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| << | < | > | >> |Indice11 Un biglietto in mezzo al mare 21 Il fiume 39 Forbidden Games 51 La circolazione del sangue 61 Casta Diva 71 Sono passato a trovarti, ma non c'eri 87 Della difficoltà di liberarsi del filo spinato 95 Buone notizie da casa 107 A cosa serve un'arpa con una corda sola? 123 Buono come sei 135 Libri mai scritti, viaggi mai fatti 151 La maschera è stanca 163 Strana forma di vita 173 Vigilia dell'Ascensione 181 Occhi miei chiari, miei capelli di miele 195 Te voglio, te cerco, te chiammo, te veco, te sento, te sonno 205 Lettera da scrivere 211 Si sta facendo sempre più tardi 221 Post scriptum |
| << | < | > | >> |Pagina 11Mia Cara, credo che il diametro di quest'isola non superi i cinquanta chilometri, al massimo. C'è una strada costiera che la gira tutta in tondo, stretta, spesso a picco sul mare, altrimenti pianeggiando in coste brulle che scendono a solitarie spiaggette di ghiaia orlate di tamerici bruciate dal salino, e in alcune a volte mi fermo. Da una di queste ti parlo, a bassa voce, perché il meriggio e il mare e questa luce bianca ti hanno fatto chiudere le palpebre, stesa qui accanto a me, vedo il tuo seno che si solleva al ritmo pausato della respirazione di chi sta dormendo e non voglio svegliarti. Come piacerebbe questo luogo a certi poeti che conosciamo, perché è così scabro, essenziale, fatto di pietre, montagnole brulle, spini, capre. Mi è perfino venuto da pensare che quest'isola non esista, e di averla trovata solo perché la stavo immaginando. Non è un luogo, è un buco: intendo della rete. C'è una rete nella quale pare sia ormai impossibile non essere catturati, ed è una rete a strascico. In questa rete io insisto a cercare buchi. Ora mi pareva quasi di aver sentito la tua risatina ironica: "E dàgli, ci risiamo!". E invece no: hai le palpebre chiuse e non ti sei mossa. Me lo sono solo immaginato. Che ore saranno? Non ho portato l'orologio, che del resto qui è del tutto superfluo. Ma ti stavo descrivendo questo luogo. La prima cosa a cui fa pensare è a com'è troppo il troppo che il nostro tempo ci offre, almeno a noi che per fortuna stiamo dalla parte migliore. Invece guarda le capre: sopravvivono con niente, mangiano anche i pruni e leccano perfino il sale. Quanto più le guardo, più mi piacciono, le capre. Su questa spiaggetta ce n'è sette o otto che si aggirano fra i sassi, senza pastore, probabilmente appartengono ai proprietari della casetta dove mi sono fermato a mezzogiorno. C'è una specie di caffè sotto un'incannicciata dove si possono mangiare olive, formaggio e melone. La vecchietta che mi ha servito è sorda e ho dovuto gridare per chiedere queste poche cose, mi ha detto che suo marito arrivava subito, ma suo marito non l'ho visto, forse è una sua fantasia, oppure ho capito male. Il fonnaggio lo fa lei con le sue mani, mi ha portato nel cortile di casa, uno spiazzo polveroso circondato da un muro a secco pieno di cardi dove c'è l'ovile delle caprette. Le ho fatto un segno con la mano a falce, come per significare che dovrebbe tagliare i cardi che bucano e nei quali si inciampa. Lei mi ha risposto con un segno identico, ma più deciso. Chissà cosa voleva dire con quella mano che tagliava l'aria come una lama. Accanto alle stalle il casale si prolunga in una specie di cantina scavata nella roccia dove lei fabbrica il suo formaggio, che è poco più di una ricotta salata fatta stagionare al buio, con una crosta rossastra di peperoncino. Il suo laboratorio è una stanza scavata nella pietra, freschina, direi gelida. C'è uno scrematoio di granito dove lascia cagliare il latte e un mastello dove lavora il siero, su una tavola rugosa e inclinata sulla quale impasta il caglio come se fossero dei panni su un lavatoio, strizzandolo perché ne esca tutta l'acqua; e poi lo infila in due forme dove esso rassoda, sono forme di legno che si aprono e si chiudono a morsa, una è rotonda, e questo è normale, mentre l'altra ha la figura di un asso di picche, o almeno a me è sembrato così, perché ricorda il seme delle nostre carte da gioco. Ho comprato una forma di formaggio e avrei voluto quella fatta come l'asso di picche, ma la vecchia me l'ha rifiutata e mi sono dovuto accontentare di quella rotonda. Le ho chiesto una spiegazione e ne ho cavato dei mugugni sgraziati e gutturali, quasi stridenti, accompagnati da gesti indecifrabili: si circondava la circonferenza del ventre e si toccava il cuore. Chissà: forse voleva significare che quel tipo di formaggio è riservato solo a certe cerimonie essenziali alla vita: la nascita, la morte. Ma come ti dicevo, forse è solo l'interpretazione della mia fantasia che di sovente galoppa, come sai. Ad ogni modo il formaggio è squisito, fra queste due fette di pane scuro che sto mangiando dopo avervi versato un filo d'olio d'oliva, che qui non manca, e qualche foglia di timo che condisce ogni piatto, dal pesce al coniglio selvatico. Avrei voluto chiederti se anche tu avevi appetito: guarda, è squisito, ti ho detto, è una cosa irripetibile, fra un po' sarà sparito anche lui nella rete che ci sta avvolgendo, per questo formaggio non ci sono buchi né vie d'uscita, approfittane. Ma non volevo disturbarti, era così bello il tuo sonno, e cosí giusto, e ho taciuto. Ho visto passare un bastimento in lontananza e ho pensato alla parola che ti stavo scrivendo: bastimento. Ho visto passare un bastimento carico di?... Indovina. | << | < | > | >> |Pagina 21| << | < | > | >> |Pagina 35Io, al contrario, ti scrivo da un tempo rotto. Tutto è in frantumi, mia Cara, i frammenti sono volati da una parte all'altra e mi è impossibile raccoglierli se non in questo circolo forzato in cui continuo a girare fino alla nausea e all'idiozia, finché esso non si aprirà in un punto ignoto. Che però non sarà quello di un'altra vita, ma di questa. Perché non è dall'altra parte che ti sto parlando ma da questa, anche se essa appartiene insospettabilmente ad un'orbita diversa dalla tua. Se fosse il contrario sarebbe troppo facile uscirne: basterebbe vivere la vita che ci è concessa come se si vivesse in un'altra dimensione, cosa che pensatori anche sublimi hanno saputo risolvere in maniere artistiche spesso sublimi. No, il problema è assai diverso. È che l'orbita è allo stesso tempo la stessa e un'altra, io vedo la tua e vi entro quando voglio, senza che tu possa fare lo stesso con la mia. Io ci sono senza che tu abbia bisogno di essere con me, né di saperlo, perché la tua orbita è unica e irripetibile, e invece la mia è sincronica con se stessa, e gira e gira all'infinito. E la beffa, come ti accennavo, consiste proprio in questo, che il momento dell'uscita avverrà solo nel mio Attuale, cioè in quello che io sto essendo senza esserlo: le dimensioni si sono invertite, ciò che era solo ricordo è diventato presente, e ciò che davvero sono o dovrei essere, il mio presunto ora, è diventato virtuale e lo scorgo da lontano come da un cannocchiale rovesciato, aspettando di rientrarvi all'ultimo momento, per quell'istante terminale in cui ci è dato di ripercorrere all'indietro tutta la nostra vita, che invece sono condannato a ripercorrere senza sosta. E in quell'istante concessomi avrò appena il tempo di annaspare nell'aria come un annegato, e poi: buonanotte. Sai, penso che nell'evadere da questo tempo ripetuto, che è una forma di perversa entropia, non si verificherà neppure una piccola esplosione, come quando nell'universo una massa di energia compressa esplode provocando una nuova stella. Altro che quello che affermava il filosofo matto, che si deve aggiungere ancora del caos dentro di noi per poter far nascere una stella danzante. Ma quale stella! Basterà solo un minuscolo foro, e tutta questa energia insensata se ne fuggirà come quando si buca il tubo del gas e... fssss... fssss..., tutto finirà in un attimo, in una modestissima bolla, un residuo, un niente fatto di niente, come una scorreggia del tempo. Perciò ti mando un saluto impossibile, come chi fa vani cenni da una sponda all'altra del fiume sapendo che non ci sono sponde, davvero, credimi, non ci sono sponde, c'è solo il fiume, prima non lo sapevamo, ma c'è solo il fiume, vorrei gridartelo: attenta, guarda che c'è solo il fiume!, ora lo so, che idioti, ci preoccupavamo tanto delle sponde e invece c'era solo il fiume. Ma è troppo tardi, a che serve dirtelo?| << | < | > | >> |Pagina 107[...] Fu a Salonicco che per la prima volta mi fecero eseguire la sonata di Hindemith. Il maestro si chiamava Stavros, era un vecchio signore con una gamba di legno e teneva la bacchetta come si regge una forchetta per gli spaghetti, ma forse fingeva, perché fece una direzione magnifica; e quanto a me, quella sera le mie dita scivolavano sulle corde come se volassero, e non mi accorsi di star suonando, era l'arpa che suonava da sola. Fu a suo modo un successo, e credo che la signora Ioanna conservi ancora i ritagli dei giornali dell'epoca che uscirono con articoli quasi esaltanti, forse anche perché si trattava di un compositore osteggiato dal nazismo, che aveva passato la sua vita in esilio. Di modo che, la settimana seguente, dopo il grande concerto di Beethoven, il maestro mi chiese di eseguire il Concerto per arpa di Villa-Lobos. E l'entusiasmo fu così enorme che le persone si alzarono in piedi, gli applausi non finivano più, il pubblico greco è fatto così, si accalora, non mi lasciavano andar via, il maestro mi pregò di eseguire un altro pezzo a piacere, quello che io volessi, io mi ero preparato la Sonata di Casella del 1943, è un pezzo struggente, è qualcosa che sembra evocare i morti, peccato che Casella sia stato cos' fascista, la sua arte non lo merita, il concerto si svolgeva nella rotonda della chiesa bizantina di Aghios Gheorghios, che è uno dei luoghi straordinari di questo mondo, perché ti dà il senso del sacro anche se non credi nel sacro. Ma quel pubblico sapeva cos'è il sacro: la loro guerra era finita da poco, e troppi erano i morti. E io vedevo che le persone nelle prime fìle, non solo le donne, ma anche degli anziani, stavano piangendo, dalla città non veniva un rumore, l'unico suono era l'arpa, e sembrava che stesse proteggendo i superstiti, e quasi senza accorgermene dagli accordi di Casella le mie dita scivolarono su una vecchia canzone greca che si chiama Thaxanarthis, che vuol dire "tornerai", e il pubblico cominciò a mormorare le parole, e non sembravano voci umane, era come se la terra e il mare e tutta la natura intorno a noi respirasse con noi e nel respirare cantasse. E poi io finii di suonare e anche il canto finì, ci alzammo tutti in silenzio, le donne si fecero il segno della croce all'uso ortodosso e uscimmo nella notte di Salonicco, ciascuno verso casa sua. La mia casa, a Salonicco, fu per tutti quegli anni la pensione Petros. Era a Ladadika, dopo i magazzini dell'olio e dei cordami che poi diventarono depositi del pesce congelato e del combustibile. Quando vi arrivai, i primi giorni di Grecia, vidi una donna che con la calce ricopriva sulla facciata i buchi delle pallottole. Aveva il nostro profilo, dei bei capelli e il volto segnato dalla vita. Le parlai in francese e non capi. Non volevo parlare italiano e come per una strana intuizione le dissi: "Estó buscando un lugar por dormir", e lei mi rispose in ladino, o sefarditika come lì si chiama, e mi chiese da dove venissi. Dal nulla, risposi io. E allora qui c'è una stanza per te, disse lei, io sono Ioanna, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a rimettere a posto questa casa che aveva costruito il mio Petros. Dalla stanza che ho sempre occupato si vede il mare, e più avanti, sulla destra, le montagne della Calcidica che lasciano indovinare l'Oriente. Ho passato nottate intere a quella finestra, guardando i monti lontani su cui si accendono i fuochi e ripensando a un prato davanti a una casa al limitare della macchia, a una notte, alla musica che vi suonai. Il mio letto aveva una spalliera di metallo sulla quale era dipinta una scena di Arcadia, con un pastore con le caviglie fasciate di stoffa bianca che suona un piffero per un gruppo di capre. Sulla parete sopra il letto c'era la riproduzione di un Cristo bizantino che un pittore ingenuo ricopiò nel secolo scorso per i contadini o i pescatori di queste parti. Davanti al letto c'era un comò dove tenevo la mia biancheria e accanto un armadio rossastro di ciliegio, dove ho sempre appeso il mio frac, con uno specchio chiazzato di macchioline sabbiose nel quale ho sempre fatto il possibile per evitare la mia immagine. | << | < | > | >> |Pagina 173[...] Ho perso il filo, come al solito. Sarà perché mi è difficile continuare, ma già che sto divagando, e visto che ti parlavo del Rino, ti voglio dire che (ma forse lo sai già) è diventato un pezzo grosso di una possente casa editrice il cui proprietario è uno di quelli che ai nostri tempi si chiamavano "padroni". Il Rino le ha fatte proprio tutte, è davvero da bosco e da riviera. Ora finalmente ha la Voce del Padrone, e forse ha raggiunto la pace dei sensi. Ma guarda la memoria che hanno certe persone: il mese scorso mi ha scritto una lettera, una lettera elegante, di quelle su carta intestata. E sai cosa si ricordava, ma in maniera millimetrica, come se lo avesse registrato nel suo cervello?, si ricordava i testi che vi lessi quella sera dopo la conferenza del vecchio filosofo anarcoide, e finimmo tutti a casa sua, del Rino, e io avevo i miei appunti sotto il braccio e ve li lessi, ti ricordi?, erano appunti sugli artisti che in vita loro avevano preso droghe, l'abbozzo di un libro che avevo intitolato L'immaginazione artificiale, ricordi? Bene, quello che è davvero straordinario è che il Rino nella sua lettera specificava con minuzia quelli che non voleva. "Non mi interessano Coleridge e De Quincey," diceva, "tanto lo sanno tutti che erano oppiomani, né Gautier, né Baudelaire, né Rimbaud, né Artaud, né Michaux. Vorrei soprattutto le pagine sul Savonarola che scrisse In te Domine speravi sotto l'influsso del làudano, perché tu spiegavi bene come il Savonarola si faceva il làudano, mescolato con ruta e mirra e miele, e quali effetti mistici gli provocava. Poi mi interessa Barbey d'Aurevilly, perché tu scrivesti che all'etere mescolava acqua di colonia. E poi voglio le pagine su Nietzsche, che senza la morfina non avrebbe mai scritto lo Zarathustra, e Stevenson, che senza la morfina non avrebbe mai conosciuto Mr Hyde; e poi Yeats, quel misticone folclorista di Yeats che insieme a quell'altro fanfarone di Ernst Down provò fra i primi al mondo la mescalina, e senza di quella, buonanotte Rosa mistica. E poi voglio Ball, quel pazzo del cabaret Voltaire, senza il quale il Dada avrebbe fatto dodò, lui e la sua eroina inventata proprio in quegli anni; e la cocaina di Trakl, la morfina di Adamov, il lisergico di Jünger, e soprattutto Drieu, quel povero fascistone di Drieu La Rochelle, lui e le sue siringhe, la sua valigia vuota e il suo suicidio." Ho trascritto fedelmente, sono parole sue, ho la lettera sotto gli occhi. E conclude dicendo: "Un libriccino così, scritto come da un Borges che si batte per la liberalizzazione della droga, sarebbe il best-seller dell'anno". Evviva! Ho risposto con una frase magica: preferisco di no. | << | < | > | >> |Pagina 205Mia Donna cara,
vorrei proprio scriverti una lettera, un giorno, una
lettera totale, una lettera vera e totale, ci penso, e penso
come essa sarebbe se te la scrivessi: sarebbe scritta con
parole semplici e ricorrenti, diventate usate da quante
persone le hanno dette e quasi ingenue, seppure frementi
della passione di un tempo. E attraversando gli oscuri
strati di lava e di argilla che la vita ha sedimentato su
tutto, essa ti direbbe che io sono ancora io, e che mantengo
sogni, solo che mi sveglio all'alba e che a volte la mano
trema a reggere la penna e il pennello.
E che anche la casa è la stessa: il vecchio legno ha lo
stesso odore e lascia che lo roda il tarlo, dalla finestra
della veranda entra d'estate un fascio di luce che le foglie
della vite rampicante sull'inferriata disegnano sulla parete
di fronte come ombre cinesi, e allora è bello stendersi
sulla poltrona di vimini, mentre fuori, nella campagna
dintorno, è la calma meridiana e le cicale non tacciono un
istante, e sono senza dubbio le stesse cicale, cioè
differenti e uguali a quelle di sempre. E che a fine
febbraio la magnolia giapponese fiorisce ancora prima di
mettere le foglie e pare uno strano vaso di fiori candito
nell'aria, come eterno. E con lei, più lontano nel
giardino, si accompagna la mimosa che amavi tanto. E anche
i bambini crescono, esattamente come allora. Caterina segue
ancora la dieta, anche se con una certa riluttanza, ma era
davvero troppo rotondetta, però alla sua età ha già il
senso della propria dignità, come allora è già civettuola, e
da grande sarà una donna affascinante. Nino, al contrario,
è magro magro e a scuola va maluccio, ma è perché non si
applica, perché la sua intelligenza fa già prevedere quello
che è diventato. E poi ti direi che le serate sono lunghe,
lunghissime, quasi infinite, e languide, ma che il mio cuore
reagisce come una volta, e a volte a una musica, a un suono,
a una voce che passa per strada comincia a battere
all'impazzata, sembra un cavallo al galoppo.
Però, se la notte mi sveglia, come sempre, per far calmare
quei battiti mi alzo e vado in sala da pranzo, accendo una
candela gialla, perché il giallo è bello nella penombra, e
leggo Dolce e chiara è la notte e senza vento, e quelle
parole mi tranquillizzano, anche se il vento là fuori agita
i rami degli alberi e allora mi dico: lungi dal proprio ramo
povera foglie frale, dove vai tu? Me lo chiedo e cerco di
riaddormentarmi e se non ci riesco riattizzo le braci del
caminetto affinché luccichino ancora un poco, e per
addormentarmi penso che ti scriverei che non sapevo che il
tempo non aspetta, davvero non lo sapevo, non si pensa mai
che il tempo è fatto di gocce, e basta una goccia in più
perché il liquido si sparga per terra e si allarghi a
macchia e si perda. E ti direi che amo, che amo ancora,
anche se i sensi sembrano stanchi, perché lo sono, e
quel tempo che era così rapido e impaziente, ora è
lunghissimo da passare in certe ore del pomeriggio,
soprattutto sul fare dell'inverno, quando se ne va
l'equinozio e la sera cala a tradimento e le luci che non
aspettavi si accendono nel villaggio. E ti direi anche che
ho preparato le parole per la mia lapide, sono poche, perché
fra la data di nascita e quella che sarà della mia morte
tutti i giorni sono miei, e ho avuto l'accortezza di
lasciarle all'omino che si occupa di questi caritatevoli
servizi, per mestiere o per vocazione. E poi ti direi di
quella volta che ti vidi, mentre tu mi mostravi il
paesaggio, e che la tua figurina stagliata contro
l'orizzonte mi parve la cosa più bella che il mondo avesse
concepito, e io ebbi voglia di interrompere la tua sapiente
descrizione abbracciandoti con il calore dei sensi che
allora erano infiammati. E poi ti direi di certe notti in
cui parlavamo, di quella casa sul mare, di certi momenti a
Roma, dell'Aniene, e di altri fiumi che abbiamo guardato
insieme pensando che essi scorressero soli, senza accorgerci
che noi scorrevamo con loro. E ti direi anche che ti
aspetto, anche se non si aspetta chi non può tornare, perché
per tornare ad essere ciò che fu dovrebbe essere ciò che fu,
e questo è impossibile. Ma ti direi: guarda, quello che c'è
stato in tutto questo frattempo, che sembra così impossibile
da perforare come quando la trivella incontra uno strato di
granito, ebbene tutto questo è niente, non sarà affatto un
ostacolo impossibile da superare quando leggerai la lettera
che un giorno ti scriverò, vedrai, una lettera a cui ho
sempre pensato, che mi ha accompagnato per tutto questo
tempo, una lettera che ti devo e che scriverò davvero, puoi
starne certa, te lo prometto.
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