e guardava fisso il paziente che aveva di fronte, un uomo appena più giovane di lui che, nel raccontare un episodio di pesca della sua infanzia, al fianco di un padre recalcitrante, stava tranquillamente facendo a brandelli il fazzoletto di carta che teneva in mano. Quando l'uomo gettò un'occhiata fuori della finestra in un momento di distrazione, il dottor Burrows lasciò che per un attimo gli occhi gli corressero all'orologio: un orologio grigio, piccolo e discreto, appoggiato su un tavolo alle spalle della sedia del paziente, leggermente sulla sinistra.

Burrows, che in genere andava fiero dell'attenzione meticolosa con cui seguiva i propri pazienti, faceva fatica a concentrarsi sulla storia che gli si stava dipanando davanti agli occhi, la storia di una triste battuta di pesca di trent'anni prima. Per quanto fosse convinto di essersi opportunamente abituato ai periodi di depressione e demotivazione che questo tipo di lavoro portava con sé, in questi giorni il dottor Burrows si rendeva conto di provare un'insopprimibile sensazione di inutilità. Nessuno, o quasi, mostrava miglioramenti. I disturbi delle persone che si rivolgevano a lui avevano messo radici quando i pazienti erano così giovani, in un'età tanto delicata, che quando arrivavano nel suo studio le loro deboli angosce si erano ormai condensate in un insieme stordito di espressioni, deviazioni e abili manipolazioni. No, i suoi pazienti non guarivano. Venivano da lui perché erano soli e perché íl loro star male li lasciava profondamente confusi. Nella migliore delle ipotesi, pensava, ancora giocherellando con il bottone della giacca, quello che poteva offrire loro era un rifugio dai giudizi, un momento di raccoglimento, di riposo.

E tutto questo, era incapace di trovarlo per sé. Proprio adesso, dietro l'espressione imperturbabile sul suo volto c'era il perenne, assillante pensiero di sua figlia. Stacy lo odiava. Lo vedeva nei suoi sguardi silenziosi di derisione, lo leggeva nel modo arrogante in cui si buttava a sedere al tavolo della colazione ogni mattina. Era spaventoso che nella rapidissima occhiata insolente che lei gli gettava prima di uscire dalla cucina lui vedesse, o credesse di vedere, lo sguardo indurito di chi la sapeva lunga.

Non riusciva assolutamente a capire da dove nascesse tutto quell'astio. Ma indicava (doveva indicare, no?) che quella ragazza non era stata cresciuta con la cura e la delicatezza dovute. Era stato risolutamente deciso ad adottare una neonata piuttosto che una bambina più grande, proprio per evitare quest'oscura impronta di malessere, di turbamento: come se lui potesse essere capace di far crescere quella neonata urlante dal viso paonazzo libera da ogni trauma. Era stata arrabbiata anche allora. Quando aveva solo poche settimane, li guardava torva, furiosa, negli intervalli fra un pianto e un altro: nei momenti di riposo li fissava con occhi minacciosi. Era stato un parto difficile, avevano scoperto in seguito: era rimasta incastrata nel canale del parto con il cordone ombelicale stretto intorno al collo. Era forse questo, questa vaga consapevolezza, i residui di questo trauma, ciò contro cui sua figlia si ribellava?

Lui non ci credeva. Sapeva che se un paziente del suo studio avesse cercato di far passare una figlia ribelle per il risultato di un parto difficile non gli avrebbe dato credito. Al contrario, si sarebbe chiesto come andavano le cose in quella casa, cosa succedeva, al momento, nella vita di quella famiglia.

A questo punto il dottor Burrows si mosse leggermente sulla sedia. Non che avesse intenzione di fingere che tutto fosse perfetto, nella loro vita quotidiana, ma gli altri due figli, i gemelli, stavano bene: erano bambini sani, che scorrazzavano per casa ed erano sempre felici di vederlo. (Allora questo come lo spiegate?, pensò in tono di sfida, rivolto a nessuno in particolare). Fissò l'uomo che aveva di fronte e annuì lievemente per compensare la mancanza di attenzione. L'uomo aveva finito di raccontare la sua storia e guardava Burrows con un'aria di scusa e di mestizia. «Bene», disse lui. «Questo ci dà molto materiale su cui riflettere. Riprenderemo da qui, la prossima volta».

Il viso del paziente, nudo nel suo palese, ardente desiderio di un sorriso di approvazione, rimase impresso a lungo nella mente del dottor Burrows, dopo che l'uomo fu uscito dallo studio ed ebbe chiuso la porta dietro di sé. Non gli dava pace il pensiero di essere lui stesso un altro di quelli che, tristemente, avrebbero voluto di più.


L'umore di Isabelle cominciò a variare con una velocità allarmante. Si chiedeva se fosse sempre stato così e se fosse stata semplicemente lei a non accorgersene. No. Non si poteva fare a meno di accorgersi di una cosa del genere: arrivare in macchina all'A&P sentendoti perfettamente a tuo agio e padrona di te, come se tutti i vestiti ti calzassero a pennello, e poi, al momento di riprendere la macchina per tornare a casa, sentirti completamente sfatta, solo perché mentre attraversavi il parcheggio l'odore del sacchetto della spesa che avevi in braccio si era mescolato col profumo della primavera e ti aveva graffiato il cuore di desiderio. Francamente, era qualcosa di snervante. Perché per tutti quei momenti di speranza in cui percepiva la vicinanza di Dio, per tutti i momenti in cui le sembrava che qualcosa le esplodesse e le si spandesse nel cuore, Isabelle conosceva altri momenti, che potevano essere descritti solo come fitte di rabbia.

La vista della biancheria sporca di Amy che aspettava di essere lavata, per esempio, poteva farla infuriare, perché improvvisamente le sembrava che il puro mantenimento fisico di quella ragazza fosse qualcosa di superiore alle sue forze e Isabelle non riusciva a capacitarsene: gli anni veramente difficili, quelli dell'infanzia di sua figlia, non se li era ormai lasciati alle spalle? Perché certe volte si sentiva sul punto di perdere l'equilibrio, in quel delicato esercizio da funamboli che era il prendersi cura di lei?

Preoccupazioni, preoccupazioni, preoccupazioni. Questo era quello che una mattina stava dicendo ad Avery Clark, seduta di fronte a lui nel suo studio, leggermente piegata in avanti mentre si teneva il bicchiere di polistirolo pieno di caffè poco sopra le ginocchia. «Con una figlia», diceva, «non sono altro che preoccupazioni, preoccupazioni, preoccupazioni». Ma lo disse con leggerezza, concludendo la frase con un sorrisetto autoironico, gli angoli della bocca piegati all'ingiù.

«Hai ragione», disse Avery ridacchiando. Si appoggiò allo schienale della poltroncina girevole e prese a raccontare una storia sconnessa su suo figlio, che un giorno era andato a fare un giro in barca con un amico ed era tornato che era ormai buio da un pezzo. Gli ci volle così tanto tempo per raccontare questo (compresa la breve interruzione di una telefonata) che Isabelle cominciò a chiedersi cosa fare della propria faccia: l'affabile atteggiamento di attesa stava cominciando a darle degli spasmi ai muscoli; ma alla fine Avery giunse alla conclusione.

«E quando finalmente ha rimesso piede dentro casa non sapevo se volevo ammazzarlo o abbracciarlo». Avery rise sonoramente e scosse la testa. «Ah, santo cielo», disse, «ero fuori di me».

«È vero», esclamò Isabelle, «è una sensazione unica al mondo». Ma Avery non la stava ascoltando. Stava di nuovo ridendo e scuotendo la testa. «Oh, santo cielo», ripeté, «ero proprio fuori di me».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 338

«È nato il bambino di Stacy», disse Amy.

Isabelle alzò gli occhi dal piatto e la fissò con un'espressione assolutamente trasparente. «Davvero?».

Amy annuì.

«Davvero?», ripeté Isabelle. «Davvero, le è nato il bambino?».

«Sì, è nato. Ha telefonato la madre». Amy si alzò e cominciò a sparecchiare.

«Raccontami». Gli occhi di Isabelle seguirono Amy avanti e indietro; il suo volto pallido era pressante, importuno.

«Non c'è niente da raccontare», ripose Amy scrollando leggermente le giovani spalle nude, che luccicarono mentre allungava le braccia, lasciate scoperte dalla camicia senza maniche. «Ha partorito, fine». Era strano, rivolgersi a sua madre come faceva a volte in questi giorni, con un tono apertamente scortese e sprezzante. Prima di quest'estate non avrebbe mai osato.

«Non è affatto la fine», disse Isabelle. «Anzi».

Amy non rispose. Odiava il modo che aveva sua madre di fare certi commenti: osservazioni compiaciute e saccenti buttate lì con disinvoltura, nell'aria umida della cucina. «So un paio di cosette che tu ancora non sai, mia cara», le diceva talvolta, quando Amy era piccola, senza aggiungere altro: come se, nella legittima superiorità conferitale dalla conoscenza e dall'esperienza del mondo, Isabelle non ritenesse Amy degna di ulteriori spiegazioni.

«Te ne parla mai, Stacy?», chiese Isabelle esitante, arrotolando stretta una parte del tovagliolo di carta, guardando con la coda dell'occhio Amy che continuava a sgombrare la tavola.

«Mi parla di cosa?».

«Del fatto di dare in adozione il bambino».

Amy rimase interdetta per un attimo, come se non ricordasse cosa le avesse detto Stacy a riguardo. «Penso che avesse paura del momento del parto», ammise, mettendo i piatti nell'acquaio. «Non l'ha mai detto espressamente, ma credo che avesse paura del dolore. Comunque, la madre mi ha detto che se l'è cavata benissimo». Amy ripensò alla donna del filmato che il padre di Stacy aveva portato dall'università; un viso ferocemente contorto e quei profondi grugniti di dolore. «Fa davvero così male?». Amy si voltò dall'acquaio e fece a sua madre questa domanda con improvvisa sincerità.

«Sì, certo, è doloroso». Isabelle smise di attorcigliare il tovagliolo e guardò fuori dalla finestra. Il suo viso, nell'attimo in cui Amy riuscì a vederlo, prima che si voltasse, sembrava turbato ed estremamente vulnerabile; Amy provò un moto di angoscia: sua madre stava cercando di non piangere.

Per un po' ci fu solo il suono dei piatti sotto l'acqua, il cigolio del rubinetto che veniva chiuso, il rumore delle stoviglie buttate nello scolapiatti.

Isabelle parlò. Amy, in piedi di fronte all'acquaio, capì da come le arrivava il suono della voce che la madre stava ancora guardando fuori dalla finestra. «Quindi Stacy non ti ha mai detto come si sentiva, all'idea di dare via il bambino?».

«No». Amy non si girò. Risciacquò una tazza sotto l'acqua e appoggiò anche quella sullo scolapiatti. «Ma certe volte me lo sono chiesta», aggiunse, con franchezza. «Cioè, potrebbe incrociarlo per la strada fra trent'anni e non saperlo nemmeno. È strano, no? Ma non le ho mai chiesto se lei ci aveva pensato».

Isabelle non ripose.

«È solo che non mi sembrava il caso di chiederglielo, capisci?». Amy si voltò, con le mani ancora insaponate dentro l'acqua. Sua madre stava ancora guardando fuori dalla finestra; la crocchia di capelli stava ormai perdendo la forma e qualche ciocca le scivolava giù per il lungo collo.

«Mamma?».

«No. Penso che hai fatto bene a non chiederglielo». Isabelle si girò, sorridendo con aria di scusa, perché aveva davvero delle lacrime sulle guance. Si asciugò il viso con dei rapidi colpetti del tovagliolo che aveva in mano. «No, hai fatto bene, veramente», ripeté. «Non si fanno domande inutili che possono causare dolore alla gente». Sembrava che si stesse riprendendo, ormai: si soffiò il naso, si alzò da tavola, gettò il tovagliolo nel secchio dell'immondizia. «Dovresti andare a trovarla», dichiarò Isabelle, togliendo di mezzo le poche cose che erano rimaste sulla tavola.

«Dov'è ricoverata?».

«Ad Arundy. Non a Hennecock». Amy sciacquò un'altra tazza, scansandosi da un lato per far posto alla madre, che appoggiò altre stoviglie nel lavello.

«Fai un colpo di telefono e informati sugli orari delle visite», disse Isabelle, zelante, passando la spugnetta sul ripiano. «Ti accompagno io in macchina stasera stessa. Non ti preoccupare», aggiunse, come se le leggesse nel pensiero, «non verrò dentro con te. Resterò in macchina».

«Sicura?», chiese Amy. «Non ti secca?».

«Vai». Sua madre le fece segno con la testa. «Cambiati la camicia, questa mi sembra un po' sporca». (Di fatto, scopriva quelle giovani spalle lucenti in una maniera che metteva Isabelle leggermente a disagio). «L'ospedale lo chiamo io, intanto».

Quando Amy scese le scale, pochi minuti dopo, con una camicia pulita e i capelli pettinati (ormai le erano cresciuti quel tanto che bastava per ripiegarseli dietro le orecchie) trovò Isabelle intenta a ispezionare gli scaffali della cucina. «Hanno detto alle otto», disse. «Ma devi portarle qualcosa».

«Per esempio?», fece Amy. «Io non ho idea di cosa portarle».

«Eccolo qua». Isabelle tirò fuori un cestino da un armadietto. «Prendiamo un po' di fiori in giardino, così le porti questo».

Per qualche minuto lavorarono insieme; o meglio, Isabelle lavorò mentre Amy la guardava. Rivestì il cestino di carta stagnola, poi presero una paletta e scesero nel giardino dietro la casa, dove Isabelle si inginocchiò e con qualche colpo della paletta tirò su una piccola zolla di calendule e campanelle, compattando per bene la terra nel cestino. Lavorava con un certo fervore: sul labbro superiore e nelle borse sotto gli occhi le si vedevano delle gocce di sudore; Amy guardò la faccia della madre e dovette voltarsi da un'altra parte.

«Così dureranno un po' più a lungo», disse Isabelle, raddrizzandosi e asciugandosi la faccia con il dorso della mano, «che se le avessimo solo raccolte».

«Ed è anche più bello a vedersi». Amy fissò il cestino, ammirata.

«Ha un bell'aspetto, no?». Isabelle lo guardò socchiudendo gli occhi, rigirandoselo piano tra le mani. Rientrarono in casa, dove Isabelle trovò del nastro bianco, che annodò in un fiocco intorno al manico del cestino, e poi con le forbici (né lei né Amy si ricordarono, in quel momento, che queste erano le forbici con cui le aveva tagliato i capelli) arricciò le estremità del nastro, così che due riccioli flessuosi dondolarono sopra i fiori blu e gialli.

| << |  <  |