|
|
| << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo primo
Terra
I. La notizia arrivò al mattino, la sorprese mentre abbrustoliva il pane. Iza le aveva mandato tre anni prima un pratico apparecchio dove le fette di pane si doravano di una crosta color rosa pallido in mezzo a filamenti elettrici; lei se l'era rigirato tra le mani, l'aveva esaminato per un po', poi l'aveva riposto nella sua scatola e messo in fondo all'armadio in cucina da dove non l'aveva piú tirato fuori. Non si fidava delle macchine, non si fidava nemmeno di qualcosa tanto abituale e quotidiano come l'elettricità. Se un corto circuito o un temporale interrompevano la corrente per un paio d'ore, tirava giú dalla credenza il candelabro di rame a due braccia, con le candele sempre pronte per precauzione, lo portava fuori dalla cucina, e quei rametti ardenti che teneva sopra la testa attraversando l'ingresso a piccoli passi sembravano le corna di un vecchio, mite, cervo. Non era riuscita neanche ad abituarsi all'idea del tostapane elettrico; le sarebbero mancate le soste accoccolata accanto al fuoco, il respiro particolare della brace simile a quello di un organismo vivente. I colori ininterrottamente cangianti dei tizzoni conferivano alla stanza una particolare vivezza; quando il fuoco era acceso, non si sentiva mai sola, anche se nell'appartamento non cera nessun altro a parte lei. Era là, accoccolata sul panchetto davanti allo sportello aperto della stufa, anche quando Antal suonò il campanello, lí per lí non seppe dove appoggiare il tridente in miniatura che usava per abbrustolire la fetta di pane e cosí se lo portò dietro fin nell'ingresso. Antal prima la guardò in silenzio, poi le afferrò il braccio, e il goffo gesto col quale la sfiorò tradí subito quel che non avrebbe voluto dire. Gli occhi della vecchia si inumidirono, ma le lacrime non colarono come se una forza misteriosa e tenace le trattenesse in bilico sul ciglio delle palpebre. Il suo senso di cortesia piú forte di un riflesso naturale, istintivo e al tempo stesso inculcato dall'educazione, la costrinse a mormorare un gutturale «Grazie figliolo». Delle due piccole stanze solo quella interna era riscaldata. Quando vi entrarono, la vecchia si risistemò sul panchetto, Antal si riscaldò le mani sul fianco della stufa. Non parlarono, si intesero però perfettamente nel loro mutismo. «Devo raccogliere le forze - pensò la vecchia, - l'ho amato tanto». «Riprenditi, abbiamo tutto il tempo che vogliamo - le rispose Antal mentalmente. - In realtà non ha senso che tu venga, perché là non c'è piú nessuno. Chi c'è ora, dall'alba di questa mattina, non è piú quello che conoscevi tu. Ma ti accompagno lo stesso, perché hai diritto di andare da lui, anche se non è piú niente». Al momento di partire, la vecchia s'infilò nel braccio la sporta per la spesa. In clinica andava sempre con la sporta, ci metteva dentro le cose che Vince aveva chiesto, o quelle che secondo lei gli sarebbero state utili: fazzoletti, biscotti, limoni. Le sfere gialle splendevano anche ora attraverso le maglie della rete. «Vuole esorcizzarla - pensò il medico. - Vuole esorcizzarla con quei tre piccoli, miseri limoni. Crede che la morte si spaventi se le mostra di non temerla. Crede di trovare papà ancora vivo se gli porta i limoni». Di notte c'era stata una leggera gelata, le scale erano scivolose, la vecchia non le aveva cosparse di segatura la sera prima. Antal la prese sotto braccio, la aiutò a scendere. La porta della legnaia era aperta e sulla soglia c'era Capitano che spiava da dietro un mucchio di neve sporca di fango, come fosse una corazza. Si sentiva che raspava nella paglia, aveva di nuovo disfatto la cuccia. La vecchia non guardò verso il capanno, le sue braccia all'improvviso s'irrigidirono, il respiro accelerò. «Anche lei ha avvertito la presenza di Capitano - pensò il medico, - finge di non vederlo. Capitano è nero. E oggi non bisogna vedere nero, solo bianco». Kolman, il gestore del Közért, l'emporio statale di alimentari, li osservò attraverso le porte di vetro del negozio mentre chiudevano il portone e si dirigevano verso la fermata dei taxi. «Sono appena le sette, a quanto pare la fine del vecchio è arrivata. Che peccato, era un ometto cosí tranquillo e paziente, si lasciava passare tutti davanti, persino gli uomini e i ragazzi, era sempre l'ultimo a tendere la sua bottiglia del latte. Le ragazze lo adoravano perché d'estate portava loro i fiori del suo giardino, e quando faceva freddo regalava zucche al forno e tè. E cosí se ne va anche lui, poverino. Chissà come starà male sua figlia, ogni mese gli spediva un mucchio di soldi da Pest, stando a quel che raccontava il postino. Ma che gli sarà preso ad Antal per separarsi da lei! Eppure anche lui non è una cattiva persona, tutti i pazienti che ha curato ne dicono un gran bene». Anche la vecchia pensò a Iza, quando salirono sul taxi davanti alla pasticceria. - Papà ha un cancro - aveva detto Iza con un tono di voce strano, freddo, tre mesi prima, quando aveva fatto una telefonata fuori programma dalla capitale per venire a vedere il padre. In bagno si era strofinata le mani con quei tipici gesti dei medici, lenti, scrupolosi, che aveva imparato durante il tirocinio da dottoranda. La vecchia si era all'improvviso chinata sul bordo della vasca perché il mondo davanti ai suoi occhi era diventato buio, s'era aggrappata al rubinetto, per un istante appena, era subito scattata in piedi e corsa fuori nell'ingresso perché aveva sentito la voce di Vince. - Che cosa state complottando voi due nascoste là dentro - aveva chiesto Vince irritato, ma lei l'aveva fissato con gli occhi sbarrati senza riuscire a spiccicar parola, con quel senso d'orrore e di paura che si può provare guardando un corpo che ha già iniziato a morire. Non era riuscita a rispondergli, non le era venuto in mente nulla. L'aveva salvata Iza, che era uscita dal bagno agitando le dita bianche e nervose sotto il naso del malato. - Non tutti sono dei vecchi sporcaccioni come Lei, - aveva detto, e il viso emaciato di Vince s'era illuminato. «Vecchio sporcaccione», era l'antica espressione di Iza, dell'Iza bambina che piagnucolava con il suo splendido nasino. - La gente normale come me, per esempio, si lava le mani piú volte al giorno - aveva detto la figlia, - e ora vada nella sua stanza altrimenti prende freddo. Se io avessi una carenza di succhi gastrici come lei mangerei della pepsina invece di saltellare da una parte all'altra. | << | < | > | >> |Pagina 1124.Da qualche tempo Iza si tratteneva all'ospedale oltre la fine dell'orario di lavoro. In realtà nessuno se ne stupí. Iza amava il suo lavoro e ogni giorno si dedicava ai suoi compiti con uno zelo superiore a qualunque altro collega. Ascoltava con interesse i lamenti dei malati; mentre discuteva con loro prendeva note e cercava di individuare non solo i punti dolenti negli arti o nelle articolazioni ma anche di collocare in qualche modo il paziente nel suo mondo. Iza credeva che per poter sconfiggere un male occorresse conoscere il corpo nella sua globalità, e le era anche chiaro che il decorso di una malattia dipendeva dal rapporto tra corpo e sistema nervoso. Ogni paziente rappresentava un problema appassionante da risolvere, nessuno si alzava da un suo consulto con la sensazione di essere stato abbandonato a se stesso con una ricetta in mano, sballottato da una parte all'altra dell'ospedale, infilato dentro un macchinario elettronico, sottoposto a una cura di punture, immerso nella vasca di un bagno a peso, come in una specie di invisibile catena di montaggio. Di fronte a Iza tutti sentivano immediatamente che quel medico li avrebbe trattati con la stessa attenzione di un paziente privato che paga profumatamente. Secondo il direttore lei era un'ottima diagnosta, il suo unico difetto era che si perdeva un po' troppo nelle minuzie, ed effettivamente visitava un numero di malati inferiore agli altri colleghi nel reparto, ma la proporzione delle sue guarigioni era piú alta. I malati vicino a lei si rilassavano, c'era anche chi le rovesciava addosso questioni private penose, Iza non congedava mai nessuno senza prima averlo ascoltato. Bardi, il collega più giovane, aveva composto un inno malizioso su Iza per uno spettacolo di carnevale, una volta aveva schizzato anche una sua caricatura rappresentandola con dieci paia di orecchie e un numero enorme di braccia, come fosse una specie di Shiva con il camice medico. Bardi era innamorato di Iza, ogni tanto diceva terribili oscenità sul suo conto solo perché si vergognava di venerarla troppo. Iza riceveva premi speciali piú frequentemente degli altri medici, tuttavia non se ne stupiva, da studentessa aveva vinto numerose borse di studio che la scuola talvolta le conferiva quasi controvoglia, obbligata dai suoi ottimi risultati. Era nata per eccellere negli studi, era sempre affidabile. Non si concedeva mai una giornata d'ozio, non sprecava un pomeriggio, preparava ogni esame seguendo un piano di lavoro ferreo, serio, meticoloso. Sua madre la prendeva in giro quando tornava a casa stanca morta dall'università e, invece di mangiare e coricarsi, cominciava a mettere in ordine qua e là. - Non ne hai avuto abbastanza per oggi? - chiedeva la madre sorridendo. - Se non chiudi come si deve il rubinetto dell'acqua e se lasci le tue scarpe abbandonate in mezzo al bagno - si lamentava Iza, - non posso andare a letto cosí -. Anche da bambina, quando prometteva qualcosa, si poteva contare sulla sua parola come fosse un adulto. Su quella di Vince, no. Vince mancava spesso alle sue promesse, o perché se ne scordava o perché non aveva i soldi per mantenerle. In questi casi la madre trovava Iza chiusa nella dispensa a piagnucolare tutta sola, stretta contro le mensole, e aveva la sgradevole sensazione che la bambina non piangesse tanto per il regalo mancato quanto piuttosto per il suo senso morale ferito dalla constatazione che qualcuno non aveva rispettato l'impegno preso. Bardi provava spesso un senso di disperazione quando veniva convocato dal direttore perché si era scordato di svolgere l'incarico assegnato sei mesi prima e vedeva sulla scrivania le statistiche di Iza, i suoi magnifici grafici, sentendosi ripetere che la relazione della Szocs era stata di nuovo la prima a essere consegnata. Non arrivava mai in ritardo, però non amava trattenersi la sera. Quando aveva finito il suo turno, e non era eccessivamente stanca, le piaceva uscire con i colleghi di lavoro, si sedevano in un locale a bere caffè, birra, si telefonavano, di tanto in tanto invitava qualcuno a fare una passeggiata, la maggior parte delle volte si trattava di una donna separata o di una ragazza giovane, Iza non amava ascoltare le madri felici né le donne che vivevano un matrimonio pieno d'armonia - il ricordo di Antal era ancora troppo vivo. Negli ultimi tempi, mentre metteva in ordine gli appunti, preparava un caffè, sfogliava i giornali, o restava semplicemente seduta a scarabocchiare un pezzo di carta, faceva, a modo suo, la stessa cosa della vecchia: ripensava alla sua vita, cosa che raramente aveva avuto il tempo di fare. Si scervellava per capire come agire con sua madre. Iza amava i suoi genitori, con l'attaccamento di una ragazzina, e nello stesso tempo con la passione di una compagna di sventure. Aveva capito in fretta perché, e in che cosa, la loro vita si differenziava da quella delle altre persone che conosceva, si era convinta - piú di sua madre! - che essere la figlia di Vince non fosse una vergogna bensí un onore, e la moglie di Vince dovesse essere fiera di un marito come lui. Le difficoltà materiali non la spaventavano, talvolta era persino divertente, con il suo cervello ancora da bambina, poter aiutare sua madre a sbrogliare problemi domestici all'apparenza insolubili. Iza era convinta che la sua visione del mondo si fosse plasmata su quella di Vince, una persona completamente priva di coscienza politica che agiva soltanto seguendo un innato istinto di umana onestà. E sapeva di aver potuto terminare gli studi, arrivando alla laurea, grazie al senso pratico della madre e alle sue astuzie per eludere la povertà. E cosí, appena ne ebbe l'opportunità, cercò di rimborsarla, in modo del tutto naturale, senza bisogno di essere sollecitata o pregata. A ogni giorno di paga, Bárdi si lamentava che del suo salario quindicinale gli restasse ben poco dopo averlo diviso con la «sua vecchia» di Szalka; Iza, invece, non aveva mai detto che aiutava qualcuno, o in generale che aveva ancora dei famigliari, e quando c'era da versare l'imposta sull'Assenza di prole o il Prestito della Pace non s'era mai lamentata di avere a suo carico la madre e il padre. Il viso provinciale della vecchia era conosciuto solo nella sua città natale, da poche persone, per lo piú ingenue e di scarsa intelligenza, che appartenevano al suo mondo e a quello di Vince. Quando chiese un permesso perché suo padre stava morendo e aveva intenzione di far trasferire sua madre da lei dopo il funerale, Bárdi, che s'era accollato il suo carico di lavoro, si senti troppo male per andarle a presentare le sue condoglianze - che diavolo si può dire in una circostanza del genere? Pensò che lui non avrebbe mai preso la madre con sé, preferiva darle i tre quarti dello stipendio e andare a dormire sotto i ponti! | << | < | > | >> |Pagina 248Quando senti nella cornetta l'operatrice che annunciava il nome della sua città natale pensò si trattasse di uno scherzo. La chiamavano di nuovo di laggiú a tradimento, senza rispetto per la sua pace, per il suo riposo domenicale. Si erano salutate appena la mattina prima. Mentre cercava di indovinare che cosa avesse potuto dimenticare a casa sua madre che doveva subito spedirle, le montarono agli occhi lacrime di rabbia. Chissà che cos'è rimasto fuori da quei due pesanti bagagli? L'ombrello?La linea stavolta era buona, irrealmente pulita. Sembrava che Antal fosse nella stanza accanto. Antal pronunciò due frasi, come se gli costasse fatica parlare, poi attaccò la cornetta senza darle il tempo di porre neanche una domanda. La centralinista s'informò stupita se avessero già finito, e quando anche Iza abbassò la cornetta, il telefono squillò ancora un paio di volte come se l'operatrice non volesse capacitarsi che qualcuno avesse prenotato una chiamata urgente per dire due sole frasi. Si lasciò cadere sulla sedia accanto al tavolino del telefono in salotto, le gambe non la reggevano piú. Quel che aveva sentito era incredibile, inconcepibile, inspiegabile. Le era sembrato che Antal avesse parlato piangendo e avesse buttato giú la cornetta perché non aveva la forza di tenerla in mano. Con una specie di riflesso condizionato, frutto di tanti anni di pratica medica, rovesciò la testa all'indietro e cominciò a massaggiarsi la nuca con le dita fredde, leggermente curve. Nella sua vita non era mai stata cosí vicina a svenire. Respirò a fondo e alla fine riuscí a rimettersi in piedi. Non provò neanche ad analizzare la sensazione che l'aveva afferrata, si accontentò di dominare il malore. Scoppiò in lacrime, s'accorse stupita che stava piangendo e lanciava grida disarticolate. Arrivò brancolando fino all'armadietto delle medicine. Iza a casa affrontava solo malattie concrete, il tubetto dei calmanti giaceva intatto tra la calmopirina e la diacilina, riuscí a malapena a strappare il cellofan che li avvolgeva. Prese una pastiglia, tornò nella sua stanza, si buttò di nuovo sul letto. Ormai era certa che non provava semplice tristezza, turbamento, disperazione. L'urlo che prima aveva lanciato era disumano, era l'urlo di un animale selvatico che finalmente è riuscito a nascondersi nella vegetazione dopo una fuga terribile e all'improvviso ode il fruscio dei cacciatori che si avvicinano e capisce che deve di nuovo scappare. Ma scappare dove? si chiese Iza tremando. C'era un luogo dove i cacciatori non l'avrebbero scovata? Si coprí con le mani il volto gonfio di pianto. Un tempo, da ragazza, era terribilmente orgogliosa, non avrebbe mai ammesso che il dolore poteva piegarla, mandarla al tappeto. In quel momento, sola con se stessa, in quella casa ormai perfettamente vuota, non era piú cosí superba: all'improvviso si aprirono in lei tutte le ferite, anche quelle rimarginate da tempo; si ritrovò di nuovo laggiú, nella casa con la grondaia a bocca di drago, a scalpitare aspettando che Antal finisse di riempire le valigie, sentí anche la voce di Dekker che le diceva: - Vince ha un cancro, Iza, se lo ama, gli auguri una morte veloce -. In quel momento ebbe la strana sensazione che i fogli delle analisi si animassero tra le sue dita! Provò a richiamare alla mente il volto di sua madre, ma non ci riuscí. Era come se le avessero rubato i ricordi, le apparve soltanto la sua figura, con le spalle incurvate, la nuova linea del collo che negli ultimi tre mesi era cosí stranamente cambiata. La vecchia in quel periodo fissava sempre soltanto gli occhi a terra quando camminava, non alzava mai lo sguardo al cielo. La solitudine, che un attimo prima tanto aveva gustato, le cadde addosso come un macigno. Ora era bello sapere che Domokos esisteva da qualche parte, che poteva cercarlo, sfogare il suo dolore, raccontargli ciò che era successo, e chiedergli di tornare a casa da lei. Si lavò il viso, si aggiustò i capelli, si vestí. La pillola che aveva preso cominciava a fare effetto. «Com'è utile - pensò disgustata, - una persona si sente a pezzi, poi ingoia una pastiglietta e si calma». Il panico che l'aveva colta s'attenuò. Chiamò il suo direttore, fu già in grado di parlargli con assoluta compostezza, scrisse un biglietto a Teréz, raccolse le cose per il viaggio. Andò avanti e indietro, l'appartamento le sembrava all'improvviso miracolosamente piú grande, come se la consapevolezza che la vecchia non si sarebbe mai piú seduta muta nella sua stanza, non avrebbe piú abbassato maldestramente le tapparelle lasciandole cadere di colpo, avesse dilatato i muri delle stanze. Non aveva piú né il padre né la madre, era un'esperienza sconosciuta, ancora grezza, cercava di saggiarne gli effetti, come con il filo di un coltello. Indossò il cappotto. Il giorno prima Domokos le aveva detto dove sarebbe andato a tenere la conferenza ma lei non ci aveva fatto caso, non le interessava. Era troppo felice al pensiero di una domenica libera per riuscire ad ascoltarlo. Ma se si fosse sforzata un po' le sarebbe venuto in mente quel che aveva detto, il posto dove andava. E le venne in mente. Chiamò un taxi, andò a cercare il suo compagno alla conferenza. La sala cultura della fabbrica era gremita di pubblico, erano tutti di buonumore, indossavano i vestiti della domenica. C'era qualcosa di gradevole nell'atmosfera che si respirava in sala. Chiunque poteva entrare, non c'era bisogno di biglietti, non c'erano guardasala. Domokos parlava con fervore, era molto allegro e loquace, mostrava un volto completamente nuovo: gesticolava appoggiato al tavolo, rideva, raccontava particolari della sua infanzia che non aveva mai rivelato nemmeno a Iza. Il pubblico ascoltava sorridente, lo interrompeva per porre domande. Quando Iza entrò in sala la porta cigolò, Domokos alzò gli occhi nella direzione del rumore, lí per lí non capi chi stava guardando, poi, all'improvviso il suo viso mutò espressione, smarrí la rilassatezza, si stupí, s'imbarazzò. Le persone che avevano voltato la testa indietro di scatto, sentendo la porta aprirsi inaspettatamente, si rabbuiarono anch'esse, pur senza capire perché, in fondo era entrata soltanto una donna che poteva arrivare da qualunque parte, poteva essere una della fabbrica come loro o magari un'impiegata dell'Ufficio centrale biblioteche o dell'Unione degli scrittori, e si era rincantucciata silenziosamente nell'ultima fila. Domokos si bloccò a metà d'una frase, disse che probabilmente aveva risposto a tutte le domande, fece un inchino, strinse la mano alle due persone che erano sedute al tavolo della conferenza, a destra e a sinistra, prese il mazzo di fiori che gli tendeva una ragazzina smarrita, e andò da Iza, la afferrò per le braccia, la guardò in faccia. Iza scoppiò subito in lacrime. I lettori in sala li guardarono come se avessero assistito a qualcosa di mortificante; prima dell'entrata di Iza, nel salone aleggiava un'impalpabile serenità che smentiva la stagione nella quale erano, c'era un'atmosfera fresca, primaverile, ora invece tutto s'era ingrigito, cessò l'effetto brillante delle frasi appena riecheggiate là dentro. «Non è bello - pensò il bibliotecario, - non si fa cosí». Era deluso, preoccupato, e anche triste, stancamente e incomprensibilmente triste. L'auto di Domokos era parcheggiata davanti alla fabbrica, sul lato sinistro del piazzale - l'aveva comprata da due giorni, non erano mai saliti a bordo insieme. L'uomo tirò a sé Iza, le aggiustò i capelli all'indietro con le dita come se fosse una bambina: - Che cos'è successo? - domandò. - Dove ti porto? Era bello essere insieme a lui, indicibilmente bello. In quel momento Antal fu di nuovo lontano da lei, Antal era diverso, piú passionale, e nello stesso tempo piú difficile. - A casa. Non da me, nel mio appartamento. A casa.
Di fronte a lui Iza non aveva mai chiamato cosí la città
natale che aveva abbandonato, ma Domokos capi lo stesso.
Non poteva sinceramente immaginare perché fosse tanto
sconvolta, ma quando si rese conto della tragedia sollevò di
scatto le mani dal volante. Tacque, lasciò che Iza si sfogasse nel pianto,
arrivarono davanti al suo appartamento, salí,
in meno di cinque minuti ritornò con una specie di valigetta, poi andarono da
Iza, suonò al portinaio per farsi aprire l'ascensore. «Sa anche questo - pensò
Iza, - sa che non riuscirei a salire a prendere i bagagli, in questo momento la
casa mi fa orrore. Che strano; come fa a saperlo? Perché è
uno scrittore? O perché mi ama?»
|