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| << | < | > | >> |Indice5 Prefazione alla seconda edizione IL GIOCO DEL ROVESCIO 9 Il gioco del rovescio 25 Lettera da Casablanca 41 Teatro 55 I pomeriggi del sabato 77 Il piccolo Gatsby 93 Dolores Ibarruri versa lacrime amare 101 Paradiso celeste 123 Voci ALTRI RACCONTI 135 Il gatto dello Cheshire 143 Vagabondaggio 155 Una giornata a Olimpia |
| << | < | > | >> |Pagina 9Quando Maria do Carmo Meneses de Sequeira morì, io stavo guardando Las Meninas di Velàzquez al museo del Prado. Era un mezzogiorno di luglio e io non sapevo che lei stava morendo. Restai a guardare il quadro fino alle dodici e un quarto, poi uscii lentamente cercando di trasportare nella memoria l'espressione della figura di fondo, ricordo che pensai alle parole di Maria do Carmo: la chiave del quadro sta nella figura di fondo, è un gioco del rovescio; attraversai il giardino e presi l'autobus fino alla Puerta del Sol, pranzai in albergo, un gazpacho ben freddo e frutta, e andai a coricarmi per ingannare la calura meridiana nella penombra della mia camera. Mi svegliò il telefono verso le cinque, o forse non mi svegliò, mi trovavo in uno strano dormiveglia, fuori ronzava il traffico della città e nella camera ronzava il condizionatore d'aria che però nella mia coscienza era il motore di un piccolo rimorchiatore azzurro che attraversava la foce del Tago al crepuscolo, mentre io e Maria do Carmo stavamo a guardarlo. C'è una chiamata da Lisbona, mi disse la voce della telefonista, poi sentii la piccola scarica elettrica del commutatore e una voce maschile, neutra e bassa, mi chiese il nome e poi disse: sono Nuno Meneses de Sequeira, Maria do Carmo è morta a mezzogiorno, i funerali saranno domani alle diciassette, le telefono per sua espressa volontà. Il telefono fece clic e io dissi: pronto pronto. Hanno riattaccato signore, disse la telefonista, la comunicazione è interrotta. Presi il Lusitânia-Express della mezzanotte. Portai con me solo una piccola valigia con lo stretto necessario e pregai il portiere di mantenere riservata la camera per due giorni. La stazione era quasi deserta, a quell'ora. Non avevo prenotato la cuccetta e il capotreno mi assegnò uno scompartimento in fondo al convoglio dove c'era un altro passeggero, un signore corpulento che russava. Mi preparai a una notte di insonnia, con rassegnazione, ma contrariamente al previsto fino ai dintorni di Talavera de la Reina dormii profondamente. Poi giacqui immobile, sveglio, a guardare il finestrino buio sul buio deserto dell'Estremadura. Avevo molte ore per pensare a Maria do Carmo. La Saudade, diceva Maria do Carmo, non è una parola, è una categoria dello spirito, solo i portoghesi riescono a sentirla, perché hanno questa parola per dire che ce l'hanno, lo ha detto un grande poeta. E allora cominciava a parlare di Fernando Pessoa. Passavo a prenderla dalla sua casa di Rua das Chagas verso le sei del pomeriggio, lei mi aspettava da dietro una finestra, quando mi vedeva imboccare Largo Camões apriva il pesante portone e scendevamo verso il porto girovagando per Rua dos Fanqueiros e Rua dos Douradores, facciamo un itinerario fernandino, diceva lei, questi erano i luoghi prediletti di Bernardo Soares, aiutante contabile nella città di Lisbona, semieteronimo per definizione, era qui che faceva la sua metafisica, in queste botteghe di barbiere. A quell'ora la Baixa era affollata di gente frettolosa e vociante, gli uffici delle compagnie di navigazione e delle imprese commerciali chiudevano gli sportelli, alle fermate dei tram c'erano lunghe file, si sentiva il grido propagandistico dei lustrascarpe e degli strilloni. Ci infilavamo nella confusione di Rua da Prata, attraversavamo Rua da Conceição e scendevamo verso il Terreiro do Paço, bianco e malinconico, dove i primi traghetti affollati di pendolari salpavano per l'altra riva del Tago. Questa è già una zona di Álvaro de Campos, diceva Maria do Carmo, in poche strade siamo passati da un eteronimo all'altro.
A quell'ora la luce di Lisbona era bianca verso la foce
e rosata sulle colline, gli edifici settecenteschi parevano
un'oleografia e il Tago era solcato da una miriade di battelli. Avanzavamo verso
i primi moli, quei moli dove Álvaro de Campos andava ad aspettare nessuno, come
diceva Maria do Carmo, e lei recitava qualche verso dell'
Ode Marittima,
il passo in cui il piccolo piroscafo disegna la
sua sagoma all'orizzonte e Campos sente un volano che
comincia a ruotare dentro il suo petto. Il crepuscolo stava
calando sulla città, si accendevano le prime luci, il Tago
brillava di riflessi cangianti, negli occhi di Maria do Carmo c'era una grande
malinconia. Forse sei troppo giovane per capire, alla tua età io non avrei
capito, non avrei immaginato che la vita fosse come un gioco che giocavo nella
mia infanzia a Buenos Aires, Pessoa è un genio perché
ha capito il risvolto delle cose, del reale e dell'immaginato,
la sua poesia è un
juego del revés.
Il treno era fermo, dal finestrino si vedevano le luci della cittadina di frontiera, il mio compagno di viaggio aveva il volto sorpreso e scomposto di chi è svegliato improvvisamente dalla luce, il poliziotto sfogliò attentamente il mio passaporto, viene spesso nel nostro paese, disse, cosa ci trova di tanto interessante? La poesia barocca, risposi. Come dice?, mormorò. Una signora, dissi io, una signora con un nome bizzarro, Violante do Céu. È bella?, chiese lui con malizia. Forse, dissi io, è morta da tre secoli ed è sempre vissuta in convento, era una monaca. Lui scosse il capo e si lisciò i baffi con aria sorniona, mi mise il visto e mi porse il passaporto. Voi italiani amate sempre scherzare, disse, le piace Totò? Moltissimo, dissi io, e a lei? Io ho visto tutti i suoi film, disse lui, mi piace più di Alberto Sordi.
Il nostro era l'ultimo scompartimento da controllare.
Lo sportello si chiuse con un tonfo. Dopo qualche secondo
qualcuno sul marciapiede fece oscillare una lanterna e il
treno si mise in movimento. Le luci si spensero di nuovo,
restò solo la lampada azzurrina, era notte fonda, stavo entrando in Portogallo
come tante altre volte nella mia vita,
Maria do Carmo era morta, provavo una sensazione strana, come se dall'alto
stessi a guardare un altro me stesso che in una notte di luglio, dentro lo
scompartimento di un treno semibuio, stesse entrando in un paese straniero per
andare a vedere una donna che conosceva bene e che era morta. Era una sensazione
che non avevo mai provato e mi venne da pensare che aveva qualcosa a che fare
col rovescio.
Il gioco consisteva in questo, diceva Maria do Carmo, ci mettevamo in cerchio, quattro o cinque bambini, facevamo la conta, a chi toccava andava in mezzo, lui sceglieva uno a piacere e gli lanciava una parola, una qualsiasi, per esempio mariposa, e quello doveva pronunciarla subito a rovescio, ma senza pensarci sopra, perché l'altro contava uno due tre quattro cinque, e a cinque aveva vinto, ma se tu riuscivi a dire in tempo asopiram, allora eri tu il re del gioco, andavi in mezzo al cerchio e lanciavi la tua parola a chi volevi tu. Salendo verso la città Maria do Carmo mi raccontava la sua infanzia bonairense di figlia di esiliati, immaginavo un cortile di periferia popolato di bambini, feste malinconiche e povere, c'era pieno di italiani, diceva, mio padre aveva un vecchio grammofono a tromba, dal Portogallo aveva portato con sé qualche disco di fado, era il Trentanove, la radio diceva che i franchisti avevano preso Madrid, lui piangeva e metteva i dischi, nei suoi ultimi mesi me lo ricordo così, in pigiama su una poltrona che piangeva in silenzio ascoltando i fados di Hilário e di Tomás Alcaide, io scappavo in cortile a giocare il juego del revés.
Era calata la sera. Il Terreiro do Pago era quasi deserto, il cavaliere di
bronzo, verde dal salmastro, pareva assurdo, andiamo a mangiare qualcosa in
Alfama, diceva Maria do Carmo, arroz de cabidela, per esempio, è un piatto
sefardita, gli ebrei non tiravano il collo alle galline, gli
mozzavano la testa e col sangue ci facevano il riso, conosco una taverna dove lo
fanno come da nessun'altra parte, in cinque minuti ci arriviamo. Passava, lento
e sferragliante, un tram giallo pieno di visi stanchi. Lo so cosa pensi,
diceva lei, perché ho sposato mio marito, perché vivo in
quel palazzotto assurdo, perché sto qui a giocare alla contessa, quando lui
arrivò a Buenos Aires era un ufficiale
elegante e cortese, io ero una ragazzina malinconica e
povera, non ce la facevo più a vedere quel cortile dalla
mia finestra, e lui mi portò via da quel grigiore, da una
casa con le lampade di poche candele e la radio accesa all'ora di cena, non
posso lasciarlo, nonostante tutto, non posso dimenticare.
Il mio compagno di viaggio mi chiese se poteva avere
il piacere di invitarmi a prendere il caffè. Era uno spagnolo cerimonioso e
gioviale che faceva frequentemente quella linea. Nel vagone ristorante
conversammo amabilmente, scambiando impressioni circostanziate e formali, piene
di luoghi comuni. I portoghesi hanno un buon caffè, disse,
ma questo non li aiuta molto, a quanto pare, sono così
melanconici, mancano di salero, non le pare? Gli dissi che
forse lo avevano sostituito con la saudade, lui concordò,
ma preferiva il salero. La vita è una sola, disse, bisogna
saperla vivere caro signore. Non gli chiesi come faceva nel
suo caso, e parlammo d'altro, di sport mi pare, lui adorava lo sci, la montagna,
il Portogallo era proprio infrequentabile sotto questo punto di vista. Gli
obiettai che anche lì c'erano montagne, oh la Serra da Estrela, esclamò,
un'imitazione di montagna, per arrivare ai duemila
metri hanno dovuto mettere un'antenna. È un paese marittimo, dissi io, un paese
di gente che si è buttata nell'oceano, hanno dato al mondo pazzi dignitosi e
urbani, schiavisti e poeti malati di lontananze. A proposito, chiese, come si
chiamava quella poetessa che ha nominato stanotte? Soror Violante do Céu, dissi,
anche in spagnolo avrebbe un nome splendido, Madre Violante del Cielo, è
una grande poetessa barocca, ha passato la vita a sublimare il desiderio per un
mondo al quale aveva rinunciato. Non sarà meglio di Góngora, chiese con una
certa preoccupazione. Diversa, dissi io, con meno salero e più saudade,
naturalmente.
L'arroz de cabidela aveva un sapore raffinatissimo e un
aspetto ripugnante, era servito in un grande vassoio di
terracotta con un cucchiaio di legno, il sangue e il vino
bolliti formavano un sugo denso e castano, i tavoli erano
di marmo, fra una fila di botti e un bancone di zinco dominato dalla corpulenza
del signor Tavares, a mezzanotte
arrivava un fadista dall'aspetto macilento accompagnato
da un vecchietto con la viola e da un distinto signore con
la chitarra, cantava antichi fados fiochi e languidi, il signor Tavares spengeva
le luci e accendeva le candele sulle mensole, gli avventori di passaggio se ne
erano già andati, restavano solo gli affezionati, il locale si riempiva di fumo,
a ogni finale c'era un applauso discreto e solenne, qualche voce chiedeva
Amor é agua que corre, Travessa da Palma,
Maria do Carmo era pallida, o forse era la luce delle candele, o forse aveva
bevuto troppo, teneva lo sguardo fisso
e le sue pupille erano grandi, la luce delle candele ci ballava dentro, mi
sembrava più bella del solito, accendeva
una sigaretta con fare trasognato, ora basta, diceva, andiamo via, saudade sì ma
a basse dosi, è bene non farne indigestione, l'Alfama era semideserta, ci
fermavamo al belvedere di Santa Luzia, c'era una pergola spessa di buganvillea,
appoggiati al parapetto guardavamo le luci del
Tago, Maria do Carmo diceva
Lisbon revisited
di Alvaro de Campos, una poesia nella quale una persona è alla
stessa finestra della sua infanzia, ma non è più la stessa
persona e non è più la stessa finestra, perché il tempo
cambia uomini e cose, cominciavamo a scendere verso il
mio albergo, lei mi prendeva la mano e mi diceva: senti,
chissà cosa siamo, chissà dove siamo, chissà perché ci
siamo, senti, viviamo questa vita come se fosse un revés,
per esempio stanotte, tu devi pensare che sei me e che
stai stringendo te fra le tue braccia, io penso di essere
te che sto stringendo me fra le mie braccia.
Ad ogni modo non è che io ami molto Góngora, disse il mio compagno di viaggio, non lo capisco, ci vuole il vocabolario, e poi non sono tagliato per la poesia, preferisco el cuento, per esempio Blasco Ibáñez, le piace Blasco Ibáñez? Moderatamente, dissi io, forse non è il mio genere. E allora chi, forse Pérez Galdós? Ecco sì, ora va già meglio, dissi io. Il cameriere ci servì il caffè su un vassoio sfavillante, aveva una faccia insonnolita, faccio un'eccezione per i signori perché queste non sono ore per il wagon-restaurant, fanno venti scudi. Nonostante tutto i portoghesi sono gentili, disse il mio compagno di viaggio. Perché nonostante tutto, dissi io, sono gentili, siamo giusti.
Stavamo attraversando una zona di cantieri e di fabbriche, non era ancora
giorno chiaro. Vogliono stare sull'ora di Greenwich, ma in realtà secondo il
sole è un'ora di meno, e poi ha mai visto una corrida portoghese?, il
toro non lo ammazzano, sa, il torero gli balla intorno per
mezz'ora e poi alla fine fa un gesto simbolico con il braccio puntato a spada,
entra una mandria di vacche col campanaccio, il toro si intruppa nel branco e
tutti a casa, olé, se questo le pare torear. Forse è più elegante, dissi
io, per ammazzare qualcuno non sempre è necessario ucciderlo, a volte basta un
gesto. Macché, disse lui, il duello fra l'uomo e il toro deve essere mortale,
altrimenti è una pantomima ridicola. Ma tutte le cerimonie sono una
stilizzazione, obiettai, questa mantiene solo l'involucro, il gesto, mi sembra
più nobile, più astratta. Il mio compagno
di viaggio parve riflettere. Può darsi, disse senza convinzione, ah guardi,
siamo alla periferia di Lisbona, sarà meglio tornare nello scompartimento a
preparare i bagagli.
È una cosa abbastanza delicata, non avevamo il coraggio di chiedertelo, ne abbiamo discusso, può anche presentare degli inconvenienti, voglio dire il massimo che ti può succedere è che ti rifiutino il visto di ingresso alla frontiera, senti non vogliamo tacerti niente, il corriere prima lo faceva Jorge, era l'unico che aveva un passaporto della Fao, sai che ora è a Winnipeg, insegna in un'università canadese, non abbiamo ancora trovato il modo di sostituirlo. Le nove di sera, piazza Navona, su una panchina. Lo guardavo, forse avevo un'espressione perplessa, non sapevo cosa pensare, mi sentivo vagamente imbarazzato, a disagio, come quando si parla con una persona che si conosce da tempo e un giorno ti rivela una cosa che non ti aspettavi. Non vogliamo coinvolgerti, sarebbe una cosa eccezionale, credimi siamo desolati di dovertelo chiedere, anche se ci dirai di no la nostra amicizia per te non cambierà, lo sai, insomma, riflettici, non pretendiamo una risposta ora, sappi solo che ci daresti un grande aiuto.
Andammo a prendere un gelato a un caffè della piazza,
scegliemmo un tavolino all'aperto, lontano dalla gente.
Francisco aveva un'espressione tesa, forse anche lui imbarazzata, sapeva che si
trattava di una cosa che se anche avessi rifiutato non avrei potuto dimenticare
come niente, ecco, forse aveva proprio paura di un mio possibile
rimorso. Prendemmo due granite al caffè. Stemmo in silenzio a lungo, sorbendo
lentamente le bibite ghiacciate.
Sono cinque lettere, disse Francisco, e una somma di denaro per le famiglie di
due scrittori che sono stati arrestati il mese scorso. Mi disse i nomi e aspettò
che parlassi. Io tacqui e bevvi un po' d'acqua. Credo che non sia necessario
dirti che è denaro pulito, è la manifestazione di solidarietà di tre partiti
democratici italiani ai quali abbiamo chiesto aiuto, se lo ritieni opportuno ti
posso far incontrare con gli esponenti dei partiti in questione, te lo
confermeranno. Dissi che non lo ritenevo opportuno, pagammo, prendemmo a
passeggiare lungo la piazza. D'accordo,
dissi, io parto fra tre giorni. Mi dette una stretta di mano
rapida ed energica, mi ringraziò, e ora ricordati cosa devi
fare, è una cosa semplicissima, mi scrisse un numero su
un biglietto, quando arrivi a Lisbona telefona a questo
numero, se ti risponde una voce maschile riattacca, insisti finché non ti
risponde una voce femminile, allora devi dire: è uscita una nuova traduzione di
Fernando Pessoa. Ti dirà come incontrarvi, è lei che tiene i rapporti fra i
fuoriusciti che abitano a Roma e le famiglie rimaste in patria.
Era stato facilissimo, come aveva previsto Francisco.
Alla frontiera non mi avevano neppure fatto aprire le valigie. A Lisbona mi ero
fermato in un alberghetto del centro, dietro al teatro della Trindade, a due
passi dalla biblioteca nazionale, dove c'era un portiere algarvio cordiale
e ciarliero. Al primo tentativo telefonico mi aveva risposto
una voce di donna e io avevo detto: buonasera, sono un italiano, volevo
informarla che è uscita una nuova traduzione di Fernando Pessoa, forse può
interessarla. Ci vediamo fra mezz'ora alla libreria Bertrand, aveva risposto,
nella sala delle riviste, io sono sui quarant'anni, ho i capelli scuri e porto
un vestito giallo.
Nuno Meneses de Sequeira mi ricevette alle due del pomeriggio. Quando avevo telefonato la mattina mi aveva risposto un domestico, il signor conte ora sta riposando, per questa mattina non può riceverla, passi alle due del pomeriggio. Ma dov'è la salma della signora? Non saprei dirglielo signore, mi scusi, venga alle due del pomeriggio per favore. Presi una stanza al mio solito alberghetto dietro il teatro della Trindade, feci una doccia e mi cambiai di vestito. Era già un po' che non la si vedeva, mi disse il portiere, l'algarvio cordiale. Cinque mesi dalla fine di febbraio, dissi. E il lavoro, chiese lui, sempre per biblioteche? Così vuole il destino, risposi.
Largo Camões era inondato dal sole, nella piazzetta
c'erano i colombi posati sulla testa del poeta, qualche
pensionato sulle panchine, vecchietti dignitosi e tristi, un
soldato e una servetta, la malinconia della domenica. Rua
das Chagas era deserta, passava qualche raro taxi vuoto,
la brezza marina non era sufficiente ad alleviare la calura
spessa e umida. Mi fermai in un caffè per cercare un po'
di fresco, era solitario e sporco, sul soffitto ronzavano
inutilmente le pale di un enorme ventilatore, il padrone
sonnecchiava dietro al banco, chiesi un
sumo
ghiacciato, lui scacciò le mosche con uno straccio e aprì stancamente
il frigorifero. Non avevo mangiato e non avevo fame. Mi
sedetti a un tavolo e accesi una sigaretta, aspettando l'ora.
Nuno Meneses de Sequeira mi ricevette in un salone barocco con molti stucchi sul soffitto e due grandi arazzi rosicchiati sulle pareti. Era vestito di nero, aveva il viso lustro, il cranio calvo scintillava, stava seduto su una poltrona di velluto cremisi, quando entrai si alzò in piedi, fece un impercettibile inchino con la testa e mi invitò a sedere su un divanetto sotto la finestra. Le imposte erano chiuse e nella stanza ristagnava un odore greve di vecchia tappezzeria. Come è morta?, chiesi. Aveva una brutta malattia, disse, non lo sapevo? Scossi la testa. Che genere di malattia? Nuno Meneses de Sequeira intrecciò le mani in grembo. Una brutta malattia, disse. Mi ha telefonato a Madrid quindici giorni fa, non mi ha detto niente, neanche un accenno, lo sapeva già? Stava già molto male, ed era al corrente. Perché non mi ha detto niente? Forse non lo ha ritenuto opportuno, disse Nuno Meneses de Sequeira, le sarei grato se non venisse al funerale, sarà in forma strettamente privata. Non ne avevo intenzione, lo rassicurai. Le sono grato, mormorò flebilmente. Il silenzio nella sala diventò tangibile, incomodo. Posso vederla?, chiesi. Nuno Meneses de Sequeira mi guardò a lungo, con aria ironica, mi parve. Non è possibile, disse, è alla clinica Cuf, è morta là, e poi il medico ha dato ordine di chiuderla, non era possibile lasciarla aperta, date le condizioni. Pensai di accomiatarmi, pensai per quale motivo mi aveva telefonato, anche se era una volontà di Maria do Carmo, a quale scopo farmi andare a Lisbona, c'era qualcosa che mi sfuggiva, o forse non c'era niente di strano, quella situazione era semplicemente penosa, era inutile prolungarla oltre. Ma Nuno Meneses de Sequeira non aveva finito di parlare, teneva le mani sui braccioli della poltrona come chi sta per alzarsi da un momento all'altro, aveva gli occhi acquosi e un'espressione tesa, cattiva, o forse era la tensione nervosa che doveva provare. Lei non l'ha mai capita, disse, è troppo giovane, era troppo più giovane di Maria do Carmo. E lei troppo più vecchio, avrei voluto dire, ma tacqui. Si occupa di filologia, ah ah, fece una risatina, la sua vita sono le biblioteche, lei non poteva capire una donna così. Si spieghi meglio, dissi. Nuno Meneses de Sequeira si alzò, andò alla finestra, dischiuse leggermente le imposte. Vorrei toglierle un'illusione, disse, quella di aver conosciuto Maria do Carmo, lei ha conosciuto solo una finzione di Maria do Carmo. Si spieghi meglio, ripetei. Bene, sorrise Nuno Meneses de Sequeira, immagino cosa le avrà raccontato Maria do Carmo, una storia lacrimosa di un'infanzia infelice a New York, un padre repubblicano che è morto eroicamente nella guerra civile spagnola, mi stia bene a sentire egregio signore, io non sono mai stato a New York in vita mia, Maria do Carmo è figlia di grandi proprietari, ha avuto un'infanzia dorata, quindici anni fa, quando l'ho conosciuta, aveva ventisette anni ed era la donna più corteggiata di Lisbona, io rientravo da una missione diplomatica in Spagna ed entrambi avevamo in comune l'amore per il nostro paese. Fece una pausa come per dare maggior peso alle sue parole. L'amore per il nostro paese, ripeté, non so se mi faccio capire. Dipende in che senso usa la parola, dissi io. Nuno Meneses de Sequeira si aggiustò il nodo della cravatta, cavò di tasca un fazzoletto, assunse un'aria seccata e insieme impaziente. Mi stia bene a sentire, a Maria do Carmo piaceva molto un gioco, lo ha giocato per tutta la vita, lo abbiamo sempre giocato di comune accordo. Feci un cenno con la mano, come per impedirgli di continuare, ma lui seguitò: lei deve essere capitato in un suo rovescio. Una pendola, in una stanza lontana, suonò. A meno che non sia capitato lei nel rovescio del suo rovescio, dissi. Nuno Meneses de Sequeira sorrise ancora, che bello, disse, potrebbe proprio essere una frase di Maria do Carmo, è legittimo che lei pensi a questa ipotesi, anche se è una presunzione, mi creda. C'era una vena di disprezzo nella sua voce sommessa. Restai in silenzio, a occhi bassi, guardando il tappeto, era un tappeto di Arraiolos di un azzurro profondo con dei pavoni grigi. Sono desolato che lei mi costringa a essere più esplicito, riprese Nuno Meneses de Sequeira, suppongo che le piaccia Pessoa. Mi piace molto, ammisi. Allora forse sarà anche al corrente delle traduzioni che escono all'estero. Che cosa vuol dire?, chiesi. Niente di speciale, disse lui, solo questo, che Maria do Carmo riceveva molte traduzioni dall'estero, lei mi capisce, vero? Non la capisco, dissi io. Diciamo che non vuole capirmi, mi corresse Nuno Meneses de Sequeira, che preferisce non capirmi, e io capisco che preferisca non capirmi, la realtà è sgradevole e lei preferisce i sogni, la prego non mi obblighi ai dettagli, i dettagli sono sempre così volgari, limitiamoci al concetto. Dalla finestra arrivò il suono di una sirena, forse una nave che entrava in porto, e immediatamente sentii un enorme desiderio di essere uno di quei passeggeri di quella nave, di entrare nel porto di una città sconosciuta che si chiamava Lisbona e di dover chiamare al telefono una donna sconosciuta per dirle che era uscita una nuova traduzione di Fernando Pessoa, e quella donna si chiamava Maria do Carmo, sarebbe venuta alla libreria Bertrand indossando un vestito giallo, amava il fado e i piatti sefarditi, e io sapevo già tutto questo, ma quel passeggero che ero io e che guardava Lisbona dal parapetto della nave non lo sapeva ancora e tutto sarebbe stato per lui nuovo e identico. E questa era Saudade, Maria do Carmo aveva ragione, non era una parola, era una categoria dello spirito. A suo modo, anch'essa, era un rovescio. | << | < | > | >> |Pagina 93Era un bambino allegro, davvero allegro, rideva sempre, così allegro, e aveva anche il senso dell'umorismo, per esempio mia sorella Elsa aveva la mania delle barzellette, ne sapeva centinaia, e lui quando la vedeva le correva incontro e le gridava: zia Elsa, una barzelletta!, zia Elsa, una barzelletta! E rideva, ma come si divertiva, come un adulto. Quell'allegria forse l'aveva presa proprio dalla Elsa, che era così vitale, anche troppo, forse un po' sciagurata, comunque lei almeno la sua vita se l'è goduta, insomma, a modo suo. Anche affettuoso. E lo è restato da grande. Allegro magari no, ma affettuoso tanto. Mai una volta che si sia dimenticato il mio compleanno, anche quando era lontano, sempre qualcosa, una rosa con l'Interflora, un telegramma, vuole vedere i suoi telegrammi?, ce li ho in questa scatolina del cacao Droste, guardi, dal Settanta a oggi sono otto telegrammi, questo qui per esempio è di quattro anni fa, senta, dice: ti pensa grato per la vita che gli hai dato, sì, è firmato Piticche, noi lo chiamavamo così, sui giornali non è mai venuto, non lo sa nessuno, era una cosa ristretta in famiglia, per noi era una tenerezza, le sarei grata se anche lei lo tacesse, poi sui giornali viene fra virgolette, dopo il suo vero nome: detto "il Piticche", è atroce, non le pare? Come fa la gente a capire che è un nome di tenerezza? Anche lei non lo capisce, magari posso spiegarle l'origine del nome, il significato, ma cosa vuol dire per noi questo non può capirlo nessuno, nei nomi c'è il tempo passato insieme, le persone che ci sono morte, cose fatte insieme, luoghi, altri nomi, la nostra vita. Piticche vuol dire piccino. Lui era proprio piccino, da piccolo. Era biondino, guardi questa fotografia, ha quattro anni, non quella, lì ha otto anni, questa qui accoccolato vicino al Pinocchio, non vede che il Pinocchio è più alto di lui? A casa nostra c'era un albero di limone, era cresciuto a spalliera contro la facciata, esposto a mezzogiorno, i rami arrivavano alla finestra del piano di sopra. Lui ha passato l'infanzia a giocare con un Pinocchio, questo qui della fotografia. "Alla larga, alla stretta, Pinocchio in bicicletta...", sento ancora la sua voce che ripete la cantilena, giù in cortile. A quel tempo Rodolfo era già malato, io passavo molto tempo in camera ad accudirlo, dalla finestra mi giungeva la sua vocina, stava sempre a trafficare col Pinocchio, era la sua unica compagnia, di solito lo faceva morire impiccandolo al limone, come nel libro fanno il gatto e la volpe travestiti da briganti, e poi gli faceva un piccola tumulo di terra con una croce di canne, ma naturalmente il Pinocchio lo nascondeva da un'altra parte. Allora arrivava la fata dai capelli turchini che andava a piangere sulla tomba del suo Pinocchio, cioè sull'aiuola del limone, la fatina ero io, lui mi stava a osservare con malizia, perché era tutto combinato fra noi, io mi inginocchiavo davanti al limone e piangevo: "Pinocchietto, mio povero Pinocchietto, non ti vedrò mai più, ih! ih! ih!" E allora sentivo un fil di voce, perché la finzione era che paresse venire da sottoterra, che diceva: "Mia bella sorellina, non ti disperare così, se gli vuoi bene il tuo Pinocchio è vivo!" Io mi guardavo attorno stupita, alla ricerca di quella voce, e vedevo lui in piedi con le gambe stecchite come un pupazzo, che mi tendeva le braccia muovendole a marionetta, e io correvo ad abbracciarlo e me lo stringevo al petto. E mentre questa scena avveniva lui rideva come un matto, saltellava con le mani dietro la schiena e faceva una specie di balletto cantando: "Alla larga, alla stretta, Pinocchio in bicicletta." E il gioco era finito. Il nome glielo mise la signora Yvette: Pitì, ma era lui che chiamava se stesso Piticche, additandosi il petto. Era il Quarantanove. La signora Yvette e il signor Gustave li aveva portati la Elsa, li aveva trovati alla stazione di Livorno qualche anno prima, non sapevano dove andare, avevano con sé quattro tegami e un gatto siamese che morì un mese dopo, si chiamavano Mayer, lui era apicultore nelle Ardenne, scappavano a Sud senza una meta, così per scappare, altrimenti li avrebbero deportati, la Elsa gli disse che potevano venire a casa nostra, una minestra si rimediava sempre, dissero che se ne sarebbero andati quando fosse passato il fronte, poi restarono quattro anni, erano persone di una delicatezza, diventammo come parenti, la signora Yvette è morta l'anno scorso, hanno un figlio dentista a Marsiglia, poi lei rimase incinta tornando in Francia, divago?, lo so che divago, mi lasci divagare, poi vengo al punto, certo che gli abbiamo voluto bene, lei ha dei figli?, gli vuole bene ai suoi figli?, lo so, c'è modo e modo. Guardi, siamo stati dieci anni senza averlo, abbiamo fatto di tutto, io avevo un fibroma, non che mi desse fastidio, ma se volevo un figlio dovevo operarmi, era il Trentanove, allora la penicillina non c'era, mi venne una setticemia, per salvarmi mi facevano iniezioni di petrolio in una coscia, così l'infezione si localizza lì, viene un ascesso e il chirurgo lo taglia, ho le gambe piene di cicatrici. Nacque nel Quarantasei, non era un bel momento per nascere, ne sono nati tanti nel Quarantasei, i soldati tornavano a casa, quelli che non erano morti. No, Rodolfo la sua malattia non la prese in guerra, tornò sano, solo un po' più magro, si ammalò una prima volta nel Cinquantuno, perché chi lo sa, se uno sapesse perché si ammala non si ammalerebbe, però è durato tanto, fino al Sessantuno, dieci anni, anzi un po' di più, morì di dicembre, scusi se piango, non volevo piangere, ma le lacrime mi scendono da sole, faccio bene a piangere?, ha ragione, faccio bene a piangere. Il film che mi è piaciuto di più si chiama Vacanze romane, fra i pochi che ho visto, ma quello me lo ricordo come se fosse ieri, con Gregory Peck, a me piaceva molto Gregory Peck, l'attrice non me la ricordo, era molto fine. Lo so che non le interessa, ma qualcosa c'entra, era solo per dirle che Rodolfo aveva promesso di fare una gita a Roma tutti e tre, sembrava stesse meglio, erano anni che sembrava guarito, avevamo fatto tanti progetti per tanto tempo, Rodolfo aveva perfino comprato una cartina per studiare l'itinerario turistico da seguire in due giorni, non glielo sto a ripetere ma potrei farlo, me lo ricordo alla perfezione, poi a Rodolfo all'improvviso ci volle la dialisi, soldi per andare a Roma non ce n'erano, così andammo a vedere Vacanze romane, portammo anche il bambino, anche se per un bambino di undici anni forse era un film noioso, comunque si vedevano tanti monumenti di Roma, c'è una scena molto divertente quando lui e lei vanno a visitare certi monumenti e a un certo punto lui infila la mano nella bocca di un mascherone di pietra che c'è nell'atrio di una chiesa e che la leggenda dice che se uno dice una bugia la bocca gli morde la mano, si gira verso di lei, ah, ecco, era Audrey Hepburn, e mi pare che le dica "ti amo", e a quel punto dà un grido e ritira il braccio senza la mano perché l'ha nascosta nella manica della giacca, e tutti e due ridono e si abbracciano. Gli siamo sempre stati vicini, l'affetto non gli è mai mancato, se era questo che pensava. Siamo stati una famiglia molto unita e lui non ci ha mai dato preoccupazione, con Rodolfo in quelle condizioni, semmai conforti, era così intelligente, e a scuola particolarmente dotato, è sempre stato uno scolaro eccezionale, diplomi, medaglie, premi, io non volevo mandarlo al liceo, non mi pareva una scuola adatta alla nostra condizione, poi uno con la licenza liceale cosa ci fa?, invece con un diploma di ragioniere o di geometra si può sempre trovare un posto, ma fu il suo professore a impedirmelo, disse che era un delitto, proprio così, un ragazzo di eccezionale intelligenza, con nove in italiano e latino, mandarlo alle scuole tecniche era un delitto. Del resto per i suoi studi non ho mai dovuto spendere, neppure più tardi, si è sempre mantenuto da solo, con la sua splendida intelligenza: è un piccolo poeta, mi disse il suo professore. Questo lo ha preso da Rodolfo. Dice anche le sue idee politiche? Ma non diciamo sciocchezze. Quando Rodolfo morì lui non aveva ancora quindici anni, che idee si possono pensare a quell'età. Certo che Rodolfo aveva le sue idee politiche, erano note, ne sono orgogliosa, sì, aveva fatto la Resistenza, certo, e anche la guerra di Spagna, con le brigate internazionali, aveva partecipato alla battaglia dell'Ebro, conosceva i grandi personaggi di quel momento, Longo, El Campesino, la Pasionaria, questo sì lo raccontava sempre, sa, erano i suoi ricordi preferiti, specie negli ultimi anni, quando parlava della Pasionaria la chiamava la Dolores, oppure la Ibarruri, come se fosse una persona di intimità, me lo rivedo sul divano, passava i pomeriggi sul divano con un plaid, era emaciato, le guance incavate, l'ombra del mio Rodolfo... e lui lo stava a sentire con gli occhi attenti, gli piacevano tanto le storie di suo padre, poi cantavano assieme delle canzoni spagnole che Rodolfo sapeva, anche il Piticche le aveva imparate subito, per esempio Gandesa, "Si me quieres escribir ya sabes mi paradero, en el frente de Gandesa primera linea de fuego...", no, non era comunista, era socialista libertario, raccontava che della Pasionaria era stato anche amico, che avevano combattuto fianco a fianco, che era una donna eccezionale, poi una volta avevano avuto una lite furibonda, lei gli aveva detto brutte parole e lui le aveva risposto che un giorno lei avrebbe pianto amaramente sugli errori commessi, ne parlava con molta pena, diceva che si era venduta ai russi, che aveva commesso atrocità sui compagni, era un sognatore il mio Rodolfo, questo ha insegnato a nostro figlio. E poi amava la cultura, i libri, ne ha letti tanti in vita sua, una specie di adorazione, diceva che in ogni libro c'è sempre un uomo e che bruciare un libro è come bruciare una persona, gli ha insegnato lui il gusto di leggere... e anche a scrivere. Si scrivevano delle lettere, facevano un gioco, era un gioco bellissimo, voglio dire credo che fosse una cosa molto poetica, leggevano dei libri e poi si scrivevano delle lettere come se ciascuno di loro fosse un personaggio dei libri che avevano letto, personaggi di fantasia o personaggi storici, fu l'ultimo anno di vita di Rodolfo, si scrissero decine di lettere, quello che riceveva una lettera la leggeva la sera a cena, per me furono momenti bellissimi, mi scusi se piango, Rodolfo ricevette molte lettere da Livingstone, al Piticche piaceva talmente essere Livingstone, e poi da Huckleberry Finn, da Kim, da Gavroche, da Pasteur, erano scritte con molta maturità, devo ancora averle da qualche parte, un giorno o l'altro mi metto a cercarle, eppure lui aveva solo quindici anni, un bambino. Rodolfo morì nel dicembre del Sessantuno, lo so che l'ho già detto, passò gli ultimi giorni molto agitati, ma non per la malattia, era angosciato per quello che stava succedendo nel mondo, cioè in Russia, non saprei esattamente, so che Kruscev aveva rivelato le atrocità commesse dai suoi predecessori, e lui si tormentava, non dormiva più, anche i sonniferi non gli facevano effetto, poi un giorno arrivò una lettera per lui, il mittente diceva: La Pasionaria, Mosca. E dentro c'era scritto: Dolores Ibarruri versa lacrime amare.
Ecco, così era mio figlio. Cosa gli hanno fatto? Ho visto la foto sui
giornali, lo hanno trucidato, e io non ho potuto neanche vederlo, hanno scritto
che ha fatto cose... non ho il coraggio di dirlo... atroci. Hanno detto atroci?
Comunque lei ha sentito un'altra storia, la storia di una
persona che lei non conosce, io le ho parlato del mio Piticche, le sarei grata
se non menzionasse questo nome sul suo giornale, scusi se piango, non volevo
piangere, ma le lacrime mi scendono da sole, faccio bene a piangere?, ha
ragione, faccio bene a piangere.
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