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| << | < | > | >> |IndicePrefazione VII Introduzione 3 I. Tendenze di lungo periodo 1. Distribuzione del reddito e classi sociali 9 2. Cause della disuguaglianza nella distribuzione del reddito 21 3. Tendenze delle classi sociali 27 4. Nord, Centro e Sud 35 5. Marx e la piccola borghesia 41 6. La rapida espansione della burocrazia privata e pubblica 47 7. L'ubiquità della piccola borghesia 53 8. Confronti internazionali 63 9. Piccola borghesia e fascismo 73 II. Lo stato attuale e le prospettive 1. La questione delle riforme 83 2. Intellettuali e tecnici 91 3. I condizionamenti internazionali e le tensioni di origine interna 95 4. La sinistra tradizionale e i ceti medi 103 5. Sindacati operai e sindacati dei ceti medi 109 6. L'attuale crisi politica e la borghesia finanziaria 117 7. Un popolo di semianalfabeti 125 8. Contrasti economici e contrasti sociali 131 9. Il grande tiro alla fune 135 Note al testo 1. La nazionalizzazione e le retribuzioni nell'industria elettrica 141 2. Le rendite edilizie 142 3. Sulla possibile graduale sostituzione della divisione orizzontale del lavoro con una certa rotazione verticale 142 4. Intorno alla suddivisione delle classi sociali 143 5. «Uomini di grande onestà civile» 144 6. Espansione della burocrazia nel periodo fascista 145 7. Salari e stipendi nel periodo fascista 145 8. Piccola borghesia e fascismo 146 9. Riforma scolastica 147 10. Potere, controlli e responsabilità della burocrazia 147 11. La strategia della grande borghesia industriale 148 Appendice. Tabelle statistiche commentate 1. Le grandi classi sociali in Italia 153 2. Confronti internazionali 161 3. La distribuzione del reddito 168 4. Gruppi sociali particolari, occupazione nell'industria e 5. Sindacati operai e sindacati dei ceti medi 180 6. Dati sull'istruzione 186 7. Stime e ipotesi sul comportamento elettorale 189 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Il fisico studia gli atomi, ma egli non è un atomo. Il microbiologo studia i microbi, ma egli non è un microbo. L'economista, non diversamente dal sociologo, studia la società della quale fa parte: egli non è estraneo all'oggetto del suo studio nel senso particolare in cui si può affermare che lo sia il cultore di scienze naturali. Di conseguenza, lo studioso di discipline sociali nella sua attività intellettuale (e politica) è necessariamente condizionato dall'educazione che ha ricevuto, dall'ambiente dal quale proviene, dalle sue preferenze circa i movimenti della società in cui vive, in una parola, dalla sua ideologia. Di ciò egli deve essere ben consapevole, proprio per ridurre le distorsioni che nelle sue analisi - addirittura nella scelta stessa dei temi da studiare - può provocare la sua ideologia. Lo studioso di discipline sociali che si crede orgogliosamente «obiettivo», neutrale, fuori della mischia, è, tutto sommato, un personaggio patetico, perché è vittima di una ideologia senza saperlo e senza possibilità di contrastarne le pressioni. Se lo studioso non può sperare di essere rigorosamente «obiettivo» (ciò che è impossibile), può e deve tuttavia sforzarsi di essere intellettualmente onesto, ossia può e deve cercare di vedere tutti gli aspetti di un determinato problema, anche gli aspetti per lui sgradevoli, e non solo quelli che sono conformi alla sua ideologia o utili per la sua parte politica. Detto tutto questo, credo di dover spiegare ai lettori alcuni frammenti della mia ideologia, nella misura in cui ne sono consapevole: tali indicazioni potranno anche chiarire, spero, il motivo o i motivi che mi hanno indotto ad affrontare questi problemi, ciò che a rigore rappresenta un'invasione in campo altrui. Indicherò, in particolare, tre punti. Punto primo. La posizione del singolo nella società - in una determinata classe o gruppo sociale - condiziona il suo modo di pensare e di agire, ma non lo determina in modo puntuale. Il singolo può ampliare (ma non indefinitamente) i limiti entro cui pensa e agisce proprio attraverso la coscienza e la conoscenza critica della sua posizione nella vita sociale. Per il bene o per il male, la zona discrezionale è specialmente ampia nel caso di coloro che appartengono alle classi intermedie e, ancora più specialmente, nel caso degli intellettuali; ma tende a crescere anche per coloro che appartengono alle così dette masse, man mano che il livello medio di vita supera il livello di sussistenza (comunque venga inteso). Punto secondo. Con riferimento alla classificazione indicata nella prima tabella (v. l'Appendice), dal punto di vista economico-sociale chi scrive, che è un professore universitario, si considera membro di una frangia che sta fra la media e la piccola borghesia. Egli è dunque, per diversi motivi, un privilegiato - lo è dal punto di vista economico, lo è dal punto di vista del grado d'istruzione che ha potuto conseguire grazie alla posizione sociale della sua famiglia e non per virtù «innate». Ma il privilegio non è, in sé e per sé, un motivo di censura o di vergogna: lo è se è fine a se stesso; non lo è se viene usato per fini socialmente e civilmente validi - in ultima analisi e in prospettiva, per negare i privilegi stessi. Punto terzo. Chi scrive si considera, politicamente, un onesto riformista - onesto nel senso che non solo crede ma, con le sue modestissime forze, opera per le riforme, specialmente per quelle riforme che possano contribuire a «sgombrare il terreno da tutti quegli impedimenti legalmente controllabili che impacciano lo sviluppo della classe operaia» (Marx, Prefazione al Capitale, Ed. Rinascita, Roma, 1951, p. 17). Egli pensa di avere una tale concezione non per una straordinaria nobiltà di animo e per una generosità senza pari, ma semplicemente per ragioni di meditato egoismo: il processo di trasformazione sociale del nostro paese «si muoverà in forme più brutali o più umane secondo il grado di sviluppo della classe operaia» (Marx) e, più in generale, secondo il grado di sviluppo delle classi inferiori o subalterne: lo stesso livello civile della nostra società e, in definitiva, della nostra vita quotidiana, dipendono dal grado di sviluppo di queste classi, che nessuna legge soprannaturale ha condannato a rimanere per sempre subalterne. Pur considerandosi un riformista, chi scrive non ha ostilità, ha anzi rispetto, per coloro che vogliono operare da rivoluzionari, a condizione che si tratti di rivoluzionari seri e non di miserevoli parolai o di luridi imbroglioni. E sebbene egli auspichi le riforme non per consolidare il sistema ma per cambiarlo, chi scrive deve ammettere che gli fa difetto la fede rivoluzionaria - la fede nella necessità o nell'utilità di un grande trauma nel processo di trasformazione sociale. | << | < | > | >> |Pagina 21In via generale, la disuguaglianza nella distribuzione del reddito può essere oggetto di due critiche distinte, secondo che essa si ricolleghi alla proprietà privata dei mezzi di produzione ovvero alla differenziazione delle attività lavorative. Con riferimento al primo ordine' di critiche occorre ammettere, sempre in via generale, che in una società capitalistica la disuguaglianza dipende, alla radice, da un fatto istituzionale, che non può essere modificato se non modificando l'intero assetto istituzionale; subordinatamente, ma non marginalmente, dipende dalla forza comparativa, variabile nel tempo, dei gruppi sociali che concorrono alla spartizione del reddito. Nel settore privato di una società capitalistica il fatto istituzionale (proprietà privata) ha una rilevanza diretta, mentre nel settore pubblico ha assunto una rilevanza indiretta: nel settore pubblico il reddito viene ottenuto attraverso prelievi di tipo tributario e poi distribuito ai pubblici funzionari secondo leggi e regole che dipendono appunto dall'assetto politico e istituzionale. Una posizione particolare assume il settore che fa capo alle società per azioni, in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione diviene un concetto ambiguo e problematico; una posizione ancor più particolare assume poi il sottosettore che fa capo a società per azioni a prevalente partecipazione statale. Nell'intera società, la posizione preminente è quella di coloro che riescono in qualche modo a controllare o quanto meno ad influire sul processo di accumulazione nel settore privato o nel settore pubblico inteso in senso ampio. (Anche nel collettivismo si può avere una disuguaglianza nella distribuzione del reddito non imputabile ad attività lavorative differenziate nella qualità e nella specializzazione: l'appropriazione privilegiata di una quota del reddito da parte di alcuni gruppi dipende in questo caso dall'assetto politico e istituzionale, ma non dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, la cui abolizione, da sola, non assicura affatto l'attuazione del socialismo). Le critiche del secondo ordine (disuguaglianza imputabile alle diverse qualificazioni e specializzazioni) pongono la questione dell'accesso ai livelli medi e superiori dell'istruzione e, più in generale, quella dei rapporti fra distribuzione del reddito e divisione sociale del lavoro: una questione che un tempo fu molto dibattuta fra gli economisti (per esempio, da Smith e dai suoi epigoni), ma che oggi lo è solo eccezionalmente; è invece studiata da sociologi e da pedagogisti, i quali ultimi per le società più avanzate hanno posto, come prospettiva di lungo periodo, la questione della possibile graduale sostituzione della divisione orizzontale con una certa rotazione verticale del lavoro che quanto meno elimini i lavori più ripetitivi e più umilianti; naturalmente un tale processo implicherebbe l'accelerazione e, per certi aspetti, la modifica dell'evoluzione tecnologica. In una società come quella italiana, questo non sembra un problema urgente, come lo è invece quello delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e del potere economico e politico discendenti da altri motivi (quelle che ho chiamate diseguaglianze del primo ordine). Il pedagogista Visalberghi, tuttavia, sostiene che gli studiosi e gli uomini politici che vogliono vedere lontano e che vogliono operare in vista di una società senza classi debbono porsi il problema fin da adesso anche in Italia. | << | < | > | >> |Pagina 91Dove si trovano, quali sono gli strati socialmente più robusti della piccola borghesia? Ho già risposto, in parte, a questa domanda: si trovano in tutti i gruppi che formano questa classe composita. Sociologi e politici hanno concentrato la loro attenzione su due gruppi particolari: quello degli intellettuali e quello degli scienziati, dei tecnici e degli specialisti, di formazione molto recente (gli «intellettuali di tipo nuovo» di Gramscí). Ritengo che sia giusto soffermarsi in modo particolare su questi due gruppi, sia perché il grado di cultura critica è, in media, più elevato che negli altri gruppi, considerati nel loro complesso, sia perché anche la relativa «libertà di scelta» è più ampia. Benedetto Croce aveva torto quando considerava gl'intellettuali come persone totalmente libere e «indipendenti», addirittura come artefici collettivi ma autonomi della storia; aveva tuttavia ragione ad attribuire grande importanza nello svolgimento della storia a quella che egli chiamava «classe intellettuale». E Antonio Gramsci, che esortava «a fare i conti» in termini dialettici con la filosofia crociana («occorre rifare per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della prassi hanno fatto per la concezione hegeliana»), aveva ragione quando scriveva: Il pensiero del Croce... deve, per lo meno, essere apprezzato come valore strumentale, e così si può dire che esso ha energicamente attirato l'attenzione sull'importanza dei fatti di cultura e di pensiero sullo sviluppo della storia, sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello Stato, sul momento dell'egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto (Il materialismo storico e la filo- sofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino, 1953, pp. 199- 201). Coloro che, come chi scrive, si augurano che una profonda trasformazione dell'ordinamento sociale possa essere promossa, nel nostro paese, da una rinnovata e organica alleanza fra classe operaia ed ampi strati della piccola borghesia, debbono puntare soprattutto su quei due gruppi. Ma è necessario non farsi illusioni: anche in questi due gruppi la fascia socialmente solida, capace di sostenere gli sforzi di lungo periodo che una tale alleanza richiede, è ancora esile nel nostro paese. D'altra parte, in questi due gruppi particolari - intellettuali e tecnici -, come del resto negli altri gruppi e nelle altre classi sociali, non esiste solo una fascia civilmente robusta ed una fascia di topi, nel formaggio; esiste anche una larga fascia intermedia di individui personalmente onesti ma politicamente indifferenti, individui che sarebbero capaci di sacrificare alcuni loro interessi economici in nome di interessi civili più ampi. È anche su questa fascia che bisogna puntare per quella rinnovata alleanza. | << | < | > | >> |Pagina 125Le attuali difficoltà economiche e politiche sono in larga misura simili a quelle sperimentate da altri paesi; all'origine, io credo, c'è l'ascesa assoluta e relativa della classe operaia (si consideri in modo speciale il caso della Gran Bretagna; si considerino i recenti massicci scioperi in Giappone, i cui sindacati erano presentati come modelli di autocontrollo e di disciplina). Tuttavia, in Italia le difficoltà assumono una gravità particolare per ragioni connesse con la nostra struttura sociale. Noi siamo un paese relativamente sviluppato dal punto di vista economico; ma siamo un paese arretrato dal punto di vista civile. Ho già fatto osservare che il 70% della popolazione attiva del nostro paese possiede, al massimo, la licenza elementare: una percentuale che non trova riscontro in nessuno dei paesi considerati civili (v. la tabella 6.2). E sappiamo che, con la licenza elementare, si possono fare solo lavori ripetitivi: salvo casi eccezionali, non si può partecipare, neppure in forma modesta, alla gestione della cosa pubblica o dei partiti; di regola, non si può neppure gestire la sezione di un partito in un piccolo comune. Con la licenza elementare (che è il livello massimo di quel 70%) si giunge a scrivere qualche lettera alla madre o alla fidanzata quando l'uomo è sotto le armi e a leggere un giornale sportivo. (Certo, gli autodidatti possono svilupparsi culturalmente anche con la sola licenza elementare; ma è ben difficile pensare che si tratti di un numero elevato di persone). Quella percentuale è illuminante: spiega, da sola, perché le tirature dei giornali sono da noi vergognosamente limitate; spiega l'atteggiamento spesso arrogante e insolente dei piccoli burocrati, specialmente nelle zone più depresse, dove, naturalmente, la percentuale dei semianalfabeti è ancora più alta della media nazionale, come ben più alta di quella ufficiale è la percentuale degli analfabeti totali o degli analfabeti di ritorno; spiega il basso livello della nostra vita politica (ciascuno di noi, in quanto uomo di parte, è incline a vedere le miserie culturali e morali negli altri partiti e ad essere particolarmente indulgente con quelle del partito al quale appartiene o per il quale vota); spiega - ma qui l'analisi diventa molto più difficile - l'atteggiamento dei «mandarini» - di noi, piccoli e medi borghesi - che spesso inconsapevolmente tendono a trar vantaggio nei modi più diversi dalla loro posizione di quasi monopolisti dell'istruzione media e superiore. È vero: l'afflusso nelle scuole medie e superiori delle nuove leve è sensibilmente maggiore che nel passato, così che quella percentuale (70%) va diminuendo; ma la velocità con cui diminuisce (poco meno di due punti l'anno) non è grande: con una tale velocità solo fra due o tre lustri arriveremo al livello attuale della Francia (circa il 45%), che pure è fra i più alti nell'ambito dei paesi civili. |
| << | < | > | >> |RiferimentiP.T. Bauer e B.S. Yamey, The Economics of Underdeveloped Countries, Cambridge University Press, 1957 C. Clark, The Conditions to Economic Progress, Macmillan, London, 1957 M. Colitti, Le grandi imprese e lo Stato, Einaudi, Torino, 1972 Benedetto Croce, Il materialismo storico e la filosofia, Einaudi, Torino, 1953 F. Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884 Paolo Farneti, Il sistema politico italiano, Il Mulino, Bologna, 1973 Gino Germani, Sociologia della modernizzazione. L'esperienza dell'America Latina, Laterza, Bari, 1971 Ermanno Gorrieri, La giungla retributiva Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Einaudi, Torino, 1953 ", Note sul Machiavelli, Einaudi, Torino, 1953 A. Graziani, Nord e Sud nella società italiana di oggi, Fondazione Einaudi, Torino, 1968 Karl Marx, Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1965 ", Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1851 ", La guerra civile in Francia, 1871 ", Storia delle teorie economiche, Einaudi, Torino, 1955 Ernesto Rossi, Padroni del vapore e fascismo, Laterza, Bari, 1966 Giulio Salierno, Il sottoproletariato in Italia, Samonà e Savelli, Roma, 1972 Gaetano Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Feltrinelli, Milano, 1963 ", Scritti sul fascismo, Feltrinelli, Milano, 1961 Smith, Ricchezza delle nazioni, ed. Cannan, Methuen, Londra, 1961 Paolo Sylos Labini, Oligopolio e progresso tecnico, Giuffrè, Milano, 1956 E. Tagliacozzo, L'Italia vista dall'America, Feltrinelli, Milano, 1969 | << | < | |