Copertina
Autore Fabio Tamburini
Titolo Affari in piazza
SottotitoloLa storia della borsa nel racconto dei suoi protagonisti
EdizioneLonganesi, Milano, 2001, Il cammeo 356 , pag. 300, dim. 140x210x33 mm , Isbn 978-88-304-1825-7
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe economia finanziaria
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Pagina 7

Introduzione


Una vera beffa: il mercato azionario in Italia è esploso proprio quando gli agenti di cambio hanno dovuto battere in ritirata. Da sempre, sono stati le vestali di una Piazza Affari che tirava avanti in una economia dominata dalle grandi famiglie d'imprenditori e dal capitalismo di Stato. Un dominio totale, reso assolutamente stabile dalla convergenza d'interessi tra chi, al vertice del potere, aveva tutta la convenienza a comandare senza fare i conti con realtà scomode come il mercato e la concorrenza. Il ruolo affidato all'agente di cambio era di essere il dominus della Borsa. Era una rendita di posizione eccellente, che garantiva a 130 operatori la possibilità di tramandare di padre in figlio gli studi professioni. Da qualche anno, invece, Piazza Affari è cresciuta fino a diventare una città grazie alla trasformazione dell'ex Bot people, il popolo dei Bot, in massa errante alla ricerca d'investimenti con tassi d'interesse adeguati. Così si spiega l'attenzione sempre più forte rivolta al mercato azionario.

Ma gli agenti di cambio non sono stati puntuali all'appuntamento. Certo, alcuni di loro conservano posizioni significative. E altri presidiano le trincee sperando possa tornare l'occasione buona da cogliere. Tutti devono fare i conti con il grande inverno provocato dalle riforme che dalla fine degli anni Ottanta hanno creato le condizioni per mettere in soffitta quasi due secoli di attività. Le tendenze in atto appaiono contraddittorie. In realtà non lo sono affatto. Finché Piazza Affari aveva le dimensioni di un mercato più o meno vivace secondo i periodi ma senza troppe pretese, gli agenti di cambio erano in grado di provvedere al meglio. Ogni operazione di compravendita passava dai loro studi, anche se buona parte delle transazioni avveniva, senza scandalo, fuori Borsa. Gli ordini di acquisto o di vendita venivano raccolti, eseguiti alle grida e gli operatori rispondevano con il loro patrimonio delle eventuali insolvenze. Tutto si svolgeva secondo abitudini e riti che sapevano di artigianato più che di globalizzazione dei mercati. E infatti l'avvento dei computer, l'era degli scambi in tempo reale, l'aumento esponenziale dei contratti sottoscritti giornalmente hanno posto le premesse per la liquidazione dell'universo che aveva prosperato intorno alle corbeilles. In effetti, la galassia che gravitava intorno al parterre si è dissolta. Tanto rapidamente che se ne sta perdendo perfino il ricordo. Le giornate alle corbeilles, che fino a non molto tempo fa sembravano destinate a ripetersi all'infinito, appartengono a un passato lontano ormai anni luce. Così la Piazza Affari di allora è diventata materia d'interesse per gli storici della finanza. Sull'argomento il Centro sulla storia dell'impresa e dell'innovazione di Milano ha avviato una ricerca triennale con l'obiettivo di ricostruire le vicende del mondo della Borsa. Le otto interviste proposte in questo volume, ordinate secondo l'età dei protagonisti, rappresentano un contributo che affianca in modo autonomo tale indagine.

La premessa per il passaggio dal vecchio al nuovo è stata l'approvazione delle leggi di riforma, votate dal Parlamento all'inizio degli anni Novanta dopo una latitanza del potere legislativo durata a lungo. In proposito Enzo Berlanda, che è stato presidente della Commissione Finanze e Tesoro, motore dei cambiamenti, descrive in una delle interviste raccolte nel libro i retroscena dell'iter parlamentare e il lavorio delle lobby, mentre altri esponenti di spicco dei mercato azionario rivelano le reazioni ostili dei grandi gruppi del capitalismo italiano che hanno tentato il boicottaggio della legge sulle offerte pubbliche di acquisto (Opa). I grandi gruppi fecero «una resistenza forsennata», testimonia Attilio Ventura, l'ultimo presidente del comitato degli agenti di cambio. E il suo collega Ettore Fumagalli ricorda il fuoco di sbarramento promosso dagli uomini di casa FIAT. Poi però le riforme sono passate. E la Borsa ha voltato pagina. Ma quei cambiamenti, insieme all'avvento dell'era informatica e alla globalizzazione dei mercati, hanno portato rapidamente al tramonto dell'intero mondo di Piazza Affari. In proposito tutti gli intervistati concordano: il destino era segnato. Il grimaldello che in ogni Paese ha consegnato il mercato alle banche è stata la fine del monopolio degli scambi riconosciuto per legge agli agenti di cambio. Quando finisce un mestiere, tuttavia, può essere tempo di rimpianti. Di sicuro il sentimento più diffuso è la nostalgia.

Le testimonianze rese dai principali protagonisti del mercato intrecciano le vicende dell'istituzione al racconto di come funzionava il mercato azionario, fino a ricordi di vita strettamente personali. Leggendole si compone il mosaico di una intera città, Milano, che è cambiata almeno quanto la Borsa. «L'attuale centro della moda», dice Urbano Aletti riferendosi a via della Spiga e dintorni, in pieno centro cittadino, «era un piccolo borgo dove alla mattina passavano ancora le capre, le mungevano e ti davano il bicchiere di latte.» E aggiunge sprazzi di vita all'epoca del fascismo quando, durante i sabati del regime, lo vestivano da «marinaretto» e «come uno scemo andavo a fare il segnalatore con le bandiere», nonostante «l'allergia all'acqua».

Ma dalle interviste esce anche uno spaccato della storia d'Italia. Gianluigi Milla, per esempio, racconta delle persecuzioni razziali, che sconvolsero la vita di tante, troppe famiglie. La tranquilla e neutrale Svizzera servì come rifugio a molti, ma in anni successivi ha ospitato anche capitali e non soltanto uomini in fuga. «La paura del comunismo spiega l'esportazione di capitali», sostiene Fumagalli. Certo è andata così, ma era anche paura del fisco. La conferma giunse quando, nonostante la depenalizzazione dei reati valutari e la libera circolazione dei capitali, solo parte dei denari rientrò a casa. Gli altri restarono lì dove erano stati portati. In altre pagine Aletti ricostruisce le speculazioni dei gerarchi fascisti, Berlanda ricorda la marcia dei baschi verdi di Gedda nel 1948, Fumagalli racconta le ispezioni a comando della guardia di finanza e delle autorità di controllo durante la Prima Repubblica, anche se non vuole entrare nel merito di singole responsabilità.

Più in generale, la costante nei rapporti tra Borsa e partiti politici è rappresentata da un marcato disinteresse. Piazza Affari era il tempio della speculazione finanziaria, lontana dalle logiche della politica. L'attenzione da parte di singoli personaggi o di correnti era dovuta a un solo motivo: l'utilizzo come canale di finanziamento puntando su operazioni insider quando notizie o avvenimenti di carattere politico erano tali da influenzare l'andamento dei titoli. Per il resto l'estraneità al mercato azionario risultava totale.

L'opinione generalizzata, del resto, è che l' establishment del potere economico abbia sempre remato contro Piazza Affari. «Il capitalismo italiano», spiega Vincenzo Matturri, «ha molte responsabilità: gli aumenti di capitale avvenivano per guadagnare sui titoli, non per investire nelle imprese. In pratica le società maggiori approfittavano dei momenti favorevoli per collocare nuove azioni a prezzi elevati. Poi aspettavano che le quotazioni crollassero e ricompravano i titoli ricostituendo i pacchetti di controllo iniziali a prezzi inferiori.»

In materia, Aletti rincara la dose: «Il mercato non è cresciuto come avrebbe potuto perché non lo ritenevano necessario, non ne avevano bisogno. Una Borsa realmente efficiente in Italia non c'è stata perché andava bene così com'era». Deus ex meschina, ancora una volta, è stato il banchiere che ha governato per mezzo secolo le sorti del capitalismo italiano: Enrico Cuccia. Tra lui e Piazza Affari la diversità è stata quasi genetica, con visioni contrapposte.

[...]

Poveri Cristi, parco buoi e quant'altro sono le espressioni più ricorrenti per definire i risparmiatori che alimentano le storie di Piazza Affari ma che generalmente ne hanno tratto molti guai e pochi benefici. Soltanto in passato oppure anche oggi? «Attualmente gli organi di controllo avvertono subito se c'è qualcosa che non va e alzano la guardia», risponde Berlanda. «Così gli spazi per operazioni spericolate si riducono. E di molto.» Però i problemi restano. Per esempio le gestioni possono avvenire «scaricando titoli alla clientela secondo i desideri degli azionisti», dice Matturri, che tuttavia sottolinea come «all'antico non si può tornare più perché la situazione è completamente diversa. Soprattutto per l'entrata in campo di un protagonista: il mercato, garante di una trasparenza maggiore. Il passato, ormai, lo abbiamo lasciato alle spalle. Ed è giusto così».

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Urbano Aletti


    «Una Borsa realmente efficiente in Italia
    non c'è stata perché [ai grandi gruppi]
    andava bene così com'era.»
La sua storia di agente di cambio parte da lontano. Quando è cominciata?

Sono nato nel 1923 a Milano, in piazza Belgioioso. Mio padre, all'epoca, aveva la banca in via degli Omenoni. Due anni dopo si trasferì nella casa di via della Spiga, al numero 20. Ho passato una giovinezza felice in una famiglia piuttosto patriarcale. Avevo due fratelli e due sorelle, grande concordia, vita in comune con gli zii e i nonni, come si faceva allora. Non c'era alcuna porta di casa chiusa, neppure di sera. L'attuale centro della moda era un piccolo borgo dove alla mattina passavano ancora le capre, le mungevano e ti davano il bicchiere di latte. Dove adesso c'è Hermés, all'angolo di via Sant'Andrea, c'era il panettiere tutto sporco in faccia di farina bianca che ti dava per una lira un panino. Vendeva prodotti poveri, prendendoli dai tanti scaffali del negozio. Vivevamo semplicemente di cose molto semplici.

Si trascorreva una vita serena, senza grandi preoccupazioni. In via della Spiga c'è una pavimentazione particolare, di pietra, e così ogni tre giorni passavano gli squadroni del Savoia Cavalleria, che non potevano percorrere via Senato perché era scivolosa. Inoltre in alcuni punti c'era il Naviglio e i cavalli non nuotavano controcorrente. Così, per andare in caserma, passavano da via della Spiga. Nel 1929 avevo sei anni e della grande crisi dei mercati finanziari di tutto il mondo ricordo solo qualche commento di mio padre. E che, quando alla domenica andavamo in campagna, a Varese, dove avevamo la villa, si doveva prendere la strada comune per risparmiare le due lire dell'autostrada.

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Che conseguenze ha avuto il fascismo in Borsa?

Poca cosa: l'edificio che ha costruito. Non è stato niente di più. In pratica hanno fatto perdere almeno vent'anni. Piazza Affari immobile è rimasta immobile, mentre altre Borse come Parigi e Londra crescevano. Insomma, siamo arrivati al punto che a livello europeo non contavamo più niente. La scelta del tipo di edificio sede della Borsa è significativa. Un palazzo monumentale, ma senza alcuna praticità. Infatti lo realizzò un architetto che costruiva chiese. Tanto che mancavano i servizi sanitari: 1300 persone con otto pisciatoi. E non c'era neppure il reparto femminile. Pensi che ho introdotto io un servizio medico, perché ogni tanto qualche infartino ci scappava. Cose minime, talmente elementari che anche un fesso come me era capace di realizzare. Si trattava solo di avere voglia di farle. Probabilmente già allora non c'era interesse a creare un mercato efficiente. Non va dimenticato che il fascismo è andato al potere grazie al sostegno dei maggiori gruppi industriali e, quando la dittatura è caduta, il comando è rimasto sempre in mano agli stessi. Certo ci sono imprenditori che hanno avuto qualche traversia, ma poca cosa.

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Anche lei è tra quelli che in politica subiscono il fascino di Berlusconi?

Neanche per idea. Anche perché sono diffidente sull'uso di troppi mezzi di comunicazione, che nella vittoria del Polo sono stati determinanti. Sono meccanismi molto pericolosi perché permettono di raccontare quello che si vuole e la gente lo beve che è un piacere. Vede, io sono nato sotto una dittatura e non vorrei morire nella stessa condizione. Si presentano sempre come salvatori, ma poi...

La politica italiana si è finanziata con la Borsa?

Senz'altro. Certo non direttamente, ma gli uomini politici lo hanno fatto. Singoli personaggi si agganciavano reciprocamente, sostenendosi, spalleggiandosi.

Solo dei partiti di governo o anche dell'opposizione?

L'opposizione aveva meno potere. Ma va detto che, finanziamenti irregolari a parte, ha fatto molti danni perché non amava la Borsa. Se non altro i partiti di governo la tolleravano anche se, in alcuni casi, la usavano a fini indebiti. Al contrario l'opposizione avrebbe fatto volentieri come in Russia, dove quella esistente all'epoca degli zar venne abolita. Evidentemente la consideravano uno strumento inutile. Comunque, io non sono il più adatto a parlare dei rapporti incestuosi tra partiti di governo e Borsa. Vede, non mi sono mai occupato di speculazione. Ho preferito starne fuori, occuparmi d'altro. Sono sempre stato totalmente disinteressato a un certo mondo, a quel mondo lì.

Il disinteresse della politica verso l'economia ha facilitato la concentrazione del potere in campo finanziario e industriale?

Anche troppo.

Che conseguenze ha avuto sul mercato la presenza dominante di Mediobanca e della famiglia Agnelli?

Molto semplice: si sono sviluppate alcune banche e la famiglia Agnelli. Piazza Affari invece è cresciuta meno, perché la presenza dei grandi gruppi è stata schiacciante. Il risultato è che la Borsa non è mai stata molto democratica. Soltanto recentemente è cambiata. Si è cominciato a fare i primi passi, con la partecipazione di milioni di risparmiatori che, direttamente o indirettamente, investono in titoli di società quotate.

Cuccia ha pesato molto in Borsa?

E come no. Praticamente l'ha dominata perché tutte le operazioni maggiori sono avvenute in Mediobanca. La verità è che il mercato non è cresciuto come avrebbe potuto perché non lo ritenevano necessario, non ne avevano bisogno. Una Borsa realmente efficiente in Italia non c'è stata perché andava bene così com'era.

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Vincenzo Matturri


    «Il capitalismo italiano ha molte
    responsabilità: gli aumenti di capitale
    avvenivano per guadagnare sui titoli,
    non per investire nelle imprese.»
Lei è stato agente di cambio e commissario della Consob. Che opinione ha maturato sul rapporto tra il mercato azionario e i principali gruppi dell'imprenditoria?

La Borsa è stata per lungo tempo molto diversa da quella di oggi, che vive della gestione dei portafogli e rende possibile la raccolta di capitali sul mercato per la modernizzazione delle imprese. No, il capitalismo italiano ha molte responsabilità: gli aumenti di capitale avvenivano per guadagnare sui titoli, non per investire nelle imprese. In pratica Piazza Affari serviva solo ed esclusivamente quando era euforica per fare gli aumenti di capitale, magari con sovrapprezzi consistenti. In pratica le società maggiori approfittavano dei momenti favorevoli per collocare nuove azioni a prezzi elevati. Poi aspettavano che le quotazioni crollassero e ricompravano i titoli ricostituendo i pacchetti di controllo iniziali a prezzi inferiori. Così, purtroppo, è sempre stato. Il capitalismo italiano non ha mai fatto nulla perché la Borsa si trasformasse, come poi è avvenuto, in un ambiente più liberistico nel senso giusto della parola, con tutti i controlli che avrebbero dovuto effettuare Consob e Banca d'Italia.

Diamo un volto a questo capitalismo italiano. Chi ne ha approfittato di più?

Non è un mistero per nessuno quali erano le persone che reggevano le sorti finanziarie delle loro aziende: dagli Orlando agli Agnelli, dai Pirelli a Faina e Donegani.

In campo finanziario il regista è stato Enrico Cuccia di Mediobanca. Qual era il suo approccio al mercato?

Cuccia aveva il compito di assistere le grandi famiglie del capitalismo italiano attraverso il sistema bancario. Cosa gli interessava del mercato? Quando mai ha portato avanti il rinnovamento del listino azionario? Ha preferito mantenere la rete di rapporti con il salotto buono della finanza italiana sostenendo le industrie principali e non occupandosi mai di quelle minori, che invece erano sottoposte al giogo del sistema bancario. D'altra parte le imprese di piccole e medie dimensioni non volevano aprirsi a soci esterni, al mercato. E preferivano finanziarsi tramite le banche.

È così che Mediobanca ha tenuto sotto tutela l'intero mondo delle grandi imprese?

Capitalismo di Stato e gruppi privati maggiori si sono sempre supportati. L'IRI e le sue banche si prestavano a grossi finanziamenti, anche a fondo perduto o a tassi agevolati. La FIAT per finanziare determinate operazioni non aveva certo bisogno della Borsa. Quando era necessario entrava in azione un personaggio speciale: il conte Teodorani, incaricato di seguire tutte le norme legislative che agevolavano i finanziamenti. Poi non dimentichiamo che le imprese si sono sempre finanziate tramite i Tfr [cioè i fondi per il trattamento di fine rapporto dei dipendenti], senza diritto di cittadinanza per i fondi pensione, di cui si è cominciato a parlare soltanto pochi anni fa.

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Alberto Milla


    «A Mediobanca andava bene la Borsa come
    volevano loro.  Una Borsa che consentisse
    di avere mano libera.  Invece hanno
    sbagliato perché avrebbero avuto interesse
    a cambiare.»
Come andò l'esordio alle grida?

Per un fiorentino come me fu un disastro. La lingua ufficiale era il dialetto milanese e io non capivo nulla. Poi si facevano tutti dei segni strani, che sembravano misteriosi. Era come un balletto: urlavano, strizzavano l'occhio, c'era una specie di rituale che a me risultava veramente incomprensibile. Già allora c'erano migliaia di telefoni e un centinaio di agenti di cambio, ognuno dei quali aveva un paio di procuratori. Più i rappresentanti delle banche e altri. Faccia conto di uno stanzone in cui si agitavano 1500 persone, con una gran confusione aumentata dal pubblico che guardava e dall'alto faceva segni disperati: erano gli speculatori di giornata che cercavano di attirare l'attenzione dei loro agenti di cambio.

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Lei ha esordito sul parterre e dintorni all'inizio degli anni Cinquanta, quando è decollato lo sviluppo economico del Paese. In quel periodo cambiò anche Piazza Affari?

Pochissimo, per la verità.

Pochissimo?

Pochissimo!

Come mai? In fondo lo sviluppo economico generò ricchezza e occasioni d'investimento.

La cultura del momento era contro il profitto e contro il capitale di rischio. E tutta la politica economica era fatta tramite le banche. Alle società interessava avere finanziamento e allo Stato emettere obbligazioni, per cui il settore del capitale di rischio era molto ridotto. Di fatto non ha mai decollato. Ci fu una dilatazione enorme delle emissioni dello Stato e la Banca d'Italia controllava l'economia più con l'erogazione del credito che attraverso l'aumento dei capitali di rischio. Per questo le società erano più indebitate di quanto sono adesso e ricorrevano meno al mercato.

Certo ci sono state grandi fiammate di tipo speculativo nei periodi d'inflazione maggiore o durante situazioni particolari come la guerra di Corea. Ma erano fenomeni limitati. Si risvegliava il mercato, aumentava l'interesse per la Borsa, la gente spostava un po' di soldi su questo o quel titolo. Poi però la festa finiva presto perché la politica di fondo restava, diciamo così, statalista. Veniva preferito lo Stato imprenditore e, di conseguenza, l'iniziativa dei privati era sempre piuttosto mortificata. Le società stavano tranquille e si facevano finanziare dagli istituti di credito, alla Banca d'Italia andava bene così perché controllava tutto il sistema, i governi erano di centro-sinistra o democristiani, ma comunque di tipo dirigista. Il risultato è che lo sviluppo del mercato finanziario non c'è stato.

Le grandi banche erano dell'IRI o del Tesoro e, generalmente, non erano quotate. In pratica non c'erano possibilità significative di diversificazione. Non solo. Il mercato venne mortificato dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica. Poi non va dimenticato che la borghesia italiana ha temuto per anni che l'Italia diventasse un Paese comunista. Per cui la tendenza, nei limiti del possibile, era di mandare i soldi in Svizzera.

Questo ha influito anche sul lavoro di molti agenti di cambio?

Sicuramente. Molti clienti dicevano: «No, guardi. Se ho un po' di soldi preferisco trasferirli altrove. Perché qui chissà come va a finire, chissà cosa succede!» Non dimentichiamo che nel 1976 i comunisti ebbero una vittoria elettorale straordinaria. Gli anni dal 1965 al 1976 sono stati anni di paura, c'è stato anche il Sessantotto di mezzo, per cui era comprensibile che la gente non avesse voglia di investire in azioni o qualcosa del genere.

Con quali conseguenze in Piazza Affari?

Mortificazioni, grandi mortificazioni. E le riunioni tra noi agenti di cambio servivano per sciorinare il cahier de doléances, mica per altro.

Di fatto erano gli stessi studi degli agenti di cambio che facevano da tramite fra i clienti e la Svizzera. Le risulta?

Questo non lo so. Suppongo, suppongo. Anzi, direi sicuramente di sì, anche se non lo posso testimoniare perché allora c'erano leggi severissime: il reato era penale e non amministrativo, per cui tutto veniva fatto in maniera assolutamente riservata. Dei resto anche le banche...

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