Copertina
Autore Francesca Tacchi
Titolo Eva togata
SottotitoloDonne e professioni giuridiche in Italia dall'Unità a oggi
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2009 , pag. 226, cop.fle., dim. 15x23x1,9 cm , Isbn 978-88-02-08138-0
PrefazioneRita Sanlorenzo
LettoreElisabetta Cavalli, 2010
Classe diritto , storia sociale , storia contemporanea d'Italia , femminismo
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Indice

 VII Abbreviazioni
  IX Prefazione di Rita Sanlorenzo
XIII Introduzione

  3 Capitolo 1 - L'età liberale, o dell'esclusione


    1.1 Il diritto negato. Il caso Poët, 3
    1.2 L'impiego come ripiego (e l'impegno come scelta), 16
    1.3 Tra politica e diritto. Il caso Labriola, 24
    1.4 Uno sguardo altrove. Le "cugine" belghe e francesi, 35

 45 Capitolo 2 - Il dopoguerra, o della parziale inclusione

    2.1 La legge del 1919: un "premio di smobilitazione"?, 45
    2.2 La regola e l'eccezione, 50
    2.3 Eva in tribunale, 54

 59 Capitolo 3 - Il fascismo, o delle nuove esclusioni

    3.1 Avvocate e regime, 59
    3.2 La famiglia, nicchia professionale per eccellenza, 72
    3.3 Giuriste o assistenti sociali?, 77
    3.4 Tra i "minori traviati" e/o i "delinquenti", 81

 85 Capitolo 4 - Il primo quindicennio repubblicano, o dell'inclusione

    4.1 La Costituente e le donne in magistratura:
        una vittoria che sembra una sconfitta, 85
    4.2 Il lungo dopoguerra delle avvocate. Luci e ombre, 104
    4.3 Giurate popolari, «benemerite dell'assistenza sociale»
        e infine magistrate, 117

139 Capitolo 5 - Gli anni Sessanta e Settanta, o del diritto al femminile

    5.1 Avvocate e magistrate nell'Italia degli anni Sessanta, 139
    5.2 Le «lobbies» delle giuriste, 154
    5.3 Vecchie e nuove famiglie, 161
    5.4 La stagione dell'impegno. Giuriste femministe (e non), 167
    5.5 Anni violenti, 176

183 Capitolo 6 - Dagli anni Ottanta a oggi, o delle pari opportunità

    6.1 La "normalità" delle professioni giuridiche, 183
    6.2 La femminilizzazione, 196
    6.3 Soffitti di cristallo.
        Il "potere" delle giuriste nel terzo millennio, 202

217 Indice dei nomi

 

 

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Pagina IX

Prefazione
di Rita Sanlorenzo



È importante ed utile, oggi, poter contare su uno studio storico che ricostruisca il percorso femminile all'interno delle professioni forensi. È importante ed utile proprio per conoscere la lunghezza e la difficoltà di questo percorso e per poter infine riflettere meglio sull'attualità che oggi ci si presenta, che invece si caratterizza per un incremento molto forte, negli ultimi anni, della presenza femminile all'interno dell'avvocatura e della magistratura, sino a segnare addirittura la predominanza dal punto di vista numerico (si vedano i risultati degli ultimi concorsi per l'ingresso in magistratura): ciò che parrebbe quasi dare il segno di una rivincita, di un riscatto.

Ma appunto, si tratta di comprendere: e di avvalersi della ricostruzione del passato, per calarsi meglio nella realtà del presente, quindi saperla leggere e dunque interpretare.

L'ultimo capitolo di questo studio di Francesca Tacchi si apre con un esame della "normalità", ormai raggiunta, dell'essere avvocate e magistrate, in forza di un fenomeno che è oggi una realtà evidente, quello dell'avvenuta femminilizzazione delle professioni giuridiche: ma una normalità che, come in altri campi delle professioni, e specialmente quello dell'attività politica, relega le donne fuori dai livelli di vertice, vuoi sul piano della rappresentanza vuoi su quello della responsabilità dirigenziale.

È il riprodursi, anche all'interno del nostro mondo, del noto fenomeno del "soffitto di cristallo", che ovunque e sempre si frappone nel percorso femminile tra la pratica lavorativa e l'accesso ai "piani alti": e che continua a resistere nonostante il rafforzarsi della spinta che proviene "dal basso" dove, per l'appunto, le proporzioni numeriche si stanno velocemente invertendo.

A questo scenario complessivo è bene dunque rivolgere una riflessione allargata e consapevole: avendo bene in mente che ai processi di "femminilizzazione" delle professioni tradizionalmente si accompagna la perdita di prestigio delle stesse, come insegnano gli studi sociologici più attenti, ed ormai risalenti, affrontando, uno fra tutti, l'esempio dell'insegnamento, in cui la crescente presenza femminile, «che fa commuovere alcuni sulla "femminilità" di questa professione che "esalta la maternità della donna" – è insieme effetto e causa della perdita di prestigio dello stesso».

Andando più nello specifico, ed affrontando il tema della giustizia e delle professioni forensi, non può non darsi atto del grave stato di crisi che il servizio ha ormai raggiunto, tranne in alcune isole fortunate, per la difficoltà del sistema a fornire risposte alle istanze di giustizia dei cittadini in tempi rapidi, a fronte di un aumento sensibile della domanda, accompagnato da una crescita costante, ed ormai incontrollata, del numero degli avvocati. Scrive Guido Alpa: «La dimensione reale (dell'Avvocatura) è espressa da circa 200.000 avvocati, di cui 40.000 patrocinanti presso le Corti superiori, dall'accesso incontrollato alle Facoltà di giurisprudenza, dall'abilitazione annuale di circa 15.000 praticanti, da un'espansione pericolosa dell'esercizio della professione forense dietro lo schermo della rete informatica, dalla difficoltà degli Ordini di sanzionare la violazione delle regole deontologiche, da un costo della giustizia largamente inferiore a quello registrato nella gran parte dei paesi europei ma gravato da una lentezza esasperante dei procedimenti, e dalla condivisione del peso dell'amministrazione della giustizia, senza peraltro meritarne qualche riconoscimento».

Forse su questa realtà bisogna cominciare a misurare la "femminilizzazione" delle professioni giuridiche: e soprattutto, almeno dal punto di vista di chi a questa "normalità" contemporanea appartiene, dalle magistrate e dalle avvocate insieme, cominciare a pensare a nuove forme di solidarietà e di dialogo, magari occasionate proprio dalla appartenenza allo stesso sesso e dunque, per definizione, ad una parte "svantaggiata", che questa crisi in prima linea si trova ad affrontare. Perché, di questo non si può dubitare, è solo nella comunanza d'intenti che le difficoltà si affrontano con qualche possibilità di superarle: «Questa impossibilità per avvocati e magistrati di ragionare insieme, questa incapacità di individuare punti di incontro su cui fondare comuni richieste di miglioramenti legislativi, questa sorta di dannata coazione a schierarsi pubblicamente su fronti opposti nonostante i quotidiani momenti di condivisione delle difficoltà, tutto ciò suona come un sinistro sintomo di decadenza».

Sarebbe importante ed utile che, a partire da studi come quello che segue, dalle vicende intrecciate di destini singoli che han fatto, nel corso degli anni, una parte, certamente significativa e innovativa, della storia di questa modernità, si riuscissero a tessere reti nuove e non ancora sperimentate, capaci di dare il loro contributo per uscire da questo stallo, da questa crisi conclamata, che la politica tarda ad affrontare, fuorviata dall'attenzione spasmodica rivolta a singole vicende su cui pretende di orientare la propria energia riformatrice.

La giustizia, lo sappiamo, ha bisogno di ben altro, e forse prima che di norme e di indiscriminate risorse, di un rinnovato sentire da parte dei suoi operatori, di una volontà effettiva di cambiamento e di rinnovamento, capace innanzitutto di partire dal recepimento di quelle che sono le istanze dei cittadini: che chiedono, prima di tutto, che si realizzi una giustizia "di prossimità", capace di accoglienza e di ascolto, attenta ai bisogni ed alle domande che le vengono rivolte, consapevole che le risposte che riesce, o non riesce a fornire, avvicineranno o allontaneranno la fiducia dei cittadini, senza la quale non esiste né vera legittimazione dell'intero ordine giudiziario, né reale riconoscimento sociale dell'essenzialità dell'avvocatura, non solo nel funzionamento della macchina giudiziaria, ma nel mantenimento dell'assetto democratico del paese.

Forse è troppo pensare che possa competere proprio alle donne tentare di intraprendere un cammino così difficile, ma al tempo stesso essenziale ed esaltante? È utopistico immaginare che dalle passate difficoltà, dagli ostacoli superati in parallelo, possano sorgere una consapevolezza e soprattutto una solidarietà nuove, capaci di puntare alla rinascita, al rinnovamento? Eppure, è proprio quello di cui si avrebbe bisogno: una rete solidale di energie ed intelligenze e sensibilità, da cui far partire la ripresa. La consapevolezza che la specificità di genere che, secondo una stimolante chiave di lettura offerta dallo studio che segue, ha contribuito indubbiamente a cambiare la "qualità" del diritto, arricchendolo di una maggior attenzione alla sfera del femminile, alle sue tutele ed ai suoi diritti, riesca altresì ad incidere sulla "qualità" della giustizia, ora così distante dalle aspettative del paese.

Credo che in molte, tra magistrate ed avvocate, sarebbero in grado di adoperarsi fattivamente in una impresa difficile, ma sicuramente esaltante: e che il lungo tratto di storia percorso insieme, e che qui troviamo ricostruito, ci possa insegnare che molte battaglie, e molte sfide, le possiamo vincere solo se le affrontiamo insieme, noi donne.

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Pagina XIII

Introduzione



Da una ventina d'anni a questa parte si parla con insistenza di "femminilizzazione del diritto", mettendola in relazione con il boom delle laureate in Giurisprudenza avviato negli anni Ottanta, e soprattutto con l'aumento delle donne avvocato e magistrato, che dagli anni Novanta sembra davvero inarrestabile. Un dato quantitativo che – come notava anni fa Paola Ronfani a proposito dell'avvocatura – in sé non dice molto, poiché quello qualitativo – la collocazione delle donne nelle gerarchie interne alla professione – era ed è ancora oggi poco incoraggiante. Se parliamo di femminilizzazione dell'avvocatura, infatti, non possiamo riferirci ai suoi vertici, tanto che continua a persistere il paradigma del "soffitto di cristallo". Il fatto che sia ipotizzato un sorpasso delle donne avvocato sugli uomini (dopo quello già avvenuto all'Università), ma che siano sempre piuttosto poche le avvocate – e le magistrate – negli organi decisionali, conferma l'esistenza di una strozzatura, di una selezione informale che continua a rendere faticoso, pur nel contesto delle "pari opportunità", l'accesso a posizioni di prestigio nel campo giuridico, come del resto in tanti altri settori, dall'economia alla cultura e alla pubblica amministrazione in genere. Se i vertici della piramide decisionale e gestionale restano in mano agli uomini, la famosa barriera invisibile è difficile da infrangere, per quanto inizino a intravedersi alcune crepe.

Proprio la riflessione sull'oggi – che rappresenta il termine ad quem di questo lavoro – mi ha indotto a ricercare nel passato le origini e le caratteristiche di alcuni fenomeni di lungo periodo, che non possono dirsi del tutto superati. Ho potuto così affrontare in modo meno frammentario di quanto non avessi fatto finora la versione, e non solo al "femminile", dell'avvocatura e della magistratura nell'Italia unita.

In questi ultimi anni la mia prospettiva è mutata, perché si è modificato il rapporto tra donne e professioni giuridiche, nate per gli uomini e a lungo loro riservate. Il modo in cui oggi affronto la questione è probabilmente diverso da come lo affronterei tra qualche anno, quando alcuni fenomeni in piena evoluzione – a partire dalla "scalata" delle donne ai vertici delle professioni – si saranno forse delineati con maggiore chiarezza e, spero, consolidati. Di certo, qualche anno fa, quando ho iniziato a occuparmi del tema in relazione alle avvocate, avrei – anzi, l'ho fatto – affrontato il tema in una prospettiva leggermente diversa, tesa a enfatizzare, spero non più del dovuto, la deprecatio nei confronti di un sistema politico, giuridico e sociale che aveva a lungo escluso, o tenuto in disparte, le donne.

Ancora una decina d'anni fa l'avvocata e parlamentare socialista Agata Alma Cappiello, coordinatrice della Commissione nazionale parità istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, indicava tra le «nuove battaglie civili» per l'acquisizione di un pieno diritto di cittadinanza quella per «infrangere il tetto di vetro»; nel 2004 la magistrata Nicoletta Gandus affermava – a proposito delle giuriste – di preferire all'immagine della "peccatrice" Eva quella biblica di Lilith, metà ribelle e metà strega, che «non volle giacere sotto Adamo». Ho deciso di mantenere a questo studio il titolo scelto in origine, senza però ignorare quanto osservava Rita Sanlorenzo al congresso dell'Associazione nazionale magistrati del 2008, in merito alla rotazione degli incarichi direttivi e semidirettivi in magistratura e del conseguente rinnovamento e ringiovanimento dei vertici degli uffici: ciò aveva consentito «anche alle donne di riuscire in percentuali mai raggiunte prima, a sfondare quel tetto di cristallo che si oppone tipicamente all'ascesa femminile in tutte le strutture lavorative verticali».

Le odierne opportunità professionali per le laureate in Giurisprudenza sono però il frutto di faticose conquiste di diritti, a lungo negati. Le leggi di ammissione delle donne alle professioni giuridiche risalgono per l'avvocatura al 1919 e per la magistratura al 1963: dietro queste due date vi sono decenni e decenni di cammino intrapreso dalle donne per accedere a professioni e carriere congrue con il loro titolo di studio. E ve ne sono altri successivi in cui le difficoltà non sono certo scomparse. Proporre un discorso unitario sulle "professioni giuridiche" non è così scontato, tanto meno se inseriamo nel "campo giuridico" – ispirandosi al modello elaborato da Pierre Bourdieu sulla divisione dei ruoli e delle funzioni – una professione sui generis quale quella di magistrato. Profonde erano e sono le loro differenze: libero professionista l'avvocato, appartenente ai "corpi" dello Stato il magistrato, li possiamo tenere insieme se li consideriamo fattori determinanti, "costituzionali", del sistema giustizia.

Ma non si tratta solo di questo. Se da decenni la letteratura giuridica e sociologica si interroga sull'identità professionale dei magistrati e sul loro modo di "rendere giustizia", da qualche anno la ricerca storica ha opportunamente allargato il range delle categorie inseribili nel "contenitore" professione: allontanandosi sempre più dall'accezione originaria, che aveva messo in primo piano l'aggettivo "liberale" – non sempre sinonimo di "libero" –, si tende a farvi rientrare, pur con tutte le necessarie cautele, anche chi svolge mansioni pubbliche di tipo funzionariale, come appunto i magistrati.

Nel caso delle professioni "al femminile", vi sono alcune motivazioni supplementari che inducono a seguire un percorso unitario. Fino almeno al secondo dopoguerra, le laureate in Legge, le donne avvocato e le docenti di diritto, erano considerate, soprattutto perché poche, un gruppo unico, abbastanza compatto, di "giuriste": non appena queste sono aumentate, nell'Italia repubblicana, con la diffusione del pluralismo politico si è moltiplicato anche l'associazionismo giuridico femminile, arricchitosi a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta del contributo delle donne magistrato. Nelle pratiche associative, così come nel quotidiano esercizio della loro professione, le giuriste hanno spesso seguito percorsi comuni, o almeno tra loro confrontabili. Pur tenendo conto del diverso ruolo rivestito dalle donne avvocato e magistrato, mi è sembrato opportuno mantenere una prospettiva unitaria, evidenziando di volta in volta le problematiche connesse all'esercizio delle diverse professioni. Delle quali ho scelto di parlare al "femminile", secondo una scelta linguistica che recepisce l'invito – peraltro non da tutti condiviso – a non mascolinizzare termini indicanti professioni per le quali esiste il femminile. Sgombrato il campo dal dilemma su come qualificare le protagoniste della vicenda, ho adottato il sostantivo femminile – avvocata, magistrata, ma non "notaia" –, come del resto fanno da tempo molte edizioni dei vocabolari della lingua italiana.

Il "lungo cammino" delle donne italiane nelle professioni giuridiche non è stato finora ripercorso, se non per frammenti. Questa lacuna costringe ancora oggi a far riferimento, per la fase in cui le donne erano escluse dall'avvocatura, ai lavori degli avvocati Ferdinando Santoni De Sio ed Edoardo 0llandini, pubblicati all'indomani dell'"esplosione" dei due casi di Lidia Poët e di Teresa Labriola, molto documentati ma esplicitamente simpatetici nei confronti delle protagoniste. Oltre all'attenzione, intermittente ma significativa, riservata alle avvocate dalla stampa giuridica e soprattutto da quella femminile, alla storia delle giuriste e delle dottoresse in Giurisprudenza contribuì nel 1939 il civilista Piero Addeo con Eva togata, una «fulgente collana di nobili donne togate del passato» che si inseriva nel filone celebrativo delle «pioniere», delle donne "eccezionali". Da Addeo ho preso in prestito il titolo per questo libro: quel titolo, notava il senatore e primo presidente di Cassazione Mariano D'Amelio nell'introduzione, aveva «un certo carattere giocondo, che tradisce un po' la serietà dello studio». Spero si adatti anche a questo lavoro, che di giocondo non ha, temo, molto.

In questa storia di esclusioni, parziali inclusioni, nuove esclusioni e re-inclusioni – che i titoli dei capitoli provano a riflettere –, gli attori in gioco sono stati molteplici: oltre alle donne, gli avvocati e i magistrati, il mondo accademico e quello politico, e in generale lo Stato, inteso sia come produttore di normative che regolano le attività professionali, sia come corpo giudiziario, che in linea di massima oppose una decisa resistenza all'ingresso delle donne nelle professioni (determinante fu, ad esempio, il ruolo del Consiglio di Stato e della Cassazione, sia nel 1920-1921 sia negli anni Cinquanta e Sessanta).

Non è un caso che il quadro normativo di fondo in base al quale per le donne fu possibile (o viceversa, impossibile) accedere alle professioni giuridiche si sia radicalmente trasformato all'indomani dei due conflitti mondiali, rispettivamente con la legge sulla condizione giuridica della donna del 1919 e con la Costituzione della Repubblica italiana. Senza voler istituire tra gli eventi un nesso causale troppo stretto – che pure, lo vedremo, fu proposto –, credo che sia condivisibile l'affermazione dell'avvocata Zara Algardi: le guerre anticipano i futuri sviluppi del diritto.

Quando parliamo di approcci femminili al mondo del diritto, dobbiamo sempre confrontarci con quelli maschili – come ben sa la gender history, che evoca una differenza sociale più che biologica –, che a lungo hanno dominato incontrastati il modo di vivere le professioni giuridiche. Alcune opinioni al riguardo sono così consolidate da essere ormai assunte come realtà assiomatiche, più che realmente discusse, a partire proprio dalla relazione causale istituita tra l'attuale crisi di trasformazione delle professioni giuridiche e la loro femminilizzazione. Il massiccio inserimento delle donne nell'avvocatura è anche una conseguenza del processo di trasformazione della professione e del mercato del lavoro, che ha messo in crisi il tradizionale monopolio cognitivo dell'avvocato con la diffusione massiccia, ad esempio, del modello transnazionale dei grandi studi legali specializzati in affari, fusioni e acquisizioni. La frammentazione del diritto ha rappresentato uno stimolo anche per le donne in cerca di percorsi professionali idonei alle loro esigenze, per quanto l'aumento della concorrenza abbia portato con sé un aumento del divario di reddito tra le élites e la maggioranza degli avvocati, spesso a scapito delle stesse donne. Nel valutare la quantità e soprattutto la qualità dell'apporto delle donne al campo giuridico, non possiamo dimenticare che negli ultimi decenni anche il ruolo del magistrato è cambiato, nella forma e nella sostanza: «i magistrati svolgono molti diversi mestieri», notava dieci anni fa Elena Paciotti, elencandone ben 23. E se la presenza politico-mediatica dei giudici italiani, almeno da Mani pulite in poi, è stato il segnale più macroscopico della loro nuova immagine pubblica, con la perdita di quell'aura élitaria e "sacerdotale" ancora dominante una quarantina d'anni fa, credo che ciò dipenda soprattutto dal fatto che le loro funzioni si sono sempre più burocratizzate e funzionarizzate, piuttosto che dall'ingresso delle donne nel corpo giudiziario. Anzi, per quel che ho potuto appurare, dobbiamo soprattutto alle donne, o meglio ad alcune di esse, la rivendicazione di un ruolo sociale, e non solo eminentemente "tecnico" e di "potere", del ruolo del giudice.

Se nel corso del Novecento molte avvocate e magistrate sono andate a occupare gli spazi lasciati "liberi" dagli uomini era perché questi erano considerati, a torto o a ragione, meno appetibili di altri e/o perché considerati naturalmente adatti alla funzione "materna" della donna: il diritto di famiglia, la giustizia minorile, e così via. Gli interrogativi si moltiplicano, anche sulla scorta delle suggestioni provenienti da studi che vedono nell'inserimento della prospettiva femminile un arricchimento della nozione stessa di cittadinanza; chiedersi in quale modo la presenza delle donne abbia trasformato l'avvocatura e/o quanto, invece, questa abbia cambiato le donne, così come domandarsi se la presenza ormai massiccia delle donne in magistratura abbia portato o meno con sé una diversa qualità del diritto, più attenta alle esigenze femminili, mi sembra dunque una buona prospettiva d'analisi. A condizione che non sia l'unica, perché per capire le professioni dobbiamo esaminarle nel loro insieme, senza declinarle solo in base al genere.

E a condizione, soprattutto, di tener conto di un dato, sottolineato nelle ricordate indagini sul lavoro delle donne nell'Italia liberale e poi, forse, lasciato un po' troppo sullo sfondo. Nel sancire l'esclusione delle donne dalle professioni giuridiche un ruolo determinante lo svolse lo Stato, le cui scelte generali di carattere politico si concretizzarono in norme e comportamenti che delimitarono «spazi, caratteri, dinamiche» del lavoro e dell'identità femminile. Sia sul piano delle regole prodotte, anche a livello costituzionale (con le proprie specificazioni e, soprattutto, con le proprie omissioni), sia su quello delle risposte fornite di volta in volta alle richieste di inclusione da parte delle donne, le scelte politiche furono e sono il sostrato di tutta la storia che andiamo raccontando. Soprattutto per questo motivo, ho preferito spesso lasciar parlare i documenti, i dibattiti congressuali e parlamentari così come le sentenze rilasciate dai vari gradi dell'ordine giudiziario, che ha rivestito il duplice ruolo di interprete delle leggi e di difensore della cittadella della giustizia, declinata a lungo solo al maschile.

Non va dimenticato che l'avvocatura non era una professione qualunque, ma quella che più di ogni altra aveva un rapporto di grande contiguità col potere, politico e sociale. In età liberale e ancora a lungo nel corso del Novecento, l'avvocato ha rappresentato la quintessenza del "professionista della politica", non solo come protagonista assoluto del circuito della grande politica — nei parlamenti, nei governi, nei ruoli chiave dell'amministrazione pubblica —, ma anche come classico mediatore dei conflitti e degli interessi tra cittadini, e tra questi e lo Stato. Il suo ruolo di collante lo poneva senza dubbio al vertice della piramide professionale e non a caso fu il primo a vedersi regolamentato, nel 1874, l'attività: escluderne le donne apparve a lungo come un "naturale" corollario di questa riconosciuta autorità su cui tutti — governo, ordine professionale e corpo giudiziario — concordavano. Per quanto infatti la normativa del 1874 non avesse richiesto il requisito del sesso, il suo silenzio fu interpretato come implicita esclusione, sulla scorta di argomentazioni non strettamente giuridiche. Molte di queste, sia pure (non sempre, peraltro) riformulate, le ritroviamo nel secondo dopoguerra nelle parole e nei comportamenti di alcuni costituenti e degli addetti ai lavori, che negarono alle donne l'accesso alla magistratura: costituenti che erano in assoluta preponderanza uomini, spesso avvocati e magistrati, divisi dalla politica ma uniti, salvo qualche significativa eccezione, nel confermare la chiusura. Una circostanza che suggerisce di tenere sempre ben presente, nella vicenda, i rapporti tra professione forense e potere giudiziario e che — lo ricordava oltre vent'anni fa Mariuccia Salvati — conferma che la storia delle donne può e deve essere "anche" storia istituzionale: non per caso ella individuava proprio nella storia della mancata ammissione della donna all'avvocatura un chiaro esempio di «un'interpretazione dei diritti femminili basata sulla negazione dei principi universalistici del liberalismo».

La dimensione giuridico-politica è dunque fondamentale in questa lunga vicenda che attraversa tutta la storia dell'Italia unita. Per quanto sia difficile resistere alla «tentazione» di chiudere in un'unica cornice temporale — «dalla fine dell'Ottocento fino a tutto il fascismo» — la «non rilevanza che la scelta di una professione ha nella formazione dell'identità delle italiane», credo che uno sforzo in tal senso vada fatto, perché tra la Poët e le avvocate degli anni Trenta, per fare un esempio, le differenze superano le analogie, pronte però a riemergere, come vedremo, in determinate circostanze. Le vicende narrate coincidono infatti, in modo tutt'altro che casuale, con le diverse fasi e con le diverse scelte politiche del nostro paese, e ci accompagnano per tutta l'età liberale, il ventennio fascista, i primi vent'anni dell'Italia repubblicana, dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta, e ancora oggi. Ma c'è da dire che, pur nel rispetto dell'andamento diacronico della narrazione, alcuni temi si sono imposti con la loro rilevanza, sconfinando spesso dalle scansioni cronologiche con cui avevo suddiviso la narrazione: ciò spiega anche il diverso spazio loro riservato nell'economia del lavoro.

Nell'impossibilità di rendere conto di tutti gli aspetti, ho creduto opportuno, almeno per la prima parte del lavoro relativa ai diritti negati, di individuare un filo conduttore nella dicotomia, spesso ambigua, tra "pubblico ufficio" e professione. Se questo era indubbio nel caso della magistratura, lo era assai meno per l'avvocatura: eppure, fu determinante nel vanificare fino al 1919 i tentativi delle donne di accedere alla professione forense. In età liberale, il caso Poët negli anni Ottanta e il caso Labriola in età giolittiana polarizzarono l'attenzione degli addetti ai lavori, del mondo politico, del movimento femminile, degli organi d'informazione, dell'opinione pubblica. Per quanto le sentenze della magistratura e le argomentazioni dei giuristi sul caso Labriola rinviassero spesso a quello ottocentesco, vi erano alcuni indubbi elementi di novità, derivanti anche dal fatto che molte delle laureate in Legge escluse dalla professione avevano riversato nell'emancipazionismo le loro energie, a conferma di come l'attività intellettuale fosse una componente rilevante nella costruzione dell'identità della donna borghese. Lo studio del diritto era vissuto dalle donne colte anche come "tirocinio" per una partecipazione attiva alla vita politica della nazione e la rivendicazione di uno spazio pubblico per esercitare diritti sociali e politici al tempo stesso: già allora, vi fu chi parlò in proposito di «femminismo forense».

In un contesto sociale e politico che continuava ad assegnare allo Stato (e alla magistratura) un ruolo decisivo nel sancire la discriminazione di genere, la battaglia per l'ingresso delle donne nell'avvocatura si legò dunque alla battaglia per l'estensione dei diritti civili e politici delle donne. Malgrado la presentazione di alcune proposte di legge d'iniziativa parlamentare (tendenti soprattutto a espungere dal codice civile l'istituto dell'autorizzazione maritale) e l'orientamento sostanzialmente favorevole — pur tra vari e rilevanti distinguo — di molti avvocati, le porte della professione rimasero però chiuse al gentil sesso, in Italia come in Belgio. Non in Francia. Il confronto con questo ultimo caso permette di apprezzare le diverse soluzioni e "velocità" delle risposte alla domanda da parte delle donne di accedere all'avvocatura e alla magistratura. Dopo un'intensa battaglia politica senza esclusioni di colpi, le donne francesi furono infatti ammesse nel 1900 all'avvocatura, diventando modello di riferimento per le poche laureate italiane, e nel 1946 entrarono a far parte del corpo giudiziario.

Le donne italiane, invece, non potendo accedere allo sbocco naturale degli studi giuridici, l'avvocatura, cercarono in età liberale altre occupazioni, sia nell'impiego pubblico (soprattutto nell'insegnamento) che in quello privato. Quella in Giurisprudenza era ancora, per la quarantina di dottoresse alla vigilia della Grande Guerra, una laurea quasi inutile. Solo all'indomani della cesura politica e sociale del conflitto, con una legge che rovescia la condizione giuridica della donna — la regola non è più l'esclusione ma l'inclusione, e l'eccezione, di conseguenza, è rappresentata da "casi particolari" –, la donna viene ammessa a vari impieghi e professioni, compresi l'avvocatura e il notariato. La questione non poteva però dirsi risolta e anzi il regolamento di attuazione del 1920, applicato in senso restrittivo, contribuì a perpetuare uno stato d'incertezza che condizionò anche l'atteggiamento delle dorme laureate in Giurisprudenza verso la libera professione, oltre a sancire la loro esclusione da vari impieghi e carriere, a partire appunto da quella giudiziaria. Sono questi gli anni, comunque, in cui Eva togata fa il suo ingresso in tribunale, tra lo scetticismo dei benpensanti, di non poche donne, e la facile ironia dei periodici umoristici.

In questa storia il ventennio fascista non assume una rilevanza particolare, dal momento che la politica del regime nei confronti delle donne lavoratrici è, come noto, contrassegnata da alcune ambivalenze: se da un lato sembra incoraggiare l'affermazione della donna "moderna", dall'altro perpetua varie esclusioni e ne istituisce di nuove, incidendo sulle scelte professionali delle laureate. Oltre a ricostruire la quantità del fenomeno — quante donne si laureano, e con quali specializzazioni —, ho cercato di mostrarne la qualità. Soprattutto negli anni Trenta, di crisi economica, quando il mercato del lavoro è inflazionato da una crescente offerta di avvocati, molte laureate continuano a preferire il classico sbocco professionale, l'insegnamento, o si dedicano all'assistenza sociale: incoraggiata dal regime con l'istituzione nel 1928 della Scuola superiore di assistenza di S. Gregorio al Celio, aperta anche alle laureate in Giurisprudenza e Scienze politiche. Il rallentamento nel processo d'integrazione socio-professionale delle donne, soggette a vari condizionamenti che resero complessa e coraggiosa la scelta della libera professione, le indusse infatti a occupare alcune nicchie professionali, promosse da un associazionismo professionale non certo al riparo dalle contaminazioni politiche. Mentre in campo civile la specializzazione "naturalmente" riservata alle avvocate era (e lo sarà a lungo, per non dire sempre) il diritto di famiglia — una scelta in parte condivisa con colleghe di altri paesi ma pur sempre fortemente incoraggiata dagli avvocati, che ritenevano tale specializzazione assai congeniale alla donna —, nel ramo penale le attività di cura tradizionalmente riservate alle donne si concretizzarono nell'assistenza legale ai "minori traviati" e/o ai "delinquenti" (soprattutto nel Tribunale dei minori, istituito nel 1934, che però le escluse dal "giudizio").

Significativo, per le vicende narrate, è il primo ventennio dell'Italia repubblicana, segnato ancora dall'esclusione delle donne dalla funzione giudiziaria. Dal nostro punto di vista, l'entrata in vigore della carta costituzionale non rappresentò per le donne — e non solo per le laureate in Giurisprudenza, un'assoluta minoranza —, uno spartiacque significativo. La dicotomia pubblico/privato si confema anche in questo caso una proficua chiave di lettura per cercare di comprendere come mai, a fronte di una condizione di uguaglianza solennemente sancita dalla Costituzione, per altri quindici anni le donne non poterono metterla in pratica nel mondo del lavoro. Il dibattito consumatosi alla Costituente sul ruolo della magistratura prosegue per tutti gli anni Cinquanta, coinvolgendo addetti ai lavori (uomini e donne), mondo politico, opinione pubblica. La chiusura nei confronti delle donne, contravvenendo al dettato costituzionale, riceve l'avallo di varie sentenze delle corti superiori e in particolare della Cassazione, la cui linea rivela incredibili elementi di continuità per almeno settant'anni di storia italiana: un dato da tenere sempre presente. Se una prima breccia si ebbe nel 1956, con l'ammissione delle donne come giudici nei tribunali dei minori e giurati popolari in Corte d'assise, solo con l'entrata in funzione della Corte costituzionale furono finalmente abbattute le barriere che, nei fatti, avevano impedito alle donne di acquisire una piena visibilità e cittadinanza sociale. Proprio la dichiarata incostituzionalità di parte della legge del 1919 — la prima tappa di questo lungo processo di inclusione — diventò la conditio sine qua non per risolvere per via legislativa la questione, come avvenne nel 1963 con l'ammissione delle donne a tutte le funzioni giudiziarie.

Nel generale contesto di aumento delle iscritte a Giurisprudenza in età repubblicana, alcune scelte di studio si sono rivelate utili spie per capire in quale fase del percorso intellettuale e professionale delle donne sia avvenuta la "scelta" — più o meno obbligata — in favore di particolari specializzazioni nella libera professione o nel campo giudiziario. Se il diritto di famiglia è il settore privilegiato delle giuriste (e domina infatti i lavori congressuali delle loro associazioni), mi pare significativa l'assenza di una propensione delle laureande in Legge per argomenti legati alla presunta specificità femminile: queste anzi decrescono nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, in favore di scelte diverse, soprattutto in diritto del lavoro, amministrativo, commerciale. I dati, sia pure frammentari, andrebbero messi in relazione con quelli relativi agli argomenti prescelti dagli uomini, ma danno pur sempre corpo all'idea che per la donna, la sua naturale propensione a occuparsi più di "persone" che di "casi", in virtù della sua capacità di cura e di servizio, sia stata a lungo una gabbia: che è diventata, paradossalmente, ancora più stretta nel momento in cui si sono delineati altri settori del diritto verso cui dirigersi — da quello societario all'amministrativo e al tributario, per esempio —, che gli studi universitari facevano prefigurare e che era difficile continuare a coltivare dopo la laurea, per diversi motivi. Così come negli anni Ottanta dell'Ottocento o durante il fascismo, ancora negli anni Sessanta la laurea in Legge era, per molte donne, un titolo di studio non necessariamente spendibile nel mondo del lavoro. Incidevano e incidono ancora vari parametri — per le donne come per gli uomini, e non solo per l'avvocatura o la magistratura —, a partire dalla presenza o meno di una famiglia di professionisti alle spalle: essere "figlio/a di", "moglie/marito di", "sorella/fratello di", aiutava, specialmente nei primi anni. Ieri come, in buona parte, ancora oggi.

Quando parliamo di femminilizzazione dell'avvocatura e della magistratura, occorre interrogarsi sul nesso tra specificità femminile e modalità di esercizio professionale, che a sua volta dipende dalla collocazione nel tempo e nello spazio delle professioniste. Per quanto le differenze si siano ormai ridimensionate, non possono dirsi ancora uguali le condizioni in cui si esercita l'avvocatura o si fa il giudice a Milano o a Napoli, sia per gli uomini che per le donne: ma è difficile — una volta assunta un'ottica nazionale — rendere conto delle particolari condizioni ambientali che incidono sulla qualità dell'esercizio professionale, essendo anche poche le testimonianze al riguardo. Ed è un peccato, perché alcune ricerche a livello locale forniscono importanti spunti di riflessione, mentre i dati sulla distribuzione delle laureate nelle diverse zone del paese, o della presenza delle donne nei Consigli dell'Ordine degli avvocati, ad esempio, confermano l'esistenza di enormi sperequazioni regionali.

Alcune "scelte" professionali delle giuriste appaiono legate anche a un preciso impegno sociale e politico e la rivendicazione, ancora oggi, da parte di certe associazioni o comunque di giuriste, di una specificità femminile nell'approccio al diritto induce a riflettere sul passato, sia prossimo che remoto, per rintracciarne origini e ambiguità. Esiste, in sostanza, nella qualità dell'esercizio professionale un segno distintivo femminile, un particolare "stile"? Ha senso parlare, come è stato fatto più volte a partire dagli anni Settanta, di «diritto al femminile»? Si tratta di domande complesse, alle quali non ho preteso di fornire risposte univoche, e su cui le stesse giuriste si sono divise e ancora oggi hanno idee piuttosto diverse, che ho cercato di riportare in modo neutrale. Anche se un'opinione, alla fine, me la sono fatta. Credo infatti che di diritto al femminile sia lecito parlare, a condizione di non proporre, come già è avvenuto in passato per la storia delle donne, una storia separata. Di certo, negli anni Settanta, caratterizzati da significativi progressi per la condizione femminile che molte giuriste avevano auspicato e, per così dire, "accompagnato" — dall'introduzione del divorzio alla riforma del diritto di famiglia nel 1975, dall'abolizione delle discriminazioni in materia di lavoro (1977) alla legge sull'aborto — si parlò di "femminismo giuridico" e di "diritto sessuato". Rivendicarlo oggi, e soprattutto insistere sulla specificità femminile, può anche essere legittimo, ma nasconde delle insidie: lavorare sulle "differenze", infatti, consente di rilevare la persistenza e la contradditorietà di alcuni stereotipi — e delle ambiguità del processo di modernizzazione della società italiana —, che non di rado sono introiettati dalle stesse donne e finiscono per giustificare la persistenza di alcuni comportamenti discriminatori. Ma quando le professioni si femminilizzano in modo massiccio, e ci troviamo davanti a migliaia di avvocate esercitanti o di donne magistrato, non possiamo certo considerarle — così come i colleghi uomini — un blocco omogeneo. L'universo delle giuriste è composto di tanti diversi frammenti, corrispondenti ad altrettante opzioni culturali, sociali, politiche, né più né meno di quanto accada ai colleghi uomini. Mi sembra, anche questa, una conferma della raggiunta "normalità" di vivere le professioni giuridiche da parte delle donne.

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