Copertina
Autore Franco Tagliafierro
Titolo Il capocomico
EdizioneSansoni, Firenze, 1991 , pag. 345, dim. 145x225x30 mm , Isbn 978-88-383-1281-6
LettorePiergiorgio Siena, 2003
Classe narrativa italiana , storia
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Indice

I.      Gravissimo ed atrocissimo             7
II.     Il silenzio della folla              17
III.    La ditta Sciarra                     33
IV.     L’unica strategia possibile          51
V.      Manovre preliminari                  67
VI.     La pantomima della morte             83
VII.    Era scritto                         103
VIII.   Qualche problema in più             121
IX.     Vi dichiaro in arresto              137
X.      Genitori e figli                    149
XI.     Da un triduo a un tedeum            171
XII.    I segni della solitudine            187
XIII.   In attesa di svolta storica         201
XIV.    Un sogno ricorrente                 215
XV.     Una questione privata               225
XVI.    Il sentimento della catastrofe      241
XVII.   Intanto si ricomincia               253
XVIII.  Il partito degli inglesi            271
XIX.    Una conclusione provvisoria         285
XX.     L’uscita di scena                   297
XXI.    La precoce agonia della Repubblica  315
XXII.   I meccanismi del des Lino           329
 

 

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Pagina 7

I
Gravissimo ed atrocissimo



Napoli, 18 ottobre 1794. Una giornata perfettamente in regola con la leggendaria mitezza degli autunni del Golfo. Quindi giornata priva di qualsiasi intralcio atmosferico alle normali attività delle 437000 anime addensate fra la ricorrente minaccia del Vesuvio (l’ultimo terremoto e l’ultima eruzione si erano avuti in giugno) e l’immancabile protezione di San Gennaro.

C’era un sole che attirava verso gli spazi aperti anche chi non viveva in quegli umidi seminterrati chiamati ‘bassi’ né in quelle abiezioni urbanistiche chiamate ‘vichi’, in base ai quali si definiva il quoziente di miseria dei quartieri popolari. C’era persino una brezza che vivificava la pelle e aiutava le bandiere di Castel Nuovo e delle altre fortezze a esibire lo stemma dei Borbone su fondo bianco. Giornata dunque adattissima per attività fuori dell’ordinario come la partecipazione a uno spettacolo di piazza, o per avvenimenti di portata storica tipo una sollevazione di popolo.

Ma la sollevazione non ci fu. Perché erano soltanto dieci quelli che avrebbero dovuto scatenarla. E perché il governo aveva adottato misure di prevenzione tali da stroncare sul nascere anche una rivolta di centomila disperati. Lo spettacolo di piazza invece ci fu, e dei più memorabili.

Nella piazza del Castello, a ridosso del fossato, i carpentieri stavano ultimando la costruzione del palco, ma apparivano cupi e nervosi come se gli avessero detto che il lavoro era tutto da rifare. Di fronte al palco due garzoni stavano chiudendo lo steccato che correva a semicerchio dalla balaustra del fossato fino al casello della Gran Guardia Militare. Aldilà dello steccato c’erano alcuni plotoni del reggimento Real Macedonia, fucile al piede e baionetta innestata. Davanti ai suoi uomini un ufficiale pesticciava il terreno, muoveva qualche passo, tornava indietro e di nuovo pesticciava. A un certo momento il garzone in cima alla scala si lasciò sfuggire il martello, che andò a cadere sulla cassa degli attrezzi vuota. Pur in mezzo agli altri rumori l’urto echeggiò come uno sparo. L’ufficiale si voltò di scatto, gli occhi sbarrati, la mano già pronta a sfoderare la sciabola. Resosi conto dell’accaduto indirizzò al garzone un insulto feroce, poi girò di nuovo le spalle al palco e seguitò a dare segni di nervosismo.

Per una profondità di una ventina di passi il suolo dinanzi allo schieramento era sgombro. Ma oltre la zona di sicurezza la piazza era gremita fino all’inverosimile. Una moltitudine strabocchevole, un mare di teste. Eppure mancava quel vociare assordante che è la caratteristica delle adunate di migliaia di persone in attesa di uno spettacolo. Ciò che si udiva era soltanto brusio. Se in qualche punto della piazza scoppiava un clamore, immediatamente veniva estinto dal silenzio allarmato che si creava intorno.

C’era nervosismo anche tra la folla. Cioè paura. E la si leggeva soprattutto sulle facce dei popolani in prima fila, che cercavano di contenere le spinte di chi stava dietro per non oltrepassare il limite tracciato a terra. Ma c’era anche la volontà di sopportare qualunque disagio pur di non perdersi nessuna fase dello spettacolo. E la costruzione del palco, con fanteria immusonita davanti allo steccato e scalpitare di cavalleria intorno alla Gran Guardia, era già spettacolo: la prima parte di uno spettacolo offerto dal re al popolo di Napoli. In special modo al fedelissimo popolo degli artigiani e dei piccoli commercianti, dei portuali e dei pescatori, dei disoccupati e dei lazzari, che era accorso in piazza del Castello numeroso come non mai.

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Pagina 171

XI
Da un triduo a un tedeum



Vittorio Amedeo III re di Sardegna, che aveva cercato insieme agli austriaci di inchiodare in Liguria l’armata francese, si ritirò dalla guerra. A frustrare le sue velleità di resistenza era stato un generalino di ventisei anni, un certo Bonaparte.

In conseguenza di ciò all’imperatore d’Austria sorse il dubbio che i suoi generaloni non fossero altro che divise gonfiate. E subito fece sapere a re Ferdinando e consorte che ormai toccava al regno delle Due Sicilie assumersi il compito di difensore della Penisola. Troppo comodo limitarsi a fornire qualche reggimento di cavalleria quando erano in gioco gli irrinunciabili valori dell’assolutismo e della cattolicità. Occorreva invece una mobilitazione generale.

E mobilitazione fu. Con regolamentare proclama. Anzi con due.

E poiché la Francia dovunque arriva, saccheggia, insulta, opprime, profana i Templi, rovescia gli Altari, perseguita i Sacerdoti, calpesta quanto di più sacro e di venerabile ha lasciato Gesù Cristo alla sua Chiesa ne’ suoi dogmi, ne’ suoi precetti e ne’ suoi divini Sacramenti, re Ferdinando si rivolse con una lettera circolare al clero delle Due Sicilie affinché martellasse nelle teste che la guerra incombente non era guerra di stato bensì di religione. Guerra santa. E proprio perché tale erano indispensabili dei volontari. La Segreteria di Guerra ne fissò il numero: 40000.

Anche ai rampolli dell’aristocrazia fu esteso l’invito ad arruolarsi, e non solo ai rampolli, visto che l’arco di età utile andava dai 16 ai 45 anni. Così fu formato un corpo di Volontari Nobili di Cavalleria di 400 uomini armati ed equipaggiati a proprie spese, che sfolgoravano nelle sfilate con le loro uniformi bianche bordate di velluto azzurro e suscitavano invidie fra i rampolli della borghesia. Per i quali, affinché non andasse sprecata la percentuale di patriottismo insita nelle loro invidie, fu creato un analogo corpo speciale e così anch’essi, con la denominazione di Distinti Volontari Civili, poterono caracollare eroicamente sotto gli sguardi sognanti delle signorine di buona famiglia. Per i lazzari invece si inventò il corpo degli Spuntonieri: in mancanza di fucili furono armati di spuntoni, ossia di rudimentali aste di legno con la punta di ferro. Con quegli spuntoni i lazzari avrebbero dovuto neutralizzare le cariche della cavalleria nemica.

— E allora, quale sarà il bersaglio? — domandò Ignazio Calitri.

— Per il momento nessuno — rispose Rinaldo.

— Come sarebbe? I nuclei li hai voluti tu. E devo ammettere che l’idea è stata geniale, altrimenti non ci saremmo mai liberati delle diffidenze reciproche. Io fui molto contento di essere stato abbinato proprio con te: perché pensavo che avendo proposto tu questo tipo di organizzazione dovessi già avere in testa non solo l’obiettivo ma anche un piano. E ora che fai? Ti tiri indietro? O forse non ti fidi di me?

— La fiducia è fuori discussione. Sono invece convinto che in questo clima da patria in pericolo un attentato non avrebbe senso.

— E perché? Mai il regime ha mostrato tanta debolezza come adesso. Mai tanta paura.

— Paura sì, ma dei francesi. Ed è proprio la debolezza, o meglio, la coscienza di tale debolezza, la sua migliore difesa. Almeno per quanto riguarda il fronte interno.

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Pagina 241

XV
Il sentimento della catastrofe



Le lettere degli esuli napoletani giunte in novembre e dicembre trasudavano delusione da ogni sillaba. Delusione pura, senza i consueti additivi retorici. Se fossero state intercettate dal Bonaparte, i loro autori lui sicuramente li avrebbe sbattuti in carcere, ma ne avrebbe apprezzato lo stile. Perché era un’ottima imitazione del suo.

Causa della delusione era appunto Bonaparte. Il quale aveva promesso tutte le libertà e poi ne aveva concessa ai popoli una sola: quella di approvare tramite i loro rappresentanti le imposizioni dei francesi. Bonaparte inoltre aveva fomentato speranze che il Veneto sarebbe stato annesso alla Repubblica Cisalpina e poi, in base alla cosiddetta pace di Campo Formio (firmata nella villa Manin di Passariano), lo aveva ceduto all’Austria. Bonaparte infine aveva lasciato credere che una volta riuniti i territori liberati in un unico stato indipendente sarebbero cessate spoliazioni e ruberie, e poi aveva permesso che continuassero. Con una variante: non dovevano più essere perpetrate in nome della Repubblica Francese Una e Indivisibile, ma in nome della neonata Cisalpina, sua repubblica sorella.

Nelle lettere degli esuli l’esortazione a preparare il terreno per i francesi non compariva più.

— Finalmente l’hanno capito anche loro quanto sia rovinosa una liberazione imposta dall’alto — commentò Rinaldo.

— Effettivamente i francesi sono soltanto dei nuovi barbari — disse Angelo Mascitelli, che appena da qualche istante aveva smesso di pensare alla bellissima cugina di cui ormai era innamorato in misura eccessiva per un cospiratore. — E allora coraggio! Cercheremo di liberare il paese senza l’aiuto di nessuno.

— Encomiabile dichiarazione di buona volontà — ironizzò Pietro Capizzuto. — Avanti! Chi altro intende farne una analoga?

— Prima di distribuire encomi insolenti, — lo rimbeccò Angelo Mascitelli — sforzati di comprendere il senso di ciò che uno dice. Intendevo significare che i nostri scopi dobbiamo perseguirli comunque. E visto che l’impegno di uccidere Castelcicala altro non era che una dichiarazione, quella sì, di buona volontà, dobbiamo riprogettare tutto e...

— Un momento! - insorse Filippo Vicedomini. — Il mio era un impegno vero e proprio, non una dichiarazione di buona volontà. Se finora non ho concluso nulla, ciò è dipeso esclusivamente dal fatto che non si sono realizzate le condizioni necessarie per agire.

— E quali erano?

Solo Rinaldo sapeva a quali condizioni alludesse. Ed effettivamente anche a lui risultava che Castelcicala non si era più recato alla Vicaria per le riunioni della Giunta. Temendo che Vicedomini rivelasse il proprio piano gli lanciò un’occhiata di dissuasione. Lui rispose a tono.

— Io ho speso tempo e denaro nel tentativo di scoprire dove e quando Castelcicala fosse avvicinabile con discrete probabilità di successo e ragionevoli rischi per me, ma finora non sono riuscito a raccogliere dati sufficienti. D’altronde nessuno di voi...

— Vero — sospirò Schiavone. — Io avevo promesso informazioni, ma lui le ha attese invano. Ho incontrato difficoltà a non finire, come era prevedibile. Appunto per questo ho sempre consigliato personaggi minori, cioè bersagli più accessibili. Se voleste riconsiderare...

— Ormai non esiste più il personaggio minore la cui morte avrebbe un significato politico — obiettò Rinaldo.

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Pagina 315

XXI
La precoce agonia della Repubblica



La guardia d’onore che il capolazzaro Michele lo Pazzo aveva richiesto per San Gennaro prestava regolarmente servizio. Centoquaranta uomini mangiavano e bevevano a spese dell’arcivescovo e consolidavano con la propria presenza la sua tremolante (anche a causa dei suoi ottantotto anni) adesione alla neonata repubblica. Il Vesuvio, rimasto in letargo dalla tremenda eruzione del giugno ‘94, si era destato fregiandosi di un pennacchio di fumo durante il giorno e di un’aureola di bagliori durante la notte, il che venne interpretato come un buon augurio. Si era riaperto il gioco del lotto, si erano riaperti i teatri, ma le taverne dovevano chiudere alle otto di sera: il popolo capì che gli si vietava il ritorno alla normalità.

Dall’esilio era tornato Francesco Mario Pagano e subito lo avevano nominato presidente del Comitato di Legislazione, uno dei sei comitati in cui si articolava il Governo Provvisorio, a capo del quale era stato posto Carlo Lauberg, anche lui tornato dall’esilio ma con il cognome francesizzato in Laubert. Era stata istituita la Guardia Nazionale: tutti i cittadini dai sedici ai cinquant’anni erano invitati ad arruolarsi. Tantissimi avevano risposto all’invito, ma poi molti erano stati respinti perché ritenuti non abbastanza nemici del vecchio regime. E così accrebbero il numero dei nemici del nuovo.

Al teatro dei Fiorentini una ballerina si era esibita in abiti non ortodossamente succinti: scandalo tra i benpensanti. Alcuni frati si erano sposati sotto l’albero della libertà: nuovo scandalo. Nei quartieri popolari i francesi avevano effettuato perquisizioni per scovare le armi nascoste. Poche le armi trovate, pochi quindi gli arresti, molta l’ostilità sorda dei lazzari. Il commissario civile Faipoult aveva dichiarato che per diritto di conquista i beni della Corona e degli Ordini cavallereschi, la zecca, la tesoreria, le banche, il lotto, le fabbriche di arazzi e di porcellane, i musei, i ruderi di Pompei e quanto la lava ancora ricopriva, ormai appartenevano alla Francia. Costernazione generale. Ritorno di molti neofiti della repubblica, nel segreto della coscienza, al vecchio ovile. Conseguente espulsione del Faipoult dal paese per ordine di Championnet, che non voleva passare alla storia come il più rapace dei predatori della Grande Nation. Sospiro di sollievo dei membri del governo, che già litigavano tra loro e perdevano credibilità prima ancora di acquistarla.

Nelle case degli abbienti erano cominciate le visite dei commissari di quartiere provvisti di un foglietto su cui era scritto il nome e l’importo da pagare. La cifra a volte era esageratissima. Proteste, ricorsi, piagnistei, ma la capitale doveva assolutamente versare una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati, le province di un milione e duecentocinquantamila. Soldati e ufficiali francesi, nonostante le severe punizioni minacciate da Championnet, avevano avviato le tradizionali ruberie private. L’entità del maltolto non sempre era proporzionale al grado. Tre soldati troppo intraprendenti erano stati uccisi a sassate. Subito era stato pubblicato un editto che imponeva ai proprietari di disselciare il tratto di strada avanti alle loro case e di trasportare le pietre fuori città. E quello fu il primo di una serie di editti da farsa.

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