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| << | < | > | >> |Pagina 7«Non lasciarti ingannare da una superba illusione.» Leonardo da Vinci, I taccuini di Delfina della Fazia Ducato di Milano, agosto 1483 «Per tutti i santi, siamo quasi a casa! Vedo le mura del castello.» L'esclamazione gioiosa era giunta dal mio compagno apprendista, Vittorio. Provavo lo stesso sollievo: da una buona mezzora, infatti, faticavamo per trasportare un enorme sacco di tela, alto almeno quanto noi. Cosa contenesse era un mistero; sapevamo soltanto che i pesanti oggetti all'interno si spostavano di continuo, creando protuberanze ora da questa parte, ora da quella. Trasportarlo lungo un sentiero diritto sarebbe già stata un'impresa. Attraversare quei campi ondulati era stato un compito davvero arduo. Mentre il giovane dal viso angelico pronunciava quelle parole, avevamo raggiunto la cima dell'ultima altura e, in lontananza, ci era apparsa la pietra rossiccia del Castello Sforzesco. Mi sentii come sempre in soggezione alla vista di quella magnifica fortezza, coi suoi blocchi di arenaria rozzamente sbozzati, splendenti sullo sfondo del cielo azzurro. Forse fuori del ducato esistevano castelli più grandi, e magari anche più belli, ma di certo non possedevano l'audacia imperturbabile della grandiosa fortezza del duca di Milano. Osservai con attenzione la scena, dando briglia sciolta al mio occhio di artista. Da quell'angolazione, la fortezza sembrava una grande mano che si sollevava intrepida dalla verde pianura ondulata su cui sorgeva. Le dita erano le massicce torri angolari - due cilindriche e due quadrate - e l'immensa torre dell'orologio in cui si apriva il portone principale. Non paga di accogliere qualunque cosa le finisse nel palmo, quella mano, nella persona del duca Ludovico Sforza, prendeva tutto ciò che voleva dai ducati e dai marchesati circostanti. Per quello il nostro maestro, Leonardo da Vinci, era stato chiamato a corte come maestro ingegnere, col compito di progettare e realizzare avanzate macchine belliche. Mi trovavo a Milano da pochi mesi, e lavoravo duramente nel laboratorio di Leonardo insieme con una ventina di altri giovani. I miei compagni mi conoscevano come Dino, un ragazzetto piccolo e moro con qualche anno più di Vittorio, giunto da un villaggio del nord. Possedendo un certo talento per la pittura - lo dico perché è la verità, non perché voglia farmene un vanto - ero riuscita a diventare apprendista di un uomo il cui genio era noto persino a Firenze, e addirittura a Roma. Ma nessuno conosceva il segreto che, se svelato, avrebbe posto sommariamente fine al mio apprendistato. Lo stesso maestro ne era all'oscuro. Nessuno sapeva che, in realtà, io ero Delfina, una giovane di vent'anni fuggita da una casa confortevole e dalla prospettiva di un matrimonio combinato, per travestirsi da ragazzo ed entrare nella bottega del grande Leonardo in persona! Era un segreto che avevo custodito con estrema cura, riuscendo a ingannare tutti. Era piuttosto insolito che due apprendisti si trovassero a vagare per la campagna, com'era successo quel giorno a Vittorio e a me. Trascorrevamo quasi tutte le nostre giornate in laboratorio, ad affinare la nostra arte. Ogni tanto lavoravamo sotto l'occhio vigile del maestro; tuttavia, più spesso, a controllarci c'era l'apprendista più grande, Costantino, non meno severo. Quel giorno, però, Leonardo ci aveva affidato un compito diverso dall'intonacatura di un muro o dalla preparazione dei cartoni che sarebbero serviti per dipingere un altro affresco. Il duca, infatti, stava facendo pressioni sul maestro affinché portasse a termine almeno alcune delle molte, complesse invenzioni grazie alle quali era riuscito ad assicurarsi il suo patronato. Ecco perché Vittorio e io ci trovavamo assai lontani dalla città e dal palazzo. Fin dalle prime ore del mattino, un gruppo di apprendisti si era ritrovato a sguazzare in un ruscelletto per aiutare Leonardo a provare alcuni modelli in scala dei suoi ultimi progetti. La prima invenzione era un ponte trasportabile, composto da diversi segmenti di legno appoggiati l'uno sull'altro. Diverse settimane prima, mi era capitato di assistere il maestro nella realizzazione di un modellino del medesimo progetto: una versione molto piccola rispetto a quella finale, eppure grande abbastanza da permettere a una persona della mia corporatura di camminarci sopra. Azionato da un complicato sistema d'ingranaggi, il ponte era pensato per essere allungato sezione dopo sezione, finché le varie parti non formavano un'unica unità che arrivava sulla sponda opposta. Un modello a grandezza naturale, in teoria, poteva coprire la larghezza di un fiume; quello copriva appena un ruscello. Avevo avuto qualche dubbio riguardo al funzionamento effettivo di un progetto tanto fantasioso. Ma, con mia grande sorpresa, il ponte in miniatura aveva funzionato già al primo tentativo. Grazie a qualche vigoroso giro di manovella, il ponte si era allungato con la grazia di un uccello che tende il collo, fino ad arrivare sulla sponda opposta dello stretto canale, tra le acclamazioni entusiastiche di noi apprendisti. Il maestro era parso soddisfatto della prova, benché si fosse lamentato dell'eccessiva lentezza del meccanismo. Il secondo progetto era un congegno molto meno elegante: una draga cavafango. Pensata per dragare canali e fiumi ricchi di limo, era costituita da due chiatte dotate di una ruota, ai cui bracci erano fissati dei secchi. L'avevamo piazzata lungo una sponda del torrente, dove i secchi avevano flagellato la superficie dell'acqua riuscendo a raccogliere solo una modesta quantità di limo. D'accordo con noi ragazzi, Leonardo aveva decretato che andavano apportate alcune modifiche, prima di tentare una dimostrazione in presenza del duca. Verso sera, il maestro aveva mandato avanti me e Vittorio con l'attrezzatura che non poteva essere caricata sui carri, per timore che fosse danneggiata dall'acqua e dal fango che aveva imbrattato il resto dell'equipaggiamento. Ci stavamo avvicinando al castello da un fianco. Il portone principale era rivolto a est, verso la città di Milano. In passato forse ci saremmo trovati a camminare faticosamente attraverso una piccola foresta, ma su tre lati della fortezza gli alberi erano stati abbattuti da tempo, per consentire alle truppe di Ludovico di fare fuoco su qualunque esercito avesse avuto l'ardire di attaccare. Pertanto, sebbene fossimo ancora a una certa distanza dalle mura, notai subito la persona vestita in abiti sgargianti che giaceva ai piedi di una delle torri. «Strano», mormorai, aggrottando le sopracciglia. «Chi sarà mai?» La figura supina era adagiata lungo il margine interno del fossato che circondava il castello. A seconda della stagione, o del progresso dei vari conflitti tra Ludovico e i suoi vicini, l'ampio fossato poteva essere riempito d'acqua salmastra come ultimo deterrente a un tentativo d'avvicinamento. Ormai era vuoto da un po' di tempo; tuttavia non mi sarebbe mai venuto in mente di sdraiarmi a riposare su quell'erba incolta, che conservava un debole olezzo di pitali e di marciume. A quel punto, vidi che si trattava di una donna. L'abito blu era adagiato tutt'intorno al corpo, come una coperta. Forse era una delle dame di corte che si godeva un pomeriggio di pausa dalla vita del castello, pensai, ancora accigliata. Strano, però, che fosse sola. Strano soprattutto che fosse adagiata sull'erba in quel modo scomposto, come un semplice ragazzo di campagna, senza nemmeno uno scampolo di stoffa a proteggere il suo bell'abito dall'umidità del prato. Quando ci avvicinammo, la mia fronte si fece ancora più corrucciata. La donna non si era mossa, nei pochi istanti trascorsi da quando mi ero accorta della sua presenza, sebbene Vittorio avesse cominciato a fischiettare con tanto entusiasmo da rompere i timpani di chi gli stava vicino, felice che le sue fatiche fossero quasi giunte alla fine. A una così breve distanza, quelle note trillanti avrebbero dovuto svegliarla, ammesso che stesse dormendo. «Dino?» mormorò il mio compagno. Nella sua voce colsi un lieve timore, che fece eco alla mia improvvisa inquietudine. Vittorio lasciò cadere la sua estremità del sacco e guardò fissamente la donna distesa sull'erba, prima di voltarsi verso di me con occhi sgranati. «Dino, quella dama ai piedi della torre... io non credo che stia dormendo. E tu?» Con delicatezza, posai a terra anche la mia estremità del sacco. «Aspetta qui», gli dissi, sorpresa di essermi messa a bisbigliare come lui. Poi, decisa a non lasciarmi prendere dal panico, almeno non in quel frangente, aggiunsi a voce più alta: «Vado a vedere se sta bene». Lui mi guardò con aria dubbiosa, ma annuì. Eravamo all'incirca a una ventina di passi da quella donna che giaceva immobile sulla schiena, col viso girato verso la torre. Se il sole avesse avuto l'angolazione corretta, saremmo stati sommersi dall'ombra proiettata dalla costruzione. Invece i raggi del pomeriggio battevano senza pietà su di noi... e su di lei. Forse aveva avuto soltanto un colpo di calore. Mi concessi quella speranza, mentre asciugavo un rivolo di sudore che mi scendeva lungo la fronte. Mi avvicinai, e in quel momento udii un ronzio molto simile a quello che avevo sentito poco prima, in mezzo ai minuscoli fiorellini che ammantavano le sponde del fiume dove avevo lavorato coi miei compagni. Ma cosa avrebbe potuto attirare delle api lì, dove non crescevano né fiori né erba profumata? Feci ancora qualche passo, e vidi che a ronzare non erano le api. Uno spietato sciame di mosche nere si librava sul corpo della donna, attirato dalla cupa pozza di sangue che imbrattava l'abito blu, come pure il prato tutt'intorno. La dorma non era distesa comodamente sulla schiena, come mi era parso in un primo momento; aveva invece una posizione contorta e innaturale, col viso rivolto dalla parte opposta rispetto al punto in cui mi trovavo. Un braccio avvolto nella manica era allungato all'indietro, nella mia direzione, e la mano bianca e delicata sembra tendersi in un gesto di supplica. Chiusi gli occhi e deglutii, per ricacciare la bile che mi era salita improvvisamente in gola. Quella donna era morta. Riluttante, sollevai le palpebre e mi voltai verso Vittorio. Il suo viso solitamente allegro era contorto in un'espressione di disgusto e di terrore, che lo faceva sembrare più vecchio di quanto non fosse. Mi chiesi se il mio volto riflettesse le medesime emozioni. In ogni caso, tra i due ero la più anziana, pertanto toccava a me assumere il controllo della situazione. Scossi il capo, per far capire al mio compagno che non c'era nessun bisogno che si avvicinasse. «Io resto qui», gridai. «Il maestro dovrebbe essere poco più indietro. Corri da lui e digli che cos'è successo.» Ma cos'era successo, esattamente? Era una domanda cui non sapevo rispondere. Di sicuro, una donna giaceva morta a pochi passi da me. Riflettei su quell'interrogativo, mentre osservavo Vittorio ripercorrere di corsa il tragitto che avevamo compiuto insieme poco prima. Solo quando fu scomparso oltre l'altura spostai nuovamente l'attenzione sulla scena che avevo davanti. Con mia grande vergogna, devo ammettere che il mio primo pensiero fu per me stessa. Per tutti i santi, perché doveva toccare proprio a me la sventura di trovare quella poverina? Si dà il caso, infatti, che non fosse il primo cadavere in cui mi ero imbattuta durante la mia breve permanenza al castello. Erano passate solo alcune settimane da quando avevo avuto la sfortuna di scoprire il corpo del cugino del duca, crudelmente assassinato in un giardino privato del castello. Era successo mentre il resto della corte era distratto da una partita a scacchi viventi, disputata in onore dell'ambasciatore francese in visita a Milano. In seguito a quello spiacevole ritrovamento mi ero guadagnata un piccolo ruolo come aiutante del maestro, che per ordine dello stesso Ludovico aveva dovuto risolvere quel macabro mistero. Prima di giungere alla soluzione c'erano stati altri cadaveri... E in mezzo a quel numero avevo rischiato di finire anch'io! Evitando di proposito di guardare il viso della donna, mi concentrai invece sull'abbigliamento, nel tentativo di determinare la sua posizione all'interno della corte. Come avevo notato subito, sulla camicia bianca indossava un corsetto blu pallido cui era legata una manica dello stesso colore, coi lacci allentati; l'altra manica del corsetto mancava completamente. Sopra la sottogonna rosso scarlatto indossava ampie gonne della stessa tinta delle maniche e del corsetto: quella sfumatura tra il blu e l'azzurro del cielo al mattino. Da un lato, le gonne erano sollevate fin sopra il ginocchio, tanto che riuscii a vedere il punto in cui aveva legato con cura le calze blu scuro. Ai piedi non portava le pianelle. Non era nobile. Una signora agiata avrebbe indossato un abito alla moda, coi tagli nelle maniche. Inoltre non riconobbi né i tessuti ricchi e pesanti né le finiture elaborate che contraddistinguevano una dama d'alto rango, che poteva permettersi le raffinate creazioni del mio caro amico, il signor Luigi, o di un altro sarto di eguale talento. Infine, non portava vistose catene d'oro intorno al collo, né polsini ornati di gemme. Probabilmente era la figlia di un mercante, o forse la domestica di una nobildonna. Anche se non avevo ancora trovato il coraggio di guardarla in faccia, dalla figura giovanile intuii che non doveva avere molti anni più di me. L'idea che la sua vita fosse stata interrotta così bruscamente mi rattristò molto, tanto più che aveva all'incirca la mia età e occupava una posizione simile alla mia. I suoi sogni di gioventù non si sarebbero mai realizzati, la sua fronte ancora liscia non avrebbe conosciuto le rughe provocate dalle preoccupazioni che accompagnano inevitabilmente l'avanzare dell'età. Ma almeno quella poverina non era morta per mano di qualcun altro, com'era successo all'uomo che avevo rinvenuto alcune settimane prima. Sollevai lo sguardo verso la torre imponente. Se in quel momento mi fossi abbandonata all'immaginazione, quella vista avrebbe potuto ricordarmi un mitico colosso costretto a sorreggere una porzione delle mura della fortezza. Il calore del giorno si levava dai pesanti blocchi di arenaria, aggiungendo un ulteriore elemento di vita a quella presenza che sembrava lasciar presagire qualcosa. Trovandomi così vicina a quel gigante di roccia, dovetti allungare il collo per osservarlo in tutta la sua altezza. Dal punto in cui mi trovavo riuscivo a malapena a distinguere le lunghe e strette finestre che, come i tanti occhi del gigante Argo, circondavano l'ultimo piano appena sotto la guglia. Era da quelle stesse finestre che gli arcieri scagliavano una freccia dopo l'altra sugli eserciti nemici in avvicinamento, approfittando della posizione vantaggiosa. Anche se da là sotto le singole aperture sembravano incredibilmente strette, sapevo che ciascuna di esse poteva ospitare un uomo. Una donna, più minuta ed esile, non avrebbe avuto difficoltà a scivolare attraverso una di quelle finestre, precipitando verso la morte. Perché così erano andate le cose, a giudicare dalla posizione contorta del corpo. Non solo: da una finestra vidi penzolare un lungo brandello di stoffa blu pallido, che sventolava come una bandiera dimenticata. Doveva essere la manica mancante, che probabilmente era rimasta impigliata nella pietra ruvida quando la giovane era caduta di sotto. Ma che cosa l'aveva portata in cima a quella torre? Non avrebbe avuto nessun motivo per andare lassù. I parapetti erano dominio dei soldati del Moro, uomini volgari e chiassosi che dall'alto dei bastioni sorvegliavano il castello e le aree esterne. Acquartierati nel labirinto di stanze e magazzini costruito all'interno delle mura massicce, lasciavano di rado il perimetro della costruzione, tranne quando venivano schierati contro un nemico. Le uniche esponenti del gentil sesso che si sarebbero potute introdurre in quel territorio erano le lavandaie, o le prostitute. Nessuna donna di rango superiore si sarebbe mescolata spontaneamente a quella gente. O forse mi sbagliavo? Un grido giunse dall'alto a scuotermi brutalmente dai miei pensieri. Sollevai lo sguardo e vidi tre soldati sui bastioni coperti; guardavano nella mia direzione mentre gesticolavano e parlavano tra loro. Naturalmente da quella distanza non potevo sentire quello che si dicevano, ma non ebbi problemi a interpretare la loro pantomima. Uno di loro rimase di guardia, per timore che me la svignassi, mentre gli altri due abbandonarono rapidamente la posizione. Capii che stavano correndo al portone principale del castello, decisi a indagare su quella misteriosa vicenda, e a stabilire quale parte avesse la sottoscritta. Nervosa, mi voltai a guardare la cresta dell'altura. Perché Vittorio tardava tanto a tornare col maestro? Non ero per niente ansiosa di affrontare l'interrogatorio dei soldati da sola, e di certo non mi andava di farlo in quelle circostanze. Non avendo molta immaginazione - o temendo di essere incolpati per avere permesso che si compisse una simile tragedia sotto i loro occhi - avrebbero potuto ritenermi responsabile della morte di quella poverina. Avevo già visualizzato quello scenario nella mia mente, al punto che qualche istante dopo, sentendomi chiamare per nome, sussultai, quasi mi sentissi in colpa. «Dino, ti sei lasciato coinvolgere di nuovo in qualche brutto affare?» chiese Leonardo, alle mie spalle. Nella sua voce colsi un lieve tono di rimprovero. «Ahimè, temo di sì, ma non per mia scelta», risposi, senza preoccuparmi di soffocare un sospiro di sollievo per la sua tempestiva comparsa. Dietro di lui veniva Vittorio, ancora sconvolto. Gli altri apprendisti erano rimasti indietro, e proprio in quel momento avevano guadagnato la cima dell'ultima altura. Costantino e Paolo guidavano i due carri trainati da cavalli, su cui erano sistemati il ponte estensibile e la draga cavafango. Non venivano verso di noi; seguivano la strada principale che correva parallela al castello. Nel frattempo, Leonardo aveva spostato la sua attenzione sulla donna. S'inginocchiò accanto al cadavere e lo studiò da varie angolazioni. Un paio di volte sollevò lo sguardo verso l'edificio che incombeva sopra di noi. Alla fine si rialzò, togliendosi l'erba dalle ginocchia. «Temo che non ci sia più nulla da fare. Sono certo che sarai d'accordo con me, riguardo alla causa del decesso.» «La torre», mormorai, sgomenta per l'apparente mancanza di empatia del maestro davanti a una tragedia simile. Levai di nuovo lo sguardo verso il brandello di stoffa dimenticato che penzolava dalla finestra. Quali erano stati gli ultimi pensieri di quella poverina, prima di precipitare nel vuoto? Presumendo che la caduta fosse stata accidentale, e non il risultato di un gesto deliberato, doveva essere stata consumata dal terrore. E se invece si fosse buttata di proposito? Chissà se durante i suoi ultimi istanti di vita si era lasciata sopraffare dalla paura o dal rimpianto, o se invece si era lanciata a braccia aperte e con fierezza verso il terreno che vedeva farsi sempre più vicino. In entrambi i casi, l'orrore di una fine simile meritava almeno un momento di rispettoso silenzio. Evidentemente il mio viso dovette lasciar trasparire quello che mi passava per la testa, perché il maestro mi mise una mano sulla spalla. «Come ho detto, per lei non possiamo fare più nulla, ma ci assicureremo che da morta venga trattata con più gentilezza di quanta ne ha ricevuta durante i suoi ultimi momenti di vita.» Prima che potesse aggiungere altro, fummo interrotti dalle grida che annunciarono l'arrivo dei soldati. Dietro i due uomini dall'espressione severa, in apparenza poco più anziani di me, venivano una ventina di persone, tra servitori e commercianti. Qualcuno aveva gli occhi colmi di compassione e di orrore, come si conveniva alle circostanze, qualcun altro osservava la scena con uno sguardo che sarebbe stato più adatto al pubblico che assiste a una giornata di festeggiamenti. I soldati fecero loro segno di tenersi a distanza, e poi vennero verso di noi, risoluti e determinati. «Maestro ingegnere», disse quello coi capelli scuri, che si fermò non appena ebbe riconosciuto Leonardo. Gli lanciò un'occhiata tagliente, apparentemente sorpreso di vederlo in quello stato, coi capelli e gli abiti ancora umidi, avvolto dal lieve aroma di acqua melmosa dopo le nostre scorrerie nel ruscello. Poi indicò il cadavere ai suoi piedi e domandò: «Che cosa sapete dirci, di questa storia?» «Non temete», disse una voce arcigna, prima che il maestro avesse il tempo di rispondere. «Il grande Leonardo saprà senza dubbio farci un resoconto dettagliato dell'accaduto.» Dal gruppo degli astanti si fece avanti un uomo, che riconobbi subito come il medico ducale, un personaggio tronfio, dalla calvizie incipiente; i raffinati abiti verdi che indossava accentuavano il ventre rotondo sopra le gambe lunghe e magre. Si trovava in contrasto col mio maestro fin dall'arrivo di quest'ultimo a corte, e io ero venuta a conoscenza di tale rivalità mentre indagavo con Leonardo sulla morte del cugino del Moro. Apparentemente la sua presenza sulla scena del decesso era stata richiesta, perché il secondo uomo d'arme gli fece segno di venire avanti. «Voi, cerusico, controllate i segni vitali di questa donna», ordinò con voce roca, in netto contrasto con le guance e coi capelli chiari da ragazzino. «In quanto a voi, signor Leonardo, rispondete alla domanda. Che cosa sapete di questa sfortunata vicenda?» «Non posso dirvi più di quanto abbiate visto voi stesso», replicò docilmente il maestro, anche se notai lo scatto spazientito delle sue dita, un gesto che faceva istintivamente quand'era contrariato. «La giovane è morta cadendo dalla cima della torre e, secondo una prima stima, non dev'essere successo più di un'ora fa.» «Potrebbe anche essere stata investita da un carro, a giudicare dalle ferite», replicò il cerusico. Si portò un fazzoletto al naso, alquanto infastidito, e pungolò con una scarpa appuntita il cadavere. «Inoltre è probabile che sia qui da molto più tempo di quanto stabilito dal nostro maestro ingegnere. La giornata è calda, e...» S'interruppe con un grido roco e strozzato, mentre il maestro lo afferrava per una spalla e, senza troppe cerimonie, lo trascinava lontano dalla donna. «La vostra ipotesi non regge», gli disse Leonardo, affabile, mentre il medico sbuffava offeso e si liberava della sua mano con uno strattone. «In questo punto il terreno è morbido, eppure non si vedono tracce di ruote vicino al cadavere: nulla che lasci pensare al passaggio di un carro. Inoltre, se guardate attentamente, noterete un lieve infossamento del suolo, sotto il corpo: come se un oggetto vi fosse atterrato pesantemente.» Il maestro fece un sorriso serrato. «Infine, se osaste spingere lo sguardo in alto, un po' più in là del vostro naso, notereste un brandello di stoffa che penzola da una finestra della torre. E da quaggiù ha tutta l'aria di essere la manica strappata dall'abito.» «Concordo col signor Leonardo», s'intromise il primo soldato, mentre il cerusico continuava a farfugliare indignato. «Mi è già capitato di veder cadere qualcuno dall'alto di una cinta muraria... e non è un bello spettacolo. Ma che mi dite del ragazzo?» Alzò un braccio per indicarmi. «Lo abbiamo visto dai parapetti, era in piedi accanto alla donna. Che ruolo ha in tutto questo?» Per mia fortuna, non riconobbi nessuna delle due guardie, pertanto era poco probabile che sapessero della mia sfortunata tendenza a imbattermi in cadaveri, alla corte di Ludovico. Altrimenti avrebbero potuto guardarmi con maggior sospetto.
A un cenno del maestro, feci un passo avanti. «Temo
di non avere molto da aggiungere», mi azzardai a dire,
con tutta l'umiltà di cui fui capace. Indicai Vittorio, seminascosto dietro
Leonardo; si era aggrappato alla sua tunica in cerca di rassicurazioni, da
ragazzino quale era. «Io e il mio compagno apprendista stavamo tornando al
castello, quando abbiamo visto questa poverina. Vittorio
è corso a cercare aiuto, mentre io sono rimasto qui di
guardia. Né io né lui l'abbiamo vista cadere.» O saltare,
aggiunsi mentalmente. Anche se non avrei saputo dire
perché fossi tanto sicura che non si fosse trattato di un incidente.
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